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Wednesday, 09 April 2014 00:00

Save a Prayer

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Anche quest’anno la rassegna Visioni, curata dal Centro Donna in collaborazione con i Quaderni di Cinemasud, offre una panoramica dei titoli più interessanti dell’attuale stagione cinematografica che però non hanno goduto di un’adeguata distribuzione. Da metà febbraio fino ad oggi sono già sette i titoli proposti: questa settimana è la volta di Still Life di Uberto Pasolini.

John May è un funeral officer che lavora per il municipio di Kennington, quartiere sito poco lontano dal centro di Londra. Il suo lavoro consiste nell’organizzare il funerale delle persone che muoiono sole, di cui nessuno reclama la salma. E difatti John arriva sul luogo del decesso come un esperto di armi chimiche (indossando tuta e guanti bianchi anticontaminazione, da vero professional) per prelevare quei documenti ed effetti personali utili a contattare i parenti o gli amici del defunto, i quali, una volta avvertiti del decesso, sono caldamente invitati dal Nostro a partecipare ai funerali (con esequie e viaggi a carico del Comune). Se non riesce a convincere nessuno dei parenti/affini, John organizza la funzione (scrivendone il sermone sulla base dei pochi elementi relativi alla vita e agli interessi dell’estinto) a cui partecipa da solo, scegliendo tra i riti delle diverse confessioni e fornendo all’occorrenza le musiche per la cerimonia (dalla sua collezione di cd di musiche buone per ogni nazionalità e credo religioso).
La vita di John finisce per combaciare con il suo lavoro: vive da solo in uno dei tanti mini-appartamenti dei casermoni popolari con le scale esterne (ricordate le ambientazioni di Riff Raff e di molti altri film dal milieu proletario degli ultimi venti anni di cinema inglese, dove alle caratteristiche case dai mattoni rossi a due piani si è passati a questa sorta di motel multipiano?), organizza metodicamente la sua vita con gesti regolari e stereotipati, mangia e beve sempre le stesse cose, non ha affetti né amici. Unico hobby che lo impegna a casa, collezionare le foto dei morti di cui si è occupato (li cataloga come “closed case”), quasi come se fosse quello l’abum dei ricordi personali, le immagini di genitori, fratelli, amici, la sua famiglia insomma. Un’esistenza meticolosa, ordinaria, grigia (colore predominante negli interni) scossa da un improvviso quanto inatteso licenziamento: dopo aver trascorso metà della sua vita in quell’impiego, un giovane ed antipatico superiore gli comunica bellamente che i lui è troppo lento sul lavoro, che alcuni uffici sono stati accorpati con conseguente esubero del personale (veramente questa la nota irreale, fantastica, del film – qui da noi gli impiegati comunali possono stare tranquilli). A John non resta che portare a compimento l’ultimo caso, che però lo sconvolge anche per un altro motivo: ad essere trovato morto già da alcuni giorni è un vecchio, suo dirimpettaio, che forse aveva sicuramente incrociato ma di cui non si era accorto. Per questo il solerte travet si impegna a rintracciare coloro che hanno avuto rapporti col defunto e lo fa con particolare solerzia ed acume investigativo, riuscendo a poco a poco a ricostruirne la vita, attivandosi – contravvenendo alle rigidità del suo tran-tran quotidiano – nella ricerca che lo porta a conoscerne un collega di lavoro, la donna con cui aveva convissuto dopo la separazione, un amico ex-commilitone nella guerra delle Folklands, la figlia abbandonata ancora ragazzina.
Piacevole conferma questa seconda regia di Uberto Pasolini, italiano trasferitosi in Inghilterra con l’amore per il cinema espresso prima come assistente di regia e poi come produttore. Nel 2008 il suo esordio dietro la macchina da presa con Machan, presentato alle Giornate degli autori a Venezia, scritto insieme a Ruwanthie De Chickera, autrice e regista teatrale cingalese.
Tratto da una storia vera, il film segue le vicende di alcuni giovani dello Sri-Lanka che si spacciano come la nazionale di palla a mano del proprio paese per poter emigrare in Germania, paese organizzatore del campionato. Film che riscuote un certo interesse, dove la descrizione delle difficoltà materiali assume toni realistici e sinceri, prima di indossare quelli della commedia sociale tipica (e non dimentichiamo che Pasolini ha prodotto Full Monty, a tutt’oggi il più grande successo cinematografico inglese). Still Life riscuote maggiori e meritati consensi, aggiudicandosi il premio per la miglior regia negli Orizzonti veneziani del 2013.
Scritto interamente dal regista, il film prende spunto da un articolo che trattava dei funeral workers, costretti al superlavoro in seguito ai tagli imposti dalla crisi: il regista ne ha seguiti alcuni sul lavoro, rimanendo colpito dal numero crescente di persone che muoiono in completa solitudine. Ne è scaturita un’opera che trova i suoi punti di forza nella scrittura convincente e misurata capace di costruire una personalità senza eccessive didascalie, nella regia funzionale all’argomento e allo svolgimento, con movimenti sobri e andamento pacato, e nella straordinaria recitazione di Eddie Marsan, caratterista londinese attivo sia al cinema che alla televisione, ingaggiato anche in produzioni americane. Con pochi ma efficienti tratti l’attore da vita ad un personaggio quasi astratto che si muove in un’atmosfera sospesa: le inquadrature stilizzate intercettano una città con strade quasi deserte, paesi costieri affacciati su un mare grigio, cimiteri immersi nel silenzio del verde dove spargere frettolosamente le ceneri di chissà chi. Non è un mondo realistico quello in cui si muove John May, ma una sorta di acquario dove tutto è attutito come in una natura morta, una still life insomma, accompagnata dalle musiche parche e dolenti di Rachel Portman (ex moglie del regista). Un mondo in cui il Nostro si ingegna per dare un senso a quelle morti non piante, non elaborate, crudeli perché non rendono fama né giustizia a chi si portano via, anzi ne cancellano la memoria (sperduta in qualche polveroso archivio comunale). Per portare un ordine alla morte, sussumerla nell’alveo della ritualità e del già noto, unico modo per comprenderla e per resisterle.
Infine, premesso che il tono è quello riflessivo della poesia cimiteriale, l’ipotesi di una prospettiva fantas(ma)tica non sembra compromettere l’unitarietà tematica e stilistica del racconto né tantomeno giustificare esagerate riserve di natura ideologica. E’ un destino, quello della settima arte, di affermare perentoriamente anche laddove vuole soltanto suggerire, essere seria anche quando vuole solo giocare o far pensare. Ma non era il cinema il regno del possibile?

 

 

Visioni
Still Life
regia Uberto Pasolini
con Eddie Marsan, Joanne Froggatt, Karen Drury, Andrew Buchan, Ciaran McIntyre, Neil D’Souza, Paul Anderson
paese Gran Bretagna, Italia
distribuzione Bim
sceneggiatura Uberto Pasolini
fotografia Stefano Falivene
musica Rachel Portman
lingua originale inglese
colore colore
anno 2013
durata 87'
Avellino, Cinema Partenio, 2 aprile 2014

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