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Thursday, 01 April 2021 00:00

Stoccolma 1912: la leggenda di Fanny Durack

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“Ai Giochi Olimpici, il ruolo delle donne dovrebbe essere soprattutto quello di incoronare i vincitori. Una olimpiade femmina sarebbe non pratica, non interessante, antiestetica e non corretta. Le Olimpiadi sono l’esaltazione solenne e periodica dell’atletismo maschile con il cosmopolitismo come base, la fedeltà come mezzo, l’arte come sfondo, l’applauso femminile come premio”
(Pierre de Coubertin)

 

  
1912 − Olimpiadi di Stoccolma. Dovettero risuonare nei pensieri di Fanny Durack queste parole quel giorno, mentre ad ampie bracciate si avviava a conquistare il podio dei 100 stile libero di nuoto battendo tutte le altre avversarie in 1’22″2.
Il costume di lana a mezze maniche con una gonna non era certo il più indicato per questa ragazza australiana che aveva fatto fin da piccola dell’acqua il suo elemento. Ne sentiva addosso tutto il peso, la intralciava, quasi sembrava volerla portare giù verso il fondo, ma lei non stava nuotando solo per vincere, non stava nuotando solo per se stessa ma per ogni donna che, in quel mondo olimpico del tutto maschile, era entrata con l’intenzione di dimostrare di potercela fare. Fanny Durack nuotava contro tutti i pregiudizi di un’epoca che vedeva ancora nel femminile una figura di contorno necessaria al successo maschile ma completamente estranea all’essere essa stessa parte attiva di quel successo. Lo sport femminile era considerato da Pierre de Coubertin “la cosa più antiestetica che gli occhi umani potessero contemplare”. Il corpo femminile una tentazione da non esporre alla vista di tutti. La determinazione femminile a competere una anomalia nell’essere donna.
Sarah Frances “Fanny” Durack era nata a Sydney il 27 ottobre 1889 da una famiglia umile, genitori operai, terza figlia femmina di sei figli. Avere molte figlie femmine, allora, era solo avere delle bocche in più da sfamare e poi sperare che qualcuno se le sposasse e se le portasse via. Fanny imparò a nuotare da piccola nei Coogee Baths a pochi passi da casa.
Il nome Coogee deriva dalla parola aborigena “koojah” che significa “cattivo odore” o “luogo puzzolente”. In realtà si trattava di una spiaggia che era diventata nel tempo una località balneare meta di passeggiate e pic-nic il fine settimana. Chi voleva poteva però nuotare nella prima piscina oceanica creata nel 1860 e sull’arenile era diventata una moda raccogliere conchiglie da collezionare. Così via via Coogee Beach si era attrezzata con le macchine da bagno per consentire anche alle donne di potersi bagnare. E questo doveva già apparire allora di per sé rivoluzionario. Le macchine da bagno altro non erano che cabine di legno dotate di ruote e trascinate in acqua dai cavalli, in cui le donne entravano, si cambiavano e lontano da occhi indiscreti potevano concedersi il lusso di fare un bagno in un punto della spiaggia al riparo da sguardi maschili. Terminato il bagno il cocchiere le avrebbe ricondotte alla spiaggia principale. Queste note di costume oggi fanno indubbiamente sorridere, ma l’emancipazione femminile in quegli anni è passata anche da lì.
Fanny Durack dimostrò prestissimo il suo talento nel nuoto. La sua testolina di bambina non immaginava minimamente ancora quel che il futuro le avrebbe riservato fino a portarla a un podio olimpico. Nuotava a rana, l’unico stile allora consentito nelle competizioni femminili, ma più che pensare a gareggiare trovava nell’acqua il suo posto in cui stare e il luogo ideale per lasciare andare i pensieri. Era brava sì, molto brava, era veloce sì, molto veloce, a nove anni aveva rischiato pure di affogare ché le onde in Australia possono venirti addosso da un momento all’altro e il mare può rivoltartisi contro come un terribile nemico da fronteggiare, eppure non ne aveva avuto paura e quella brutta esperienza l’aveva ancora di più convinta che era quello il suo elemento e a farle immaginare di poter diventare un giorno addetto alla sicurezza. Fanny sognava di fare il bagnino. Nessuna medaglia d’oro nelle sue fantasie. Nacque in quei giorni l’amicizia con Mina Wylie. Erano solo due adolescenti ma Mina apparteneva a un ambiente privilegiato rispetto alle sue umili origini, era infatti la figlia del proprietario del Coogee Beach, due anni di differenza le separavano ma lo stesso amore per il nuoto ne aveva fatto due amiche inseparabili: si sfidavano e rivaleggiavano in acqua così come si volevano bene nella vita ed insieme si allenavano nell’Australian Crawl, ovvero lo stile libero. Segni del destino: anche alle Olimpiadi di Stoccolma si sarebbero recate insieme.
In Australia la bravura delle due ragazze non era passata inosservata. Fra il 1906 e il 1909 Fanny Durack si fa notare vincendo più di una volta i campionati nazionali, Mina Wylie da parte sua la batte in quelli del 1910 e 1911. Entrambe parte di una stessa associazione di nuoto, la New South Wales Ladies’ Amateur Swimming Association (NSWLASA), esprimono il meglio di loro stesse nelle 100 yard rana e nei 100 e 220 yard stile libero.
Il vento del cambiamento, di un nuovo modo di essere donna, dell’esigenza femminile di veder riconosciuta la propria identità sociale al di là del sesso di appartenenza e la volontà di affermarsi in un contesto ancora del tutto maschile, aveva raggiunto anche quella lontana isola persa nell’oceano che era l’Australia seppure con non poche contraddizioni anche all’interno del movimento femminista stesso. L’opposizione al nuoto femminile non era stata facile da superare. Rose Scott, leader femminista e presidente della stessa New South Wales Ladies’ Amateur Swimming Association incoraggiava le donne a gareggiare ma unicamente tra di loro, ancora in un mondo a parte, opponendosi così alla condivisione di uno spazio comune con il maschile tanto da non permettere neppure ai padri e ai fratelli delle concorrenti di assistere alle loro gare. Il corpo femminile che si svelava in un costume da bagno non doveva essere assolutamente mostrato a un uomo che lo avrebbe visto solo nella sua componente sessuale e lo avrebbe reso un pericoloso predatore. Il maschio era quindi escluso dal pubblico alla stregua di un animale incapace di governare la propria eccitazione sia nei confronti delle nuotatrici sia delle donne che assistevano alle gare. Una visione che oggi possiamo definire tranquillamente “paranoica” ma che allora era condivisa da molte donne anche se non tutte le femministe dell’epoca si rivedevano in essa. Altre associazioni australiane erano infatti completamente contrarie a questo pensiero e non vedevano nel maschio solo l’emblema di ogni possibile violenza contro la donna, e ci furono anche uomini che, per amore dello sport, appoggiarono la possibilità di una coesione fra i sessi. Lo stesso sindaco di Randwick, località dove le due ragazze si allenavano, espresse il suo dissenso dichiarando: “Il nuoto è lo sport del futuro; inoltre il corpo femminile ha ispirato grandi pittori e scultori e non c’è motivo per la discriminazione sessuale”.
Il vento del cambiamento investì in pieno lo stesso Pierre de Coubertin, per il quale le Olimpiadi dovevano rappresentare “l’esaltazione solenne e periodica dell’atletismo maschile”. Messo alle strette dal comitato organizzativo dei giochi, nel 1910 si trova costretto ad ammettere il nuoto femminile fra le discipline olimpiche.
Per Fanny Durack e Mina Wylie si apre così la possibilità di partecipare in rappresentanza dell'Australia ai giochi olimpici di Stoccolma che si terranno due anni dopo.
