“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 30 July 2014 00:00

Relativamente jazz

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Gremisce pochi attimi prima dell’inizio del concerto la Cavea dell’Auditorium. Herbie Hancock e Wayne Shorter suscitano attesa spasmodica, mentre il tramonto corrusco volge verso il buio di una sera romana non mitigata dal ponentino. Ma all’apparire delle due icone del jazz la temperatura esterna diventa un dettaglio da cui ci si distrae facilmente. L’ampio palco li accoglie al centro, piano e sassofono attendono di vibrare e, davanti ai loro, attende di vibrare un pubblico devoto di appassionati.

Dà fiato al sassofono Wayne, mentre Herbie attacca al piano; Wayne picchietta le chiavi del suo strumento che sembra non vogliano darsi da fare da subito. Sembra… Poi attaccano. Piano, lentamente. Wayne non appare in formissima (un gesto di stizza, una mano battuta al ginocchio, forse una nota non presa), Herbie tiene botta. Ancora piano, lentamente… Herbie aspetta e riparte, Wayne, lentamente, si sveglia. Si affiatano che è un attimo. I loro noti virtuosismi fatti di note frenetiche e armonie suggestive che fanno fremere il pubblico cedono il passo a quelle poche note rarefatte, cercate, quelle di una musica sperimentale e non più quelle che sgorgano con veemenza dalle loro dita. Si attende con ansia il secondo brano, sperando in un’inversione di tendenza, ma la delusione arriva ben presto: il duo ha scelto un repertorio tutto incentrato sulla sperimentazione. Ma piano; hanno un ritmo lento, quasi malinconico. Vanno insieme, si trovano, senza aver bisogno di cercarsi. Ma piano. Come se non volessero disturbare le luci soffuse di una serata romana non mitigata dal ponentino. Buonasera. Eccoci a Roma. Adesso però iniziamo sul serio (si spera). Blu elettrico riverberano le luci sul palco. Si sperava… Ma no, è ancora “piano” l’avverbio che designa l’essenza di questa serata nel segno del jazz. Jazz…Relativamente jazz… Troppo soli? Forse… Basso e batteria probabilmente avrebbero fatto del duo un’ensemble e dato all’esibizione un senso meno “relativamente jazz”.
Herbie distilla sul palco effetti sonori di matrice elettronica. Wayne, Herbie… Questo è il mood della serata? Verrebbe da dire “su, ragazzi, pestate quei tasti, soffiate in quel tubo sonoro! Anche piano, ma fatelo!”. Ma ormai la linea scelta è palese; Wayne insuffla ancora aria nel suo strumento, ma piano; Herbie non pesta, accarezza – com’è anche giusto che sia – i suoi tasti, ma piano. Il disegno musicale prescelto, che sottende e guida ormai è chiaro e non verrà mutato in corso d’opera, questo è altrettanto chiaro. Poi però un sussulto: Herbie guida la carica, Wayne gli va dietro: “piano” è quell’avverbio che conosce sospensione, le dita di Herbie si rincorrono sul piano (che finalmente è uno strumento che sale in cattedra e non più solo un avverbio di modo), Wayne gli segue da presso, ma con energia inferiore, come se gli spettasse il compito di contrappunto minore. Un guizzo, un momento, una fase in cui Herbie fa parlare il suo pianoforte. Ma è solo un’illusione, un’impressione che sfuma: piano, di nuovo.
Anche il pubblico appare leggermente spiazzato: reagisce con rispettosi ma tiepidi applausi: da due mostri sacri, ancorché attempati, ci si sarebbe attesi di più. Ma la scelta di Herbie e Wayne è andata in direzione diversa, sposando lo sperimentalismo degli effetti, in cui le luci blu elettrico si combinano con suggestioni sonore fondendosi in un tappeto acqueo. Effetti ambient, variati verso la fine in qualcosa in cui gli strumenti d Herbie e Wayne ridicono ancora la loro. Ma anche stavolta non è che un breve interludio tra un prima vuoto ed un dopo mezzo pieno; in mezzo poche note su cui innervare variazioni sperimentali cui però manca, in buona sostanza, la capacità di suscitare vibrazioni emozionali e rapimenti estatici.
Il commiato, in linea con quanto espresso dal duo – e non ci si poteva attendere altrimenti, o forse anche sì – segue ancora la scia del filo conduttore dell’intera serata e regala l’ultimo duetto pianoforte e sassofono: piano.
Va bene, è andata così, il concerto non è stato entusiasmante, ma rimane la suggestione di aver visto suonare due leggende del jazz che nella loro carriera hanno regalato a mani piene brani meravigliosi, sapendo magistralmente trarre ognuno dal proprio strumento note magiche frutto di talento indiscutibile. A qualcuno questa loro vena innovativa piace, ma i più andranno via a fine concerto delusi, anche se forse faranno riecheggiare nelle loro menti gli antichi virtuosismi e riusciranno a rivedere le dita di Herbie correre veloci sulla tastiera e le guance di Wayne gonfiarsi per far scaturire note alte e articolate.
Goodbye Herbie. Goodbye Wayne. Poteva essere meglio, ma grazie lo stesso.

 

 

 

Luglio suona bene 2014
Herbie Hancock & Wayne Shorter
Roma, Cavea – Auditorium Parco della Musica, 26 luglio 2014

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