“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 04 June 2014 00:00

Cronenberg o un film perfetto

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Su ogni carne consentita
Sulla fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende 
Io scrivo il tuo nome

(Paul Éluard, Libertà)

Un film perfetto. Un horror quotidiano lucido, freddo, geometrico, in cui la violenza sta dentro i corpi, le menti; e quando esplode lascia solo qualche macchia di sangue sul divano. È un Cronenberg che conferma una linea più sobria, “normalizzata”, e forse proprio per questo ancora più devastante.

All’inizio ti ritrovi quasi in una altmaniana sceneggiata su Hollywood: le stars, le loro manie, i loro segreti, belle case sbattute in faccia, farmaci, droghe. C’è il telepsicoterapeuta da cliché: il dottor Stafford Weiss (John Cusack), che guarisce le anime e i corpi, cita il Dalai Lama, pubblica libri, ha un figlio tredicenne attore miliardario, una bella moglie che fa da agente al giovane attore, una casa magnifica.
C’è anche l’attrice di mezza età da cliché: Havana Segrand, una Julianne Moore (Palma d’Oro a Cannes per questo ruolo, e mai premio fu più meritato di questo) bella e devastata, da una carriera che non decolla, dalla ricerca disperata di conferme che non arrivano, da una madre ingombrante in vita e ancora di più in morte, presenza questa avallata come must hollywoodiano da un cameo di Carrie Fisher nei panni di se stessa, amica della protagonista.
Fuori da tutto questo, da queste vite da stars, Agatha (Mia Wasikowska, l’Alice di Tim Burton, qui ancora più lunare), una ragazza magra e pallida, con lunghi guanti neri, cicatrici malamente nascoste che le deturpano in parte il volto, arriva in città, e forse sta cercando qualcosa.
Ecco, a questo punto ti sei rilassata, hai capito che Cronenberg è invecchiato pure lui, che la cosa prende la piega di una sorta di American Beauty in salsa nevrosi da star system, e lo perdoni giusto per il fatto che attori e sceneggiatura sono perfetti.
Poi cominciano a succedere sullo schermo cose strane.
Non so se il senso di stordimento finale sia dovuto alla perfezione del meccanismo narrativo, al dolore che si dispiega lento e inesorabile quanto la calma follia che non lascia scampo; al fatto che la follia, qui, non è insensata, cosa che la renderebbe sopportabile, ma al contrario ha un senso e una logica. Ma credo sia anche dovuto alle sovrapposizioni semantiche, compresse eppure evidenti, alla struttura geometrica da tragedia greca (quel “mito” che tante volte Agatha vorrebbe evocare), alla hybris che grava sull’uomo e a cui nessuno può sfuggire; all’allegra presa in giro di un mondo, quello del cinema, che si autoalimenta generando mostri, all’allegoria di una società malata e decadente, marcia, che solo il fuoco può purificare, o l’acqua, che compare nel titolo del film della madre di Havana, di cui scorrono ossessivamente alcune scene; all’analisi spietata della mente umana come unico vero inferno possibile, in cui il tempo, il ricordo, sono ossessioni, eppure presenti, perché tutto è cristallizzato in una coazione a ripetere; i morti sono fantasmi, eppure agiscono come e più dei vivi.
Ma è anche un film sul linguaggio, sulle parole (tutti citano qualcuno o qualcosa, tutti hanno dei mantra svuotati di senso e di forza), e su quanto esse siano potenti, evocative, e vane, allo stesso tempo; è un film sulla ripetizione e sulla circolarità del tempo, in cui non accade mai nulla di veramente nuovo, e i gesti e le relazioni sono replicati, come i versi della poesia di Paul Éluard, Libertà, che tutti ripetono, ma a cui nessuno, forse, veramente crede.
Ecco forse la dimensione più affascinante di questo piccolo capolavoro: che il tempo è fermo, perché ferma è la follia dell’uomo, e le ambientazioni sono dettagli; il mito era allora, ed è adesso, sempre e soltanto contemporaneo, perché unica narrazione possibile di un destino ineluttabile, che trova compimento e catarsi solo con sacrifici umani che si compiono anche adesso su improvvisati altari sotto il cielo.


 

Maps to the stars
regia 
David Cronenberg
sceneggiatura Bruce Wagner
con Julianne Moore, John Cusack, Mia Wasikowska, Sarah Gadon, Robert Pattinson, Olivia Williams, Evan Bird
produzione Prospero Pictures
paese Stati Uniti, Canada, Francia, Germania
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2014
durata 111 min.

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