“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 12 March 2020 00:00

“Architecture”: Pascal Rambert in Italia a Vie Festival

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Architecture è la nuova opera del drammaturgo e regista Pascal Rambert presentata a Bologna, all’Arena del Sole, il 22 febbraio in occasione di Vie Festival, dopo il debutto ad Avignone in luglio. Quando le luci si abbassano, sul palcoscenico appare un piccolo coro in posizione circolare al centro del quale una donna, Marie-Sophie (Marie-Sophie Ferdane), dall’aspetto di una Grazia, dà un accordo di violino; tutti si piegano in un plié: Canto e ballo riporta la didascalia nel testo tradotto dal francese da Chiara Elefante.

Per un istante l’atmosfera è sospesa; subito dopo il coro si scioglie e occupa tutta la scena sgombra di quinte e fondale ma ricca di elementi scenografici che contestualizzano gli eventi: siamo a Vienna, nel 1911, l’interno è quello di un salotto borghese in stile Biedermeier. Una famiglia assiste al lungo rimprovero dell’anziano padre, Jacques (Jacques Weber), nei confronti del figlio Stan (Stanislas Nordey) con una violenza che contrasta la grazia dell’incipit e che si insinua sotto forma di tensione nella compostezza innaturale di tutti gli altri personaggi. Abbigliati in toni chiarissimi, questi sono immobili, silenti, come le colonne di un tempio, pilastri di una “architettura familiare”.
Questa l’impressione iniziale di Architecture, uno spettacolo ma, soprattutto, un testo, che racconta l’amore per la bellezza e il suo oblio. La devozione all’arte e il naufragio dell’artista. La storia è collocata tra le due guerre mondiali, periodo in cui la famiglia di Jacques, architetto dell’ancien régime, intraprende un viaggio in nave, con la mobilia al seguito, che da Vienna conduce a Bratislava, lungo il Danubio, e passa per Atene, Delfi, Skopje, Zagabria, Sarajevo, Trieste. Ricercando in questi luoghi il bello − nel momento più oscuro della storia dell’uomo − la famiglia viaggia attraversando il tempo che, carico di aspettative, di brama di conquista e di sapere, paradossalmente immobilizza i viaggiatori fungendo da pressa, esasperando l’atmosfera dei loro dialoghi. Jacques rappresenta la volontà del viaggio: lui è cieco di fronte al conflitto mondiale e redarguisce fermamente la sua prole che è invece attenta agli sviluppi della Storia. “È possibile parlare un po’ di bellezza qui?” intona davanti alle scale dell’Acropoli “in questo mondo orribile nel quale entriamo o già siamo”.
La prima metà dello spettacolo è caratterizzata da toni caldi, nella luce, nei colori dell’arredamento. La difficoltà a parlarsi tra i personaggi è rivelata dall’uso che fanno della parola, vera protagonista del teatro di Pascal Rambert, che domina la scena ponendo in una condizione quasi servile gli interpreti. Marionette coi fili agganciati alla drammaturgia, questi scivolano da una battuta all’altra come fossero loro stessi lettere di una lunga didascalia, come se, mentre agiscono, stessero descrivendo l’azione. La parola di Rambert è traboccante, è scritta senza punteggiatura come un flusso incontenibile che risulta difficile da seguire per un pubblico non francese.
La noia del viaggio porta a galla frustrazione e risentimento reciproci mettendo a dura prova la stabilità dell’“architettura”. Sono molti i contrasti interni al gruppo formato da nove elementi che si articolano in quattro coppie di coniugi e un singolo: Jacques e la seconda moglie Marie-Sophie, le figlie di Jacques, Anne (Anne Brochet) e Emmanuelle (Emmanuelle Béart) rispettivamente sposate al giornalista Laurent (Laurent Poitrenaux) e al tenente colonnello Arthur (Arthur Nauzyciel), il figlio maschio Denis/Pascal (Pascal Rénéric) con la moglie Audrey (Audrey Bonnet) e l’altro figlio Stan. La discordia tra lui e Jaques segna molti punti cruciali della storia: sostanzialmente i due tendono a confrontarsi monologando, senza scambio dialogico; la veemenza dell’uno è sempre proporzionale alla remissiva presenza o all’indifferenza dell’altro. La natura di tale rapporto padre/figlio ci dà, sin dall’inizio, la misura del cancro che sconvolgerà lentamente le dinamiche della famiglia e renderà nullo il senso di questo parlare infinito che è Architecture. Infatti l’avanzare dell’orrore della guerra, sottofondo di tutta l’opera, comporta una vera e propria crisi della parola, o meglio, del linguaggio. È Stan a dichiarare spesso, di fronte al caos che sopraggiunge, la necessità di “reinventare le forme”, in netto contrasto con l’amore paterno per le forme classiche (“chinate il capo di fronte al Partenone”).
Se nella prima parte dello spettacolo possiamo riconoscere la diatriba estetica/culturale che intercorre anche tra Jacques, architetto accademico, e il figlio balbuziente Denis/Pascal e la moglie Audrey, musicisti dell’avanguardia artistica, non sarà così semplice, nella seconda parte dello spettacolo, ritrovare questi “limiti” perché con il dominio della morte e il crollo dell’Impero austro-ungarico la forza delle idee viene annientata. La guerra è follia e distrugge la ragione, interrompe il dialogo tra i personaggi, ora dominati da una paura rivelatrice, pronti a dire tutto ciò che non hanno mai detto. Al composto atteggiamento dell’inizio presto si sostituisce l’esasperazione di un’accresciuta incomunicabilità che passa per i monologhi: tutti i personaggi si scambiano il proscenio per dire al pubblico la loro condizione di solitudine umana, distante dall’individualismo intellettuale per cui si battevano prima. Per un tempo che pare interminabile i monologhi si alternano tra loro mettendoci di fronte alla sconfitta, allo scempio e alla violenza. Probabilmente è di Denis/Pascal la battuta più emblematica di questa nuova condizione: “Ognuno è rinchiuso nella sua camera anche quando siamo all’aria aperta ci trasciniamo dietro la camera e ci chiudiamo dentro a doppia mandata”.
Le luci di questa seconda parte sono fredde, cupe, l’arredamento è in stile Bauhaus, l’acciaio ha sostituito il legno, i costumi non sono più bianchi. Il gesto non è più romantico ma espressivo. Negli occhi degli interpreti non vi è più fierezza, né noia; vi è invece il vuoto, l’incostanza del pensiero, l’incomprensione delle regole del mondo. Emmanuelle, psicologa, impazzisce, facendosi carico di quella “follia collettiva” che tentava, nei primi decenni del ‘900, di curare. Marie-Sophie e Denis/Pascal partono per la guerra accogliendo il buio come responsabilità morale. Jacques, abbandonato dall’amante e dai figli perde la connotazione orgogliosa divenendo il fantasma di se stesso. Audrey, moderna Cassandra di questa tragedia, sparisce dietro ai suoi lunghi capelli e, temendo di perdere il marito, amore della sua vita, si lascia travolgere dalla musica, sua unica forma di espressione, che ora non riesce più a dominare. Audrey è in effetti uno dei personaggi più interessanti di quest’opera: sopra le righe ma consapevole, è colta spesso da improvvise visioni; è lei la prima a predire la morte quando, all’inizio del viaggio, protesa sulla prua della nave (che è il proscenio) spalanca le braccia trasformandosi nel vertice di un triangolo composto, dietro di lei, dagli altri componenti del gruppo, e si pone in ascolto del silenzio. Dice: “Siamo di fronte al silenzio di fronte al fiume ascoltate moriremo”. E qualche scena prