Apprendiamo che per bulé nella lingua di Bali si intendono i bianchi, i diversi, gli Altri. I tre artisti sono in un certo senso loro stessi dei Bali bulé: Bickerton e Sciascia vivono a Bali oramai da anni, mentre Ontani ci va spesso e si trattiene per alcuni periodi. Ciò che colpisce immediatamente Sam Weller è che non si tratta della solita mostra che mette a tema il rapporto tra le culture, e neanche della solita malinconia dell’uomo civilizzato verso un paradiso in cui tutto sarebbe più vero, più puro, più incontaminato. Il solito uomo occidentale che scopre il senso profondo della natura umana attraverso il contatto con un mondo che fa della sua purezza la sua assurda ingenuità. A Sam Weller non è sembrata quella l’aria che tirava nell’atrio e nelle sale del Museo Archeologico, poi può essere anche che gli artisti lo pensino, e che magari non tornerebbero manco morti a vivere in una metropoli occidentale o occidentalizzata e globalizzata, ma intanto il lavoro che svolgono è quello di una decostruzione degli stereotipi culturali, non soltanto quelli nostri, occidentali, quelli dello sguardo dell’occidente, ma anche quelli orientali per come ancor’oggi decidono di presentarsi agli occhi dei bulé. Lo stereotipo è cosa radicata e dura e soprattutto si riproduce rapidamente in un mondo rapido.
In questa mostra c’è qualcosa d’altro, però. In primo luogo una presa in giro radicale e ironicamente feroce degli stereotipi culturali, la sua stessa collocazione all’interno di un museo archeologico che raccoglie le meraviglie dell’arte greco-romana ne è una prova. E ancor di più ne è la prova la collocazione di una scultura, sempre opera di Ontani, che rappresenta una sorta di divinità balinese (o comunque per noi genericamente orientale – ah! Said quanto tempo dovrà ancora passare perché l’orientalismo e di conseguenza l’occidentalismo possano scomparire!) la cui connotazione più divertente non sono né i serpenti che impugna né le decorazioni che ricordano le riggiole, bensì il fatto che ha la faccia da impiegato di banca! Insomma, l’effetto è quello di straniamento. Il dialogo con gli ambienti è esso stesso sì “funny” ma anche realmente profondo.
La stessa disposizione delle opere mette lo spettatore dinanzi all’esigenza di chiedersi cosa sia veramente “arte”. Sì! l’arte classica è per eccellenza il modello etc. etc., l’armonia e l’equilibrio etc. etc., apollineo e dionisiaco etc. etc., ma poi che senso ha tenere chiuse in un museo robe che decoravano palazzi, strade, piazze, terme, che avevano una funzione propagandistica o semplicemente di narrazione di grandiosità, e che senso ha disegnare finte maschere balinesi, ferocemente ironiche, piazzandole su splendide colonnine accanto alle erme greco-romane? Che senso ha quest’immenso gioco al quale Sam Weller sta assistendo? È più “funny” immaginare persone che ammirano (o fingono di? – non dimentichiamo che i doveri dell’intellettualità sono tanti e spesso onerosi) il bello classico quando questo non riesce più a parlare, o un artista contemporaneo che gioca con i modelli culturali orientali e occidentali e li mescola e rimescola fino a far perdere la cognizione?
Poi c’è Filippo Sciascia che fa un lavoro di una bellezza vera, ibridi culturali tra la nostra ossessione classicista e l’orientale ossessione per certo simbolismo figurativo. Su colonne che però sono organiche, tronchi di felce, installa figure in legno in cui i classici profili da scultura greca si incontrano con campanelli e cavallucci marini che richiamano ritualità balinesi. Anche qui il gioco è sullo straniamento dell’arte, il gioco è sempre l’arte nel suo essere straniante. Forse non è “funny” ma ha qualcosa di dolorosamente riuscito.
Infine Bickerton il grottesco, Bickerton il mostruoso, Bickerton l’eccessivo. La rappresentazione grottesca del femminile che presenta, impastata di materie artificiali e naturali, di colori eccessivi e disturbanti, non è altro che, ancora una volta, il rovescio del bello classico. Un gioco di capovolgimenti e di mescolanze improbabili.
Insomma quello che Sam Weller ha giustamente provato in questa mostra e che ha trovato modo di riassumere nel “just funny” della spaesata turista americana (spaesata più da Ontani o dalla scultura classica? Sam Weller non sa dire) è che il ruolo dell’arte nella nostra contemporaneità dovrebbe essere sempre quello di uno sguardo ironicamente cinico sui nostri stereotipi culturali. Perché rincorrere la grandezza dell’arte, il respiro incontaminato del genio, è già sempre costruzione ideologica e stereotipata essa stessa.
(di-vagazione: 23/10/2013; imbrattamento di carta: 23/10/2013)
Bali Bulé
di Ashley Bickerton, Luigi Ontani, Filippo Sciascia
MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Napoli, dal 20 ottobre 2013 al 6 gennaio 2014