“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 21 May 2021 00:00

Tra vita e morte, le tracce enigmatiche della Valdoca

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Il Pinocchio di Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi, ultima loro opera che ha inaugurato la riapertura del Teatro Bonci di Cesena il 14 e 15 maggio, è nato durante la pandemia tra Cesena e le colline riminesi di Mondaino, luogo di isolamento dal rumore costante della città, di ascesi e composizione, luogo molto caro alla Valdoca. Un terreno intorno boschivo, scosceso, incerto, pericoloso, dove il rischio della caduta è più consistente. Come scrisse Hölderlin: “Ma lì dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”. E allora la caduta può essere necessaria, per nascere e formarsi, per emergere, per rinascere. Hölderlin usa il verbo “crescere”, come se si riferisse a una pianta, o a un accrescimento fisico e all’acquisizione di maturità e consapevolezza di un essere umano (wachsen vuol dire anche “maturare”). E se, quindi, l’ascesa, la crescita, fossero possibili soltanto a partire dalla paura di cadere, e non da una pace piana, data? Se fossero possibili soltanto a partire dal livello solido del terreno, e non da un’astrazione o da uno spazio aereo?
E in effetti la Fatina della fiaba di Collodi, qui largamente rivisitata e asciugata ai limiti dell’essenziale, è una Fatina che la Valdoca ha voluto fosse radicata nella terra. La Fatina di Chiara Bersani è perfetta, in questo senso. Il suo corpo piccolo è camminato e portato con leggerezza e soavità, eppure è ancorato al suolo. Come a trarre da esso la sua forza, forse le sue stesse parole. A prestare una tremante e magmatica voce alla fatina è, neanche a dirlo, Mariangela Gualtieri.
Ma partiamo dal principio.
La scena che si presenta ai nostri occhi è composta da legno, rami, fiori secchi, tamburi, trespoli. In una platea eradicata dalle poltroncine ci sono alcune grosse chiazze di sangue su un macro-lenzuolo bianco, un corpo steso su una brandina. Una statua, non un corpo umano. È Pinocchio morto? Pinocchio muore, lui che inganna e sogna? Alla fine, si capirà di sì. D’altronde, è il suo requiem.
Lo spettacolo inizia con dei rumori lontani, come dei campanellini mossi dal vento. Poi parte il tamburo. Le due cantanti, sedute su due sedie distanziate, indossano un kimono nero, delicato, elegante, sobrio. Entra in scena Chiara Bersani, coperta integralmente da un velo bianco trasparente. Si siede sulla brandina dove giace il corpo esanime di Pinocchio.
È poi la volta dell’ingresso di Mangiafuoco, un imponente Matteo Ramponi, anch’egli in bianco: ha il torso nudo a reggere due spalle enormi e una gonna bianca lunghissima, un po’ a campana: sembra una gonna da sposa, o di un derviscio. Senza parlare, se non con il corpo, imprime vigore e consistenza al personaggio. Arriva poi Pinocchio, una Silvia Calderoni legnosa e plastica al contempo che si ribella e si abbandona, si dimena e cede. Chiama “Pa’” ragliando e poi cerca la posizione eretta sorretta da Mangiafuoco che la fa volteggiare: inizia la danza. Parla pochissimo, Pinocchio; è la fatina che tiene banco, con la sua saggezza.
Sembra esserci un nemico invisibile, nel buio. Mangiafuoco ha sul dorso un vello colpito da alcune frecce: si trascina, piano, sul palco. La Fatina intanto pure si trascina dalla platea e molto lentamente, predicando la necessità della lentezza, si dirige verso il palco. Si definisce lumaca e sussurra: “Nel piano si sente / c’è un dialogo strano con cielo, con stelle. / Albero va piano. Bosco va molto piano / ma dura. Matura. Impara. Rafforza / suo intreccio di rami e radici. Di voci. / Se vai piano diventi abitato – fecondo”. Mancano (spesso) gli articoli nel parlare della Fatina, come a sottolineare la sola importanza delle parole: di una lingua priva degli elementi non essenziali. L’andatura dei due personaggi sembra una processione verso Pinocchio. Tra fragori e suoni. Tutto appare in bilico, tra la potenza pericolosa della natura che è però anche ipotetica salvezza, a patto di ascoltarla e seguirne i ritmi, e i di essa consigli. A patto di essere e dare amore. “Che se non è amato l’umano ritorna al niente / da cui è venuto. Non cresce. Non ride. Non prende peso. Sta come assentato / fiore che non fiorisce torna non nato”. L’amore lo si conosce soltanto quando si diventa l’altra persona. E, dopo ciò, quando ci si compenetra con “tutto quello che c’è”. Cosa che equivale a non essere nessuno. Ma, dice ancora la Fatina a Pinocchio: “... è il meglio che ti possa capitare”.
