“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 07 January 2013 19:36

Toro scatenato o dell'uomo

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Pochi film hanno la capacità di concentrare in una singola scena, solitamente detta “scena madre”, il loro senso più intimo e profondo. Uno di questi è sicuramenteToro scatenato, film diretto da Martin Scorsese nel 1980 e basato sull’autobiografia del grande peso medio italo-americano Jake La Motta. E pensare che il film deve la sua nascita al sorprendente successo di un altro grande film sul pugilato, Rocky, scritto ed interpretato nel 1976 da Sylvester Stallone, nascente stella del panorama hollywoodiano. Senza l’enorme impatto mediatico del fenomeno Rocky Balboa l’opera di Scorsese non sarebbe mai stata prodotta. I parallelismi tra il film di Scorsese e Rocky sono, tra l’altro, interessanti ai fini della nostra trattazione. Entrambi i personaggi sono figure del basso proletariato, di quelle che si arrabattano, oltre che per un tozzo di pane, per conquistare un briciolo di dignità che consenta loro di poter camminare a testa alta e prendersi una rivincita verso la società che li ha emarginati. Entrambi saranno protagonisti di un sacrificio fisico che ha tutti i connotati del martirio, usando, tra l’altro, quella che è la simbologia cristiana della sofferenza.

Emblematica la prima inquadratura di Rocky dove un dipinto del volto di Cristo spadroneggia sul ring, mentre Scorsese, che sappiamo non essere nuovo alla poetica del cristianesimo nei suoi lavori, chiude Toro scatenato con una didascalica citazione del vangelo di Giovanni 9:24-26: “Una cosa so, prima ero cieco e adesso ci vedo”. I parallelismi tra le due opero però finiscono qui. Se infatti il personaggio di Stallone risolleva le sue sorti di reietto fino a diventare una star fuori e dentro la scena (è stato inserito per davvero nella hall of fame of boxing per il grande contributo dato a questo sport), il La Motta di Scorsese invece percorre una parabola di sofferenza senza risollevarsi dal suo male. Una sorta di Barry Lyndon in chiave moderna. Come nel film di Kubrick infatti anche il nostro La Motta sembra schiacciato dal proprio destino nonostante i notevoli successi professionali. Jake La Motta infatti è stato uno dei più grandi pugili di tutti i tempi. Dopo una serie impressionante di vittorie fu poi costretto a piegarsi all’organizzazione criminale che all’epoca imperversava nel mondo della boxe per ottenere una chance per il titolo. Dovette infatti perdere un incontro combinato per accedere alla finalissima con Marcel Cerdan, pugile francese dalle enormi qualità e dal palmares spaventoso (oltre 100 incontri senza sconfitte prima di inchinarsi, per altro con un braccio rotto al primo round, a La Motta). La scena dell’incontro che lo rende campione del mondo però è appena accennata e, anche se segna indubbiamente l’apice del pugile, coincide con il suo declino di uomo. Se Rocky e Lassù qualcuno mi ama (altro film ispiratosi alla biografia di un peso medio italo-americano, Rocky Graziano, contemporaneo di La Motta e suo grande amico tanto che i due rifiutarono sempre di battersi l’uno contro l’altro) percorrono una retta che porta all’incontro finale per dare al protagonista un’aureola da eroe immortale dopo il martirio subito, Scorsese invece non concede alcun trionfalismo al suo personaggio e, fedele al prosieguo della vita di La Motta, si sofferma sulla parte post-pugilistica raccontandone la disfatta. La carriera di La Motta infatti viene chiusa dalla sua crocifissione sul ring ad opera di Sugar Ray Robinson. I due si erano già incontrati la bellezza di cinque volte, una vittoria per Jake e le restanti (sempre tiratissime) per Robinson. Nel loro sesto incontro assistiamo invece ad una lezione terribile, un vero e proprio pestaggio (nel film ovviamente molto enfatizzato). Sugar resiste agli attacchi feroci del toro del Bronx e, quando quest’ultimo ha ormai finito la benzina, sferra tutta la sua devastante potenza e precisione, tanto da indurre l’arbitro a fermare l’incontro alla tredicesima ripresa. La messa in scena del regista è granguignolesca, La Motta si stende alle corde per sorreggersi e, allargando le braccia, sembra simboleggiare la crocifissione di Cristo già menzionata. La scena del martirio è impietosa, La Motta (interpretato, meglio non dimenticarlo, da un De Niro maestoso) sputa sangue e ne è ricoperto fino alle ginocchia. Ma non c‘è redenzione. Il nostro protagonista perde così il titolo e siamo tentati di ricordarlo solo con la grossa pancia e l’aria incazzosa da sconfitto, come nella scena in salotto a discutere con il fratello, alle prese con un panino ed una televisione che fa i capricci, ma soprattutto imbruttito da un vistoso addome. Gran parte del film, tra l’altro, ci aveva mostrato un De Niro in perenne lotta con i suoi problemi di peso e i dialoghi erano più intorno ad un tavolo che in una palestra (queste scene sono inoltre arricchite da coloratissimi scontri dialettici con il fratello, interpretato dal sempre bravissimo Joe Pesci, e le caratterizzazioni sono degne del miglior teatro eduardiano). Insomma il nostro eroe si strugge e si contorce contro ogni genere di problematica, dal già menzionato peso ai problemi con i capi del suo quartiere che vorrebbero accaparrarselo per truccare incontri, passando per la gelosia verso la sua bellissima moglie Vicky che alla fine, esausta, lo lascia. C’è una scena però che sintetizza perfettamente l’impossibilità di quest’uomo di aspirare ad altro, ed è a questa che ci riferivamo all’inizio di questo scritto quando parlavamo di “scena madre”. Dopo dieci minuti circa di film infatti vi è un dialogo tra i due fratelli: “C’ho le mani piccole, le mani di una ragazzina” dice un pensieroso e frustrato La Motta, e aggiunge: “Sai che significa? Che anche se divento grosso, anche se batto tutti, qualunque cosa io faccio, non potrò mai combattere con Joe Louis. […] Non avrò mai la possibilità di combattere con il migliore che esiste e invece io so che sono meglio di lui, e non avrò mai questa occasione. E tu mi chiedi cos’è che non va?!” Il fratello, che non ha colto la riflessione, lo liquida rispondendo: “Quello è un massimo, grazie al cazzo, tu sei un medio. Non è possibile, non succederà mai. Perché ti ci stai a rodere il fegato?!”. Il nostro Jake sente, sin dalle prime battute del film, che qualunque cosa lui faccia non riuscirà mai a raggiungere quella completezza individuale alla quale tutti gli uomini aspirano. Profeticamente infatti La Motta percepisce che sarà ricordato, nonostante riesca poi in seguito a vincere il titolo, solo per essere stato il più grande rivale di Ray Robinson, comunemente considerato il migliore di tutti i tempi (nel film La Motta vorrebbe un incontro con Joe Louis, sia perché la rilevanza mediatica dei pesi massimi non ha paragoni con le altre categorie a prescindere dagli interpreti, sia perché all’epoca Luois era già un mito ai livelli del futuro Muhammad Ali, mentre Robinson, che non era ancora esploso in tutto il suo talento, non sarebbe mai diventato un fenomeno popolare di tale portata). Ad onor del vero però va detto che oggi, grazie alla grande fama del film, è Robinson ad essere ricordato come il grande rivale di La Motta dai non affezionati di boxe, anziché il contrario. Ritornando ai fatti filmici, avevamo lasciato il nostro protagonista alle prese con un panino ed un’antenna della tv difettosa. La sua pancia continua ad ingrassare, la gelosia è diventata inaccettabile, il suo matrimonio va a rotoli e con esso anche il rapporto con il fratello che lo abbandona. La Motta, come già raccontato, perde quindi il titolo contro Robinson, l’unica soddisfazione che gli rimane è urlargli in faccia, barcollante e insanguinato: “Non mi hai buttato giù, non mi hai ‘mai’ buttato giù”.

È la fine della carriera e l’inizio dell’epilogo del suo percorso umano, o per meglio dire, di uomo civilizzato. Vediamo un ormai obeso La Motta gestire un locale notturno come facevano i malavitosi che lui cercava anni prima di tenere alla larga, cimentarsi nel cabaret più volgare e finire travolto in uno scandalo legato al giro della prostituzione aggravato dall’accusa di una minorenne. Jake finisce in carcere a piangere e urlare percuotendo il muro della cella a colpi di montanti (e qui De Niro ci fa accapponare la pelle dividendosi il merito, nella versione italiana del doppiaggio, con il grande Ferruccio Amendola: “Perché, perché, scemo, scemo. […] Perché sei così stupido. Mi hanno chiamato animale. Io non sono un animale, non sono un animale, non me lo merito. Io non sono così”. Lo straziante dolore del protagonista non può lasciarci insensibili, la compassione dello spettatore è sincera, ma avviene con un processo empatico del tutto diverso da quello che si può avere verso un innocente ingiustamente accusato o un uomo per bene travolto da un male tremendo. No. La nostra compassione è più profonda perché, è vero, Jake La Motta è proprio così come lo accusano di essere: un animale. Un uomo travolto non dal destino, ma da se stesso. L’intera riflessione operata dal regista è un resoconto lucido dei fatti riguardanti un uomo meschino, un pessimo individuo come ce ne sono tanti (troppi o tutti, nel film non ci sono personaggi dichiaratamente positivi), che ha l’ulteriore demerito di riflettere sulla sua condizione di mediocre ed angosciarsi per essa. In un modo o nell’altro il “vero” Jake La Motta, dopo le peripezie raccontate, riuscì nella vita reale a risollevarsi, se non altro a fare una vita agiata con qualche ristorante e night a suo nome, il personaggio del film invece rimane intrappolato in questo suo bisogno, potremmo dire, desiderio di divenire altro da sé (ne è metafora il finale dove scimmiotta i grandi attori del teatro tipo Olivier). Lo stesso Scorsese in un intervista disse: “Jake è un uomo primordiale”. Forse è un uomo che sta muovendo i primi passi verso l’evoluzione o forse è un’allegoria dell’eterna e sofferente mancanza che ogni uomo si porta dentro e che lo rende reale. Il pugilato si è prestato spesso, e forse meglio di altri sport, a queste metafore cinematografiche (e non solo, basti pensare su tutti a London e Hemingway nella letteratura) delle sorti umane. Del resto, il cinema stesso muove i suoi primi passi grazie alla boxe, almeno negli States. Mentre in Francia, infatti, i fratelli Lumière sperimentavano riprendendo l’arrivo di un treno, gli americani preferivano inquadrare pugili sul ring. Ma questo, come lo stesso Scorsese affermò, non è un film sulla boxe, bensì un intervento chirurgico sull’anima di un uomo che riflette, come in uno specchio, l’infelice condizione di ogni senziente abitante dell’universo.

 

Retrovisioni

Raging Bull (Toro Scatenato)

regia Martin Scorsese

con Robert De Niro, Joe Pesci, Cathy Moriarty, Frank Vincent, Nicholas Colasanto,

produzione United Artists

prodotto da Irwin Winkler, Robert Chartoff

soggetto Jake La Motta, Joseph Carter, Peter Savage

sceneggiatura Paul Schrader, Mardik Martin

paese USA

lingua originale Inglese

colore B/N con sequenze a colori

anno 1980

durata 129 min.

 

 

 

 

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