“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 23 June 2014 00:00

Ma sarebbe stato meglio morire?

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Non capita molto spesso di associare la parola “suicidio” a “risate”, per ragioni su cui parrebbe un insulto dilungarsi. Siamo abituati a vedere questo atto estremo contro la vita sempre intarsiato in cornici di dolore e sofferenza, tra drôlerie di tragici eroi spasimanti d’amore. Può un tema del genere, da sempre guardato con un timore e un rispetto quasi reverenziale – come tutto ciò che riguarda la Morte, d’altronde – essere esaminato in modo ironico e allo stesso tempo serio? Può una risata accompagnare quella cornice, senza assumere il tono di una profanazione?

È il rischioso ed esaltante esperimento tentato da Nick Hornby, autore già famoso in Italia e all’estero per i suoi romanzi Febbre a 90°, Alta fedeltà e Un ragazzo. Chi ha familiarità con questi titoli o ne conosce la trasposizione cinematografica, saprà che lo stile di Hornby è schietto, pragmatico, tendente all’adesione quasi completa col modo di pensare dei suoi personaggi.
Non buttiamoci giù, uno dei suoi ultimi lavori, condivide una piccola parte della sua intelaiatura con le opere sopracitate (la tendenza all’autobiografia, le scene al limite dell’assurdo, il sarcasmo) ma allo stesso tempo prende le distanze da tutto ciò che c’è di pregresso, perché stavolta la storia non parte da un personaggio comune per mostrarne le contraddizioni, in attesa che giunga un avvenimento drammatico/straordinario a scuoterlo, stavolta è dall’evento straordinario in questione (la decisione di suicidarsi) che si descrive la lenta e dolorosa strada verso la conquista della normalità. Un percorso all’incontrario, che mostra quanto coraggio ci voglia ogni giorno anche solo per lasciarsi trasportare dalla corrente.
I quattro personaggi che prestano le loro voci alla storia si conoscono in un’occasione alquanto macabra – sul tetto di una casa famosa per i suicidi – ed ognuno ha le sue validissime ragioni per essere lì: Martin si è rovinato carriera e famiglia per essere andato a letto con una quindicenne; Maureen conduce da anni una vita grigia con un figlio disabile che, lungi dall’amarla, nemmeno si accorge di lei; JJ ha perso la musica, l’unica cosa che lo facesse sentire vivo, dopo lo scioglimento della sua band; e infine Jess, una ragazza completamente “smelonata”, si porta dietro il trauma di una sorella scomparsa, odia la sua famiglia ed è appena stata piantata dal suo ragazzo.
Insomma, niente suggerirebbe il materiale per un siparietto comico, eppure è quello che avviene proprio nel momento di massima solennità, sul cornicione della palazzina. Hornby costruisce, facendo leva sulla mentalità assurda eppure perfettamente realistica delle sue quattro creature, una sequela di situazioni paradossali e sempre in bilico tra il tragico e il comico. Nel corso del romanzo si alternano i punti di vista di tutti i protagonisti, dando modo al lettore di vedere la realtà come appare da quattro paia di occhi diversi; e qui l’autore realizza quello che sembra a tratti un prodigio letterario: lungi dall’infiorettare la storia, o dal dare un’aria di vittime della sorte ai suoi personaggi, ne descrive in modo talmente realistico i difetti, le debolezze e le mancanze, da farli apparire simpatici e, soprattutto, incredibilmente veri. Alla fine della lettura, sarà quasi destabilizzante pensare che Maureen, Martin, JJ e Jess vivono solo di carta e inchiostro.
La Morte non viene affatto sminuita o dissacrata dalla narrazione scorrevole ed ironica; anzi, sarà proprio attraverso il sarcasmo e l’accadere di un evento inaspettato, che quella presenza oscura si concretizzerà per ciò che davvero è: un baratro di nera Disperazione, lontana da qualsiasi “scala di possibilità di suicidio”, scelta conveniente o dolore momentaneo.
La convivenza con il continuo dubbio “Ma sarebbe stato meglio morire?” accompagna i personaggi fino alla fine del libro; e non c’è nessuna risposta consolante ad attenderli alla fine del cammino, ma solo la nuova consapevolezza che le cose possono mutare ogni giorno.
Le pagine del romanzo sono tutte dense di piccole riflessioni tra il quotidiano e l’universale; non c’è una sola riga che risulti essere di troppo. Lo stile di Hornby può piacere o meno, dal momento che le concessioni alla lingua “letteraria” sono davvero poche, ma non si può non apprezzarne la freschezza, l’immediatezza, il realismo con cui è delineata la mentalità dei personaggi.
In definitiva, credo che Non buttiamoci giù sia un libro che, nella vita, tutti avrebbero prima o poi bisogno di leggere. Non per trovare delle risposte, perché non ce ne sono; ma per imparare a capire quali domande sia davvero necessario porsi.

 

Nick Hornby
Non buttiamoci giù
traduzione di Massimo Bocchiola
Milano, Guanda, 2008
pp. 293

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