Pinocchio è incerto, come se avesse ancora bisogno di braccia che lo sorreggano; cammina con le punte dei piedi curve verso l’interno, esita su sé stesso, quasi vi inciampa. Si esprime a voce per scarsi frammenti. La Fatina ha una voce che pare provenire da un inafferrabile al di là. Si affaccia l’ombra della fine, della difficoltà di vivere, della fatica della parola a dire e motivare, a creare senso. E a un certo punto la Fatina ferma il suo dire, in un vibrantissimo, lungo urlo muto, probabilmente l’apice interpretativo di Chiara Bersani. Se ne intuisce solo qualche decibel, eppure è struggente.
E quando poi, all’improvviso tutto tace, si sente lei sussurrare: “Senti, questo nome è già suono”. Dopo, inizia la sinfonia degli animali. Il contatto con il mondo vero, quindi puro. La natura irrompe. Pinocchio si addormenta e la Fatina lo copre con una coperta. Poi, si ricoprirà lei, come a infilarsi in un bozzolo.
Il finale è uno stupendo crescendo sonoro... le due cantanti intonano un canto-lamento, una sorte di nenia che progressivamente cresce d’intensità e di senso melodico, creando un impeto di sospensione in cui l’emozione gira forte. C’è un ritirarsi, un chiudersi. Un morire, tutto nel bianco.
Sono molto significative, e perforanti, le ultime parole pronunciate da Pinocchio: “Tenere al centro l’ebbrezza / scantonare dal triste pavimento del mondo”. E ancora: “Mia testa in abisso buio. / Stanchezza di molte vite. / Serve precipitare dentro sé? / Sentire che neanche un metro / in tutta la terra / è amabile. / Io qui a provare / la difficile gestione dei giorni. / Magnifiche cose e tremende / aspettano il disobbediente”.
E dunque, cosa è Pinocchio? È fuga dal realistico, sogno dell’impossibile che però si concretizza: è interrelato nella materia. È un ragazzino per antica convenzione, perché una volta scrivevano quasi esclusivamente gli uomini, e scrivevano quasi sempre di piccoli eroi o protagonisti maschili. Il mondo era rappresentato in questo modo: una remota, inconsapevole, o consapevole, convinzione maschiocentrica. Ma Pinocchio può essere altro. E se lo fosse, altro? Silvia Calderoni − splendida nell’incarnarlo − scioglie la riserva. Lo è. Quale messaggio comunica, il Pinocchio di Silvia Calderoni? È simbolo o materia? È un corpo che si staglia, che pesa e fa rumore, in parte imbrigliato dalla macchinosità del legno. Ma è anche un corpo fluido, a tratti sinuoso, che nella sua magra muscolosità scolpita muta da inerte a umano, da umano a semi-divino. È maschile e femminile, è anche più dei due generi: è mutevole e molteplice. È quell’altro dalla norma che la Valdoca, con la scelta ribadita di una poetica fisica, di centralità dei corpi – e, stavolta, di corpi fuori dal comune, magici, espressivi − sembra scegliere in maniera audace, eppure spontanea e naturale, come prosecuzione di un discorso narrativo che vede nelle diverse bellezze della natura il disvelamento dell’armonia dell’esistenza.
