“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 18 February 2021 00:00

“Wonder Woman 1984”: recensione con spoiler

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Ci sono film che dividono, che fanno parlare di sé oltre il limite consentito dal buonsenso, oltre il confine immaginario tra la percezione di ciò che si è visto e la coscienza individuale sempre pronta a scalpitare ad ogni emozione lasciata nuda all’occhio dello spettatore.
Wonder Woman 1984 in questo è una gigantesca matrioska.

Partiamo dal principio, piccoli passi alla volta.
I tempi moderni hanno permesso di poter istituzionalizzare le avventure dei supereroi nell’immaginario e nel linguaggio mediatico del Cinema, quello con la "C" maiuscola, confermando quanto alcuni successi commerciali di fine anni Novanta e inizio Duemila (Spiderman di Raimi o X-Men di Singer per citarne alcuni) avevano dimostrato ad una sensibilità ancora tiepida, sospettosa, criticona e poco convinta − all’epoca − che i fumetti potessero funzionare in modo frequente e ragionato anche in sala.
Certo, ci sono stati diversi passi falsi, finte vittorie al box-office, insuccessi frutto di una sensibilità alle volte non ancora pronta per assaggiare portate più succulente di quanto il menù lasciasse intendere, ma tutto sommato gli eroi in calzamaglia si sono guardati intorno, hanno fatto spallucce, si sono accesi una sigaretta e sono rimasti lì, in attesa del prossimo tram.
Un tram molto affollato.
Tra i passeggeri aveva dato una bella impressione una certa Diana Prince, salita mica tanto timidamente ad una fermata nel 2016. La nostra Diana, meglio nota come Wonder Woman, era stata resa celebre nei 70’s da una procace e bellissima Lynda Carter. Il nuovo millennio era ormai pronto per il ritorno in grande stile e una Gal Gadot più in forma che mai con una Patty Jenkins innamorata del progetto (la stessa che aveva collezionato l’oscar per The Monster) realizzano nel 2017 uno dei maggiori incassi per un personaggio di casa DC.
Dopo il successo internazionale di questo primo film dedicato alla principessa amazzone e che ne narrava le origini, la regista (ancora a una volta la nostra Patty) decide di confezionare un coloratissimo film di Natale, di quelli che ci saremmo aspettati dalla Disney degli anni Settanta, solo che il film si chiama Wonder Woman 1984 e sembra ambientato in una Caserta dei primi anni Novanta che conserva qua e là dei residuati bellici del decennio precedente nelle fugaci visioni di sbiaditissime insegne al neon, l’aggiunta di ragazzotti in tute acetate, fanciulle che fanno aerobica tutte attillate in leggings gialli, verdi e fucsia e giovani yuppies dai ciuffi laccati.
Il film in questo non lascia scampo.
Il film si chiama WW 1984 e noi dobbiamo credere che sia il 1984.
Perché? Perché sì. Lo ha deciso lui, il film intendo.
O meglio la nostra Patty, ma soprattutto perché lei ci crede tantissimo. La Jenkins ha dichiarato che in quegli anni aveva la cresta e gli anfibi e che proprio l’84 (e non magari l’85, o l’86, l’87 e l’88), ma proprio proprio proprio l’84 fosse l’anno giusto per fare un film dai toni fiabeschi, pubblicizzato come una pellicola destinata a tutte le età e che invece parla male e in modo prolisso e lezioso ad un pubblico sotto i dieci anni, un tipo di pubblico (diciamoci la verità), disposto molto più volentieri a farsi distrarre da un po’ di azione ben coreografata e sfuggire alle continue lezioncine di vita impartite come di consueto nel quotidiano da genitori e parentado vario.
Insomma: “Ok, mamma, non devo rubare, non devo imbrogliare, non devo copiare i compiti a scuola, fare a botte col figlio della vicina, non devo dire parolacce e devo dire sempre ma proprio sempre sempre sempre la verità. Però adesso fammi vedere il filmettino che Diana si mette l’armatura rossa e blu, salta i palazzi, fa le capriole, scassa i carri armati, picchia i terroristi, poi torna ad essere Diana, si veste elegante, e io sogno di avere una ragazza UGUALE quando sarò un giovane e − perché no, sperare è umano − avvenente fustacchione di grandi pretese. Poi il cattivone fa cose, ehm, cattive e lei si rimette l’armatura rossa e blu e continua a scassare carri armati, distruggere pareti, saltare i palazzi, picchiare i terroristi”.
Bene. Ora che ci siamo riscaldati, inizia l’incontro vero e proprio.
Ci siamo? Ma certo che ci siamo. Di cosa avete paura? È un articoletto che parla di un film e voi volete solo sapere se perdere o investire due ore e passa della vostra giornata guardando WW1984.
E lo so bene che anche voi siete curiosi di sapere perché sia proprio il 1984.
Ve l’ho detto, a Patty piace e ci crede, quindi chi siamo noi per contraddirla?
Ma soprattutto ci crede il film. Questo film è un film convinto di essere un film, ma non del tipo che un film mediocre si guarda allo specchio convinto di essere un signor film, elegante e in doppiopetto, quanto piuttosto un film che chiede alla fata turchina di diventare un bambino vero.
Ho già detto la parola film? Certo che l’ho fatto. Sia per educazione, sia perché lui lo desidera tantissimo.
È di questo che parla la trama. Di desideri.
Anzi, di “io desidero”.
Tutto inizia sull’isola delle Amazzoni, in un flashback che vede la piccola Diana misurarsi in gare di abilità con donne guerriere fatte e finite. Lei sta per sbaragliarle tutte e avrebbe anche vinto, ma la saggia istitutrice che da sempre la addestra, la ferma, facendola perdere, spiegandole che più di una volta la nostra eroina ha barato e che dove c’è il baro non c’è il vero e senza il vero il giusto non è giusto.
Lei ci rimane un po’ male, dice che non è giusto che dove ci sia il baro non possa esserci il vero e che lei voleva vincere. A questo punto la saggia istitutrice le dice che lei ancora non è pronta per capire queste cose e il mondo si sposta nel presente. Ovvero nel 1984, sempre lui (non gli viene proprio in mente di poter passare inosservato).
Sono dunque gli anni Ottanta e un giovane imprenditore di belle speranze sull’orlo del fallimento trova la ricetta per la felicità. La sua, di tutti, ma soprattutto la sua: una pietra dei desideri.
Proprio così, una pietra dei desideri che, simpaticissima, esaudisce e toglie via qualcosa. Max chiede alla pietra di diventarne la personificazione vivente, divenendo una sorta di divinità, a scapito della propria energia vitale.
Perché bisogna stare attenti a quel che si vuole, le brave mamme e i bravi papà ce lo dicono sempre, no? E noi che vorremmo solo Gal Gadot che picchia i terroristi... Che semplicioni che siamo.
Il nostro affarista e anche simpatico umorista, tale Maxwell Lord, è una specie di Corrado con la stessa istrionica sobrietà di Enrico Papi mentre fissa il cameraman e grida “MÒÒÒZECA!”.
Max vuole essere un grande, sia perché da piccolo non ci si sentiva e il papà lo menava, sia perché si sente un fallito e vuole che suo figlio sia fiero di lui e di sé stesso, gettandosi quindi a capofitto in una vita di imbrogli e discutibili profitti, ignorando (guarda un po’) il tanto amato figlioletto.
Prima che possa scendere una lacrima, ritroviamo in pieno stile Superman III una città viva di una umanità costantemente inadatta alla propria salvaguardia, partendo dalle piccole cose come una corsetta in strada o una mattinata di schiamazzi al centro commerciale.
Wonder Woman appare, finalmente, splendida, fortissima, potente, fiera, sicura, luminosa come una dea e simpatica come una commercialista che deve lavorare anche il 24 dicembre, ma il suo dovere lo fa. Sbaraglia tutto, mena qualche rapinatore, salva una ragazza che corre da un pirata della strada, fa qualche occhiolino e distrugge le telecamere di videosorveglianza perché è meglio rimanere nell'anonimato, ma solo dopo aver picchiato dei rapinatori, distrutto mezzo centro commerciale e aver fatto l’occhiolino. Lei è Diana, la nostra amazzone guerriera e ci piace così. Effimera e contraddittoria come il potente Zeus del quale è figlia, tesoro e orgoglio di papà.
La principessa semidea è anche una studiosa e massima esperta di reperti archeologici e dopo aver incontrato una timida e repressa Barbara Minerva, esperta anch’essa di reperti storici, ma anche di antropologia, zoologia, geologia e tante altre cose che finiscono con -gia e che puoi pronunciare solo dopo diverse lauree, si imbatte in questa pietra dei desideri. Lei desidera rincontrare il suo perduto amore, l’uomo eccezionale che risponde al nome di Steve Trevor, esploso in volo durante la Prima Guerra Mondiale e ridotto a ricordo molecolare nei venti degli ultimi settanta anni, e già che c’è salva Barbara da un tentato stupro. La nostra tuttologa Barbara de Paperis si accorge che Diana è tutto quello che lei vorrebbe essere, bellissima, fatale, famosa, fortissima, agile, umile, ma soprattutto simpatica come una commercialista che deve lavorare anche il 24 dicembre (l’ho detto prima che era un filmettino di Natale) e chiede alla pietra di essere come la forzuta amazzone.
Ah-Haaaaa! Ma la pietra esaudisce e porta via, così Diana ritrova Steve e giocano a nomi, cose e città di settanta anni nel futuro che lui ignora, ma perdendo inesorabilmente i propri poteri e Barbara si trova vestita tutta leopardata a farsi ammirare alle feste di beneficenza, corteggiata e desiderata, sfoggiando più macchie della Lonza alla quale Dante aveva chiesto informazioni per l’inferno salvo poi farsi accompagnare da un Virgilio bigotto e poco incline a simili transazioni da vicoli bui. Ma è il 1984 e la Lonza la fa da padrona. E via di leopardo da Trieste in giù. Tanti auguri (siamo sempre sotto Natale).
Diana perde i poteri, e il nostro Maxwell Lord esaudisce desideri a manetta, trasformando il mondo in una sorta di parco divertimenti nel quale tutti hanno la Porsche, tutti hanno un milione di dollari, tutti sono famosi, tutti sono quello che volevano e nessuno si sente più felice.
E sapete perché? Perché come disse la maestra di Diana, dove c'è baro non c'è vero e senza vero non c'è giusto e senza giusto non c'è gusto. In realtà quasi tutti i governanti del mondo desiderano avere più armi atomiche e quindi sono tutti incazzati come delle iene e tutti si lanciano addosso testate nucleari.
Il racconto è così pomposamente didascalico da farci tifare per il cattivo. Dopotutto, citando il nostro Enrico Papi, cioè Maxwell Lord: “La vita è bella, ma può essere migliore!”. E soprattutto: “Two gust is meglio che uàn!”.
E ancora: “La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”, direbbe Forrest Gump, e quello è un altro film, anche se in realtà siamo ancora in questo e Diana capisce. Capisce che non si può decidere cosa avere anche se quello che otteniamo non è quello che più desideriamo e che il valore vero delle nostre conquiste è dettato da quanto sudiamo correttamente attraverso i maxi-sconti che la vita ci offre e che se il 3x2 non ci interessa affatto, meglio la sottomarca che magari non la conosce nessuno, ma rende il lavello tutto sommato dignitosamente pulito e brillante.
No, non sono io ad essere inutilmente prolisso, sono ESATTAMENTE questi il tono e il modo con i quali Patty decide di convincerci ad essere buoni, onesti, ambiziosi sì, ma corretti. Arrivisti ma pazienti. Affamati, ma stando a tavola con la cintura allacciata.
È tutta una lunga ripetizione. Una lunga, estenuante, ridondante situazione nella quale ti ritrovi seduto sul divano con la testa bassa e tua mamma ti sta dicendo che non devi copiare i compiti dal secchione a scuola e che se falsifichi le firme delle note oggi, potresti trovarti in galera per spaccio di droga a vent’anni, e poi arriva Diana vestita con l’armatura rossa e blu pronta a farti il mazzo quadrato e tu rimarresti deluso perché magari sei diventato davvero un ragazzotto giovane e fustacchione, e hai appena incontrato la donna dei tuoi sogni. Solo che lei non ti bacia, e ti piglia a schiaffi, calci, ti distrugge la macchina e non contenta ti fa l’occhiolino. È la nostra Diana, è così che ci piace.
