“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Appunti su "Il giocatore"

Premessa
Il giocatore è un allestimento complesso, complesso è il passaggio che cerca da un genere (la letteratura) a un altro (il teatro), complesse sono le relazioni tra attore e personaggio, tra attore ed attore, tra personaggio e personaggio che impone. Ne scrivo quando le prime repliche sono quasi terminate, avendo però la sensazione che la messinscena sarà ripresa: forse al Bellini; probabilmente in tournée la prossima stagione. Allora metto giù un insieme di appunti, a futura memoria, rispetto a uno spettacolo sul quale sarà necessario ritornare ancora.

Ahia, la vita!

Uffa!

Il guappo di Eduardo, il boss di Martone

La scena
Martone colloca Il sindaco del Rione Sanità su una pedana trasparente, quadrata (concretizzazione di quel mondo “meno tondo e più quadrato” cui aspira Barracano) e contraddistinta da tratti che ne fanno un labirinto: base domestica volutamente simbolica, rappresenta uno spazio nel quale chi lo abita ritorna sui suoi passi, sulle stesse dinamiche, su traiettorie quotidiane, ripetute e che non prevedono uscita definitiva (fisica e mentale). Questo è l'orizzonte prospettico, il contesto d'azione e – nella logica dell'autoreclusione da clan – il bunker in cui il boss ed il suo gruppo si riuniscono, tramano, ricevono o sequestrano, ascoltano o interrogano, operano, regolano conti, minacciano e  schiaffeggiano.

La Vocazione di Manfredini

“Caro Patron,
vi scrivo una lettera dopo una prova in cui ho detto delle vostre parole. Le ho dette a me stesso, le ho dette a Giulia che era Claudia, le ho dette ai ragazzi, le ho dette a un pubblico ancora immaginario: domani non lo sarà più. Sarà il pubblico vero, l'unico, eterno, uguale pubblico di sempre. Il vostro, il mio e quello di coloro che verranno dopo di me come è stato quello di coloro che sono venuti prima di noi. Ci siamo nutriti con grande commozione dei vostri pensieri ed io non so dirvi molto”.

La commedia di Nora (e quella di Filippo Timi)

Una bugiarda matricolata
In Una casa di bambola Nora mente di continuo: sottrae la visione dell'albero di Natale ai bambini, giura il falso al marito (due volte) in merito ai pasticcini e ai cioccolatini che ha mangiato in città e, quando si tratta di assaggiare gli amaretti che nasconde in casa, afferma che non li ha comprati lei ma l'amica che è venuta a trovarla.

Amatevi, fino al silenzio

L'amore è Amore ci dice Spiro Scimone: senza aggettivi che lo qualifichino; senza indizi che lo precisino (luogo di provenienza, titolo di studio, condizione economica); senza differenze di sesso (riguarda gli esseri umani prima ancora che un uomo e una donna, una donna e una donna, un uomo e un uomo). È Amore quello che spinge due adolescenti a baciarsi nel pieno della folla, senza quasi mai prendere fiato, o che li porta a cercarsi l'angolo immerso nel buio di un portone, nel quale toccarsi con la stessa foga che un assetato ha di bere; è Amore quello di due anziani che si baciano meno ma che, forse, si guardano di più, attenti come sono a proteggere l'uno la fragilità dell'altro. È Amore l'amore di due madri che accompagnano, ogni mattina, una terza donna – una bambina – a scuola; è Amore l'amore fatto da due uomini per festeggiare, stasera, questa casa che siamo riusciti finalmente a comprare, che adesso è la nostra e che la nostra sarà per i giorni a venire.

Di quel cielo, di questo fondale

Antonio ha sognato Daria stesa per terra, in strada, intenta a chiedere l'elemosina nei pressi del Teatro Argentina di Roma: piove – ci racconta – gli schizzi rimbalzano sull'ombrello ed io mi affretto finché non vedo Daria, lacera accattona: rallento, l'osservo, la riconosco ma non si fermo, proseguendo diritto. “Io, nel sogno, non mi sono fermato. Perché?”.

Dell'Amleto di Iodice, del malessere di Napoli

Per Jan Kott mettere in scena l'Amleto, nella sua integrità, è impossibile. Non è tanto una questione di durata, sei ore circa, quanto d'ampiezza di significati – di vastità dell'opera. Capita perciò non solo che si debba tagliare, scorciare, eliminare scene o battute, luoghi o personaggi, ma – ancora di più – che un regista o un interprete debba accontentarsi di rappresentare, nel perimetro limitato di questo palcoscenico, “uno soltanto degli Amleti” contenuti nell'Amleto. Sia chiaro: sarà sempre e comunque più povero e modesto di quello shakespeariano – lo sbircio dato a un panorama troppo vasto per essere contenuto da un qualsiasi sguardo umano – ma può essere almeno, ci avverte Kott fiducioso, “un Amleto arricchito della nostra contemporaneità” e se ciò è possibile è perché si tratta di un testo che non puoi limitarti a rappresentare, aderendogli come il volto aderisce ad una maschera, ma t'impone una riflessione epidermica e della coscienza, una messa in gioco di te stesso fisica e morale, una partecipazione maggiore di quella imposta da qualsiasi altra drammaturgia che appartiene al grande canone del Teatro.

Un delirio pirandelliano

Il Camelot
“Non sono nato a Messina. La prima volta che ho sentito parlare dell'(ex) ospedale psichiatrico Mandalari è stato a causa dell'Opera dei pupi. Stavo aiutando Venerando Gargano, l'ultimo puparo della città, a registrare un cunto in cui ripercorreva il curriculum centenario della sua famiglia e venni a sapere che Rosario, suo padre, proprio nel periodo di massima indifferenza della città verso i suoi gloriosi paladini, fece laboratori ai pacci di Mandalari” – ai pazzi del Mandalari.

Dell'attore di Jouvet; dell'Elvira di Servillo

Per un elogio del disordine
Ogni pensiero, ogni frase, ogni parola, ogni lacerto teorico – ogni lezione – con Jouvet assume la dimensione concreta, artigianale ed umana, del teatro allestito in teatro. Qui, sul palco, tra quinte scure, con qualche piazzato o qualche faro verticale a fare luce, nell'aria l'eco del rumore di un passo – un tacco ha appena battuto sul legno – mentre sulle poltrone della platea giacciono le borse, i cappelli, le sciarpe e i cappotti degli attori.

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il Pickwick

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