Fanny ha poco più di vent’anni, un viso ancora da ragazzina, i capelli lunghi e il corpo muscoloso con braccia e gambe forti, in tutte le immagini in cui compare la si vede sempre in costume da bagno. Nessuna concessione alla frivolezza delle mode, nessun fidanzato accanto. Il nuoto per lei è tutto. Quell’occasione di essere partecipe di un evento così importante corona un sogno che neppure lei avrebbe mai immaginato di poter realizzare. La bambina che sognava di diventare bagnina ha lasciato il posto a una donna determinata e consapevole di avere le qualità giuste per farcela.
Possiamo immaginare quali pensieri si agitassero nella mente di Fanny e di Mina alla sola idea di poter arrivare all’altra parte del mondo, la Svezia era così lontana e tutto quel che conoscevano della vita non andava oltre il territorio di Sydney. Nella loro anima il desiderio di gareggiare andava di pari passo con quello di aprirsi a nuove conoscenze e nuove esperienze. Erano giovani e quel viaggio era “il viaggio” che avrebbe potuto cambiare completamente le loro esistenze. Ma partire non fu così facile come le due ragazze avrebbero sperato.
Il team di nuoto australiano non si mostrò particolarmente disponibile a concedere alle donne la possibilità di gareggiare. La considerò, piuttosto che una opportunità, una occasione di perdere tempo e denaro. La New South Wales Ladies’ Amateur Swimming Association di cui facevano parte bocciò immediatamente qualsiasi eventualità di partecipare alle Olimpiadi e, per finire, lo stesso arcivescovo cattolico di Sydney tuonò dal pulpito contro l’immoralità di una simile iniziativa.
Alle donne la casa, agli uomini la gloria.
Ma il vento di cambiamento si era ormai fatto inarrestabile dando voce a un pensiero critico che da brezza si fece maestrale. Ormai senza più freni spazzò via quelle idee obsolete come fossero piccole vele in un mare in tempesta e l’opinione pubblica gridò all’ingiustizia sostenendo le ragioni di Fanny e di Mina a partecipare. Articoli sui maggiori giornali di Sydney, marce e manifestazioni, dibattiti accesi. Nulla fu risparmiato perché le due ragazze potessero legittimamente entrare a far parte del team che l’Australia avrebbe presentato a concorrere alle Olimpiadi. E tanto fu grande quell’insurrezione popolare che la New South Wales Ladies’ Amateur Swimming Association fu costretta a cambiare le sue regole, Rose Scott a dimettersi e Fanny Durack e Mina Wylie furono ammesse come membri effettivi dell’Australasia, l’associazione di nuotatori australiani e neozelandesi che avrebbe gareggiato alle Olimpiadi di Stoccolma, uniche due donne a difendere i colori dell’Australia. Solo due donne, contro le sei atlete di Svezia e Gran Bretagna ben più quotate e note di quanto loro lo fossero, ma sempre qualcosa in più rispetto agli Stati Uniti che di donne invece non ne presentò nessuna. Furono ventisette in tutto le nuotatrici che parteciparono a quei giochi.
Tutto è bene quel che finisce bene, potrebbe dire qualcuno, ma in realtà quella concessione ad essere presenti aveva il suo prezzo: quello del biglietto di viaggio completamente a carico delle due ragazze, quello di non poter viaggiare da sole ma poter partire solo accompagnate. Una spesa ingente, soprattutto per Fanny, una spesa che non avrebbe potuto affrontare di tasca propria.
Ed avvenne allora, nel nome di un sogno, l’ultimo miracolo: una eccezionale raccolta fondi organizzata dalla moglie di Hugh Mcintosh, sportivo imprenditore teatrale e proprietario di un giornale, alla quale tutti quelli che poterono parteciparono finanziando la somma necessaria.
Fanny e Mina poterono partire.
Sulle giovani spalle il peso delle aspettative di vittoria che un intero Paese aveva investito su di loro. Tornare sconfitte sarebbe stata una delusione cocente ma anche l’ammissione di aver fallito nel ritenere possibile un’idea, un mondo nuovo, una possibilità diversa di esserci. La loro sconfitta sarebbe stata la sconfitta di tutti quelli che avevano creduto in loro.
Questa enorme responsabilità avrebbe schiacciato facilmente chiunque, ma non Fanny Durack, la bambina di umili origini che da grande voleva fare il bagnino e si ritrovava ora a un passo dal podio olimpico ad entrare nella Storia.
La piscina olimpica di Djurgårdsbrunnviken, ricavata nel porto di Stoccolma è ben diversa dal mare d’Australia: l’acqua è salata e scura, fa impressione guardarla così cupa che non se ne vede il fondo, le corsie di gara non sono definite, si nuota fianco a fianco dopo essersi gettati da un ponte di legno.
Fanny arriva a Stoccolma passando per Londra. L’accompagna Mary, sua sorella. Ha continuato ad allenarsi ogni giorno. L’ostracismo morale della pubblica opinione ai costumi la convince ad indossare proprio il meno agonistico e sceglie il più scomodo, di lana e con tanto di gonna, lana che si impregna d’acqua e l’appesantisce, gonna che quasi le impedisce la libertà dei movimenti. Una sfida a se stessa e alla sua caparbietà a vincere. Fanny Durack deve dimostrare qualcosa e lo fa scegliendo la strada più difficile. Ci sono atlete ben più note di lei da affrontare, la scozzese Isabelle Moore, la britannica Daisy Curwen che qualche settimana prima a Birkenhead aveva stabilito il primato del mondo in 1’20″6 ed è considerata già da quasi tutti la sicura vincitrice, Jennie Fletcher campionessa di Gran Bretagna... nomi di peso di fronte ai quali il suo è ben poca cosa. Due sole le gare: 100 metri stile libero e staffetta 4×100 stile libero. Alla seconda Fanny e Mina, pur chiedendo di percorrere 200 metri a testa, non sono ammesse a partecipare.
Fanny Durack può vincere? No, Fanny Durack deve vincere. È questo a fare la differenza.
La gara dei 100 metri stile libero femminili venne disputata in tre turni dall’8 al 12 luglio.
Al primo turno di eliminazioni Fanny Durack fa parte della batteria 4 e deve vedersela con l’inglese Irene Steer, la batte di netto con 1’19”8 contro il suo 1’27”2, e non solo vince ma stabilisce pure il nuovo primato del mondo. È chiaro agli occhi di tutti a quel punto che è lei, questa ostinata e poco conosciuta ragazza australiana, la sportiva da battere. Ma non basta. Mina Wylie da parte sua nuota in batteria 3 e vince con 1’26”8 sulla diretta antagonista Mary Langford che si classifica seconda con il tempo di 1’28”0.
Fanny Durack e Mina Wylie sono in semifinale.
Nuota in batteria 1 Fanny Durack e lo scontro diretto con Daisy Curwen può dirsi epico: da un lato l’australiana venuta di punto in bianco alla ribalta del tutto inaspettatamente, dall’altro l’inglese, una sportiva considerata da tutti fino ad allora come la probabile vincitrice di queste prime Olimpiadi di nuoto femminile. L’attesa per il confronto è inevitabile e sicuramente pesa sul suo stato d’animo ma Fanny ha forse in quel senso di responsabilità verso chi l’ha sostenuta una marcia in più rispetto alla sua avversaria e non si lascia intimorire.
E vince di nuovo. 1’20”2 il suo tempo, contro l’1’26”8 della Curwen. Allo stesso modo Mina Wylie ha la meglio con 1’27”0 su Jennie Fletcher e il suo 1’27”2, un margine minimo ma che basta a darle la vittoria.
Le due inglesi più forti sono state entrambe battute.
Salta agli occhi leggendo questi tempi l’assoluta superiorità di Fanny Durack sia sulla sua compagna di squadra che su tutte le altre nuotatrici, la differenza fra i suoi tempi e quelli delle altre è un abisso incolmabile. Ci si chiede come abbia vissuto la notte prima della finale, come sia stato possibile mantenere concentrazione e serenità nonostante le enormi aspettative da parte di tutti. L’Australia e il mondo intero la guardavano.
Siamo arrivati al giorno della finale. La prima finale di nuoto femminile nella storia delle Olimpiadi.
Cosa si dissero Fanny e Mina prima della gara è impossibile saperlo. Certamente furono parole di gioia e di ansia insieme. Certamente si abbracciarono e augurarono l’una all’altra il podio che meritavano. Erano lì, dove non avrebbero mai creduto di poter essere. Erano lì, ed erano le più forti.
Pierre de Coubertin amava citare spesso la frase che Ethelbert Talbot, vescovo della Pennsylvania, disse in una predica durante le Olimpiadi del 1908: “L'importante non è vincere, ma partecipare”. Ma per Fanny Durack ora è importante vincere.
E vinse. Anche se rialzando di un poco i tempi ottenuti nelle altre due gare, ché l’effetto della tensione e dell’emozione si era fatto alla fine sentire.
Vince Fanny la medaglia d’oro con un tempo di 1’22”2. Vince Mina la medaglia d’argento con un tempo di 1’25”4. Terza, medaglia di bronzo, l’inglese Jennie Fletcher con 1’27”0. Daisy Curwen, per un atroce scherzo del destino non potè neppure partecipare: un attacco di appendicite la notte prima dell’ultima gara la costrinse a rinunciare.
Il ritorno a casa fu trionfale.
L’Australia intera che aveva lottato, sofferto e gioito in nome di un sogno e di una possibilità da strappare alla Storia fece di Fanny Durack un simbolo e un eroe nazionale. Prima donna a salire sul podio più alto delle prime Olimpiadi di nuoto femminili, Fanny Durack, insieme all’inseparabile Mina Wylie, invitata da più parti si recò per ben tre volte negli Stati Uniti dove fu accolta con onore e divenne un punto di riferimento per i movimenti femministi che videro in lei l’emblema di un riscatto ottenuto con infiniti sacrifici e una gloria possibile ad ogni donna capace di inseguirla con la sua stessa determinazione. Di quel vento di cambiamento tanto auspicato Fanny era diventata figura essenziale. La bambina che sognava di fare la bagnina, la ragazza che aveva indossato contro tutti un costume di lana, la donna che aveva vinto il pregiudizio maschile ottenendone il rispetto.
Furono anni incredibili quelli. Furono anni che fecero la Storia.
Fanny Durack è morta nel 1956. Dopo aver ottenuto innumerevoli altri successi, aveva lasciato il nuoto nel 1921 sposando Bernard Gately, e da allora era diventata membro esecutivo della New South Wales Women’s Amateur Swimming Association dedicandosi all’allenamento dei più giovani. Molti talenti femminili sono stati sicuramente forgiati dalle sue mani. Così come il tempo copre di oblio ogni cosa anche la sua tomba, affacciata sull’oceano del cimitero di Waverley, era stata dimenticata. Nascosta da rovi ed erbacce non portava più scritto neanche il suo nome, quel nome che nel 1967 aveva meritato la citazione nell’International Swimming Hall of Fame. Tutto passa direbbe qualcuno, ma tutto torna ebbe a dire Nietzsche, così nel 1990 il miracolo di una raccolta fondi si ripete e la tomba, restaurata, ora porta una lapide che ne ricorda la vita.
Poche parole, quelle necessarie a renderne eterno il ricordo.
“In memoria di Sarah ‘Fanny’ Durack (la signora Bernard Gately) morì il 20 marzo 1956, all’età di 66 anni. Prima donna nuotatrice a vincere una medaglia d’oro olimpica, Stoccolma, 1912. Ha tenuto tutti i record mondiali di freestyle da 100 yard a un miglio”.
Perché non muore mai chi ha avuto il coraggio di inseguire un sogno.

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