Questo Pinocchio riflette una sensibilità contemporanea ultra-corporea, proprio attraverso la mistica del corpo della Valdoca. Solo il Teatro Valdoca poteva rappresentare la fatina e Pinocchio come avanguardie di corpi, come meraviglia di due corpi che occupano lo spazio della platea, del palco, del tempo, del mondo e dell’anima con una fragilità non (più) problematica, nuova, ricca di colpi di scena, fresca eppure pregnante, come le cose che contano e colpiscono. Quelle che restano e (perché) imprimono i nervi e le coscienze di esseri amanti del mondo e sofferenti e vivi in esso. Se sapranno sottrarsi alla “norma che è tutta saccente, infelice, svuotata di primigenie forze”. Un invito al lasciarsi andare, a un’anarchica spontaneità.
La rappresentazione teatrale è quel “cronotopo” unico, irripetibile, insostituibile in cui i movimenti dal vivo degli attori e delle attrici e una scrittura drammaturgica potente come quella di Mariangela Gualtieri includono e sospingono automaticamente, inconsapevolmente, gli spettatori nel territorio del sogno. Il sogno, con questo Pinocchio, è però tangibile. Si colloca prepotente nel dinamismo della sua pubertà e del fantastico, generando nuovi significati di esistenza/e. Cosa sarebbe l’esistenza, senza le costruzioni di senso, costume, ritmo, tessuti e intessuti nel sistema di valori e rappresentazioni di ciascuno...?
Pinocchio è un burattino che, alla fine, acquisisce vita – e morte – propria, grazie all’intercessione di una fatina terrestre, che lo mette in contatto con il mondo animale e lo allontana dalle scorie di quello umano, attraverso il corpo, attraverso il ballo, a lungo invocato dalla fatina, nella parte finale di Enigma. Il corpo diventa medium della possibilità di nuova e autentica vita. Il ballo è lo strumento con cui il corpo si libera dalle catene della triste, iniqua, stanca immanenza che abbrutisce il mondo. È il leit motiv presente in maniera importante soprattutto negli ultimi anni della produzione del Teatro Valdoca. Le parole in questo spettacolo sono pochissime: l’enigma non è – volutamente, mi sembra − sciolto. È un enigma che pare sospeso e che trova la sua aderenza più convincente alla vita tramite i corpi, che (non) finisce con l’incendio della casa, un incendio che, a differenza della lentezza della conoscenza e dell’immersione nella natura, sarà veloce, nel suo splendore. Il legno brucerà, lo spettacolo stavolta durerà poco. Il finale annuncia la morte di Pinocchio... è una resa, o un abbandonarsi sereno e consapevole a un altro livello di esistenza? Questa domanda inevasa agita il cuore, già rapito dalla grandezza della narrazione scenica di Ronconi e dalla voce avvolgente come vortice di Gualtieri, oltre che da tutti i corpi presenti sul palco, dalle musiche perforanti e dai canti ammalianti. E se lo scopo della Valdoca fosse provocare l’agitazione, suggerire l’irresolutezza, confidare nella morte, per noi occidentali così spaventosa? La natura s’impossessa della terra anche attraverso la morte. Bisogna accettarlo. Ancora una volta, e il suggerimento è di tornare a una natura non regolata dall’uomo, che è buona ma anche cattiva, perché lì le istanze stringenti e ossessive e compromettenti l’anima della mesta e corrotta contemporaneità scompaiono, tra fenomeni spontanei, versi di animali, libertà dei corpi.
Dall’inatteso sorge la meraviglia. Nel caso della Valdoca, la meraviglia invece è sempre “attesa”. E difficilmente non arriva.





Enigma – Requiem per Pinocchio
testo originale
Mariangela Gualtieri
regia, allestimento, luci
Cesare Ronconi
con
Chiara Bersani, Silvia Calderoni, Mariangela Gualtieri, Matteo Ramponi
e con, al canto 
Silvia Curreli, Elena Griggio
musiche dal vivo di e con 
Attila Faravelli, Ilaria Lemmo, Enrico Malatesta
collaborazione luci Stefano Cortesi
suono Andrea Zanella, Michele Bertoni
costumi Cristiana Curreli/ReeDo Lab
scultura in legno Maurizio Bertoni
oggetti di scena Mariacristina Navacchia
dipinti di scena Luciana Ronconi
foto di scena Simona Diacci
produzione Teatro Valdoca, Emilia Romagna Teatro Fondazione
lingua italiano
durata 1h 20’
Cesena (FC), Teatro Bonci, 15 maggio 2021
in scena 14 e 15 maggio 2021

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