“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Chiaromonte, un quaderno e due attori

“Dobbiamo fidarci di noi stessi, smettere di abdicare
al nostro sguardo per guardare soltanto quello che
tutti guardano, questa dubbia eucarestia a cui volta
per volta diamo nomi diversi: mainstream, società
globale, mercato. I numeri del teatro sono esigui?
Pazienza, sono almeno certi: disegnano la concretezza
di un incontro, la comunione di un'esperienza”
(Attilio Scarpellini)

 

“La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”
(Massimo Troisi)

 

“Cosa abbiamo condiviso?”
(Peter Brook)

 

 

Nicola Chiaromonte quasi ogni sera andava a teatro, alternando le grandi sale – nelle quali assisteva alle produzioni di quelli che oggi definiamo addirittura Teatri Nazionali – ai piccoli luoghi, “i teatrini e stambugi”, così li chiamava, dove gruppi di artisti “cercano di mettere su degli spettacoli non convenzionali” stando a un metro dalla prima fila della platea: ne puoi sentire “il fermento”, diceva Chiaromonte, ne puoi sentire la voglia e il respiro, l'imperfezione inevitabile delle scelte, la forza (quasi sempre non necessaria) dei gesti, il valore che ha uno sguardo e la voce – che qui è ancora pura, nuda – e ne puoi sentire i silenzi, i vuoti, la fragilità e la verità, ben oltre ogni realismo.

Fingendo, in ossequio al Potere

1928, 1929, 1930, 1931...

Recitare, fino a scomparire. Un trittico

Si parla sempre della nostra volontà di esibirci;
mai del fatto che vogliamo anche scomparire.
(Erland Josephson, Memorie di un attore)

 

 

 (Gli attori del Teatro Vachtangov)

Aemilia, Dickens e questa luce, tra le tenebre

Aemilia, terra di mafia
“Le ndrine hanno colonizzato Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e registriamo infiltrazioni da queste regioni anche nel Veneto”. Le parole sono del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e fanno parte dell'incipit di un volume leggibile online: è scritto da due giornalisti (Gaetano Alessi e Massimo Manzoli), è intitolato Tra la via Aemilia e il West e per sottotitolo recita Storie di mafie, convivenze e malaffare.

Il sindaco, il bando e i piccoli teatri

L'annuncio
Intervenendo a Mattina 9, morning show televisivo in onda su Canale 9, Luigi de Magistris a un punto dichiara: “La legge Delrio non prevede la cultura come materia delle Città Metropolitane” ma “siccome cultura è anche economia a brevissimo partirà un bando da un milione di euro per finanziare tutti i piccoli teatri dei novantadue Comuni della Città Metropolitana di Napoli”. D'altronde, aggiunge, “mentre i grandi teatri hanno risorse pubbliche per i piccoli abbiamo pensato a questo bando”. La notizia viene diffusa dalle agenzie, ripresa dalle testate locali, commentata con entusiasmo da esponenti della giunta, ribadita il giorno dopo dai quotidiani cartacei: “a brevissimo”, “un milione di euro”, “tutti i piccoli teatri”.
È il 27 marzo 2017.

Non mi resta che lasciarti andare

L'arte del biografo consiste nella scelta. Non deve preoccuparsi  
di essere vero, deve invece creare entro un caos di tratti umani. 
Alcuni pazienti demiurghi hanno radunato per il biografo certe idee, 
certi movimenti della fisionomia, certi avvenimenti. La loro opera si 
trova nelle cronache, nelle memorie, negli epistolari. In mezzo a
questo ammasso il biografo seleziona quanto gli serve a comporre
una forma che non somigli a nessun altra.
(Marcel Schwob, Vite immaginarie)



Nel secondo atto de La vita ferma di Lucia Calamaro Riccardo prende per mano Alice, sua figlia, e guardando Simona le dice: “La bambina ha fame, la porto al bar a prendere un tramezzino”; papà “andiamo al bar?” interviene la figlia; “No” le risponde Riccardo. Da cinque minuti – cinque minuti di teatro, nei quali c'è più di mezza giornata – Riccardo sa che Simona ha un tumore e che “una soluzione non c'è”.

La fine che rischia una giovane compagnia

I “Randa”, abbreviativo della parola “Randagi”, sono sette amici che fanno musica nei piccoli locali dell'hinterland milanese. Restano in sette fino a quando – notati da Mogol e dal produttore Oscar Prudente e allettati dalla promessa di una “prospettiva discografica a livello nazionale” – diventano in cinque, sacrificando alla stipula di un contratto due dei componenti: cambiano il nome in “Gruppo Italiano” e incidono il primo LP, che viene distribuito dalla Mara&C. (dove “Mara” sta per Mara Maionchi): Maccherock s'intitola; è il 1982. Il Gruppo Italiano fa così comparsa nella televisione commerciale, viene poi ospitato su Rai Uno, è citato come “band rivelazione dell'anno” da Renzo Arbore in un articolo pubblicato da Il Corriere della Sera, moltiplica i concerti a Milano. Sono i mesi del grande turbamento, quelli in cui il sogno di un manipolo di ventenni sembra si stia realizzando in concreto; sono i mesi in cui il Gruppo Italiano – preso dal vortice di questa crescita accelerata – pensa, scrive e incide il singolo Tropicana.

Agli Orli, tra testo e spettacolo

Cinque donne stanno in un largo trapezio di sabbia, delimitato da assi di legno. Non ne conosco il nome, la città in cui sono nate, l'età; non so se abbiano un marito o dei figli, dove siano i loro genitori, da dove provengano e dove siano dirette. Di queste cinque donne non so neanche che aspetto abbiano: di che colore siano gli occhi o la pelle, come sorridano, che abiti indossino, come sia il corpo e la voce, che atti compiano mentre si stanno parlando. Di loro so soltanto ciò che vogliono farmi sapere: che non si sono lamentate, non hanno pianto, non sono scappate; che sono state a lungo in silenzio, hanno mangiato e dormito. Di una scopro che ama correre scalza, di un'altra l'attitudine al comando, di un'altra ancora il disprezzo per ogni forma di sopruso: “Non sopporto la sopraffazione” dice infatti. Una racconta la passione che ha per i treni, quegli stessi treni che invece un'altra detesta: “Avevo le gambe legate, non potevo muovermi. Mi caricarono sul vagone come un pacco” ricorda, subito dopo aver raccontato l'infibulazione patita da bambina: “Le braccia e le gambe ben ferme, tenute da mani che sanno serrare. Anche la bocca ben chiusa, cinque dita che premono sulle labbra, perché nessuna parola deve sentire chi arriva. Ed eccolo, finalmente: un drago, le ali spiegate, grandissimo. Riempie tutta la stanza e apre la bocca, proprio nel mezzo delle gambe” e “la sua fiamma brucia come nemmeno il fuoco riesce a bruciare”. Il fuoco “recide, strappa, lacera”; poi chi assiste inizia a cucire: “un buco, due buchi, dieci buchi nella carne”.

Di questo inevitabile oblio

In Empire Milo Rau fa sorgere nella penombra del fondo di scena una palazzina diroccata mentre a metà palco quattro attori, in piena luce, abitano una cucina: la stanza che è già famiglia, la parte di casa in cui c'è più calore, le pareti tra le quali siamo abituati a intrecciare permanenze e confessioni quotidiane. Da questa cucina – allestita veristicamente – i quattro narrano, ognuno nella sua lingua, il posto e il tempo da cui vengono e dicono di una tentata, e personale, Odissea del ritorno: un ricontatto col passato che si rivela fisicamente impossibile poiché il loro luogo d'origine – il Kurdistan, la Grecia, la Siria, la Romania – nella forma in cui lo ricordano è nel frattempo scomparso: inghiottito dagli anni, ridotto in macerie dalla guerra, mutato irreversibilmente dagli uomini e dalla Storia. Quel che ci rimane quindi, perduto il fuoco originario, è la possibilità di farne almeno racconto, per citare Giorgio Agamben.

Dal silenzio al silenzio. Insieme

Di cca si vede tuttu u munnu.
Si vidunu tutti i cosi.
Puru chiddi chi non si vidunu.

(Tino Caspanello, 'Nta 'llaria)

 

 

Un balcone. Un doppio raggio di luce. Il cinguettio dei canarini. Poi la luce degrada, i canarini tacciono. Il balcone scompare. Silenzio.
Buio.

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il Pickwick

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