La situazione rimane disperata, il filmettino di Natale diventa una caos montato male e recitato peggio dove la pietra dei desideri e quindi la trama durano in tutto il 20% della storia, con il restante 80% destinato ad una consequenziale sfilata di situazioni che accadono “perché sì”. Anzi, “perché no? Ma sì, io dico ciak si gira e voi fate le vostre cose da gente di spettacolo”.
Gal Gadot è perfetta nella parte come sempre, ma è la parte a non esserci. Diana è quasi una spettatrice appena invischiata nell’emotività generale, Chris Pine sembra entrato sul set per caso e Kristen Wiig, ovvero Barbara Minerva, una Selina Kyle piuttosto mutilata da una sceneggiatura che la relega a comparsa più che comprimaria e/o antagonista preferendo alla tuta in pelle della nota Catwoman di Burton una computer grafica non proprio all’altezza del budget di riferimento.
Una menzione a parte merita Pedro Pascal, alias Enrico Papi, ehm, Maxwell Lord.
Pascal è un ottimo attore e si dimostra eccellente, per non dire eccezionale anche in questo caso. Ma la pietra dei desideri dà e toglie e a quanto pare ha funzionato anche nella realtà. Il personaggio è stato scritto decisamente sopra le righe, ma così sopra le righe che alle volte sono quadretti e altre volte pezzi di lavagna e altre ancora pareti di una caverna ben contente di farsi disegnare addosso mammuth e scene di caccia propiziatorie. Tradotto: il buon Maxwell cambia umore, emozioni, situazioni e sensazioni da costringere Pedro Pascal a fare il lavoro di sei attori in uno. E se la bravura dimostrata è evidente, risulta evidente − purtroppo − lo scivolone in fase di scrittura di questo blockbusterone.
In chiusura, il film è stato pubblicizzato per essere un dono, un regalo a tutta la famiglia, ma è diretto forse solo alla fascia dai dodicenni in giù. Se siete adulti, la prima visione potrebbe annoiarvi, sconvolgervi, turbarvi, scampo probabilmente apprezzarne maggiormente la seconda, a mente lucida e ben consci di tutto.
Durante la mia prima esperienza con questo Wonder Woman 1984 ho avuto diverse epifanie, tutte diverse e tutte arrabbiate con me, che ero sul divano desideroso di godermi unicamente una semidea forte e bellissima, potente come può esserlo la figlia di Zeus e simpatica come una commercialista costretta a lavorare anche il 24 dicembre. Ve l’ho detto che è un filmettino di Natale.
Tanti auguri. Ah, già! Natale è passato, sono in ritardo. Come questo film, destinato alle feste e uscito in Italia il 12 febbraio in streaming.
Ci siamo, è la fine. Non è stato difficile, vero?
Su, su! Oh. Che deve fare un ragazzotto che pretende di essere un aitante fustacchione di belle speranze per farvi sorridere?
Devo per caso picchiare i rapinatori al centro commerciale, saltare i palazzi, distruggere le telecamere di videosorveglianza, fare l’occhiolino?
Devo lavorare anche il 24 dicembre?
Ah, già. Siamo a febbraio. Però fa freddo come a Natale, quindi...
Tanti auguri!





Wonder Woman 1984
regia Patty Jenkins
soggetto William M. Marston (fumetto), Geff Johns, Patty Jenkins
sceneggiatura Patty Jenkins, Geoff Johns, David Callaham
con Gal Gadot, Chris Pine, Kristen Wiig, Pedro Pascal, Connie Nielsen, Robin Wright, Natasha Rothwell, Ravi Patel, Gabriella Wilde, Kristoffer Polaha, Amr Waked, Lynda Carter
fotografia Matthew Jensen
montaggio Richard Pearson
musiche Hans Zimmer
produttori Charles Roven, Deborah Snyder, Zack Snyder, Stephen Jones, Gal Gadot, Patty Jenkins
casa di produzione DC Entertainment, Warner Bros.
distribuzione Warner Bros.
paese USA
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2020
durata 151 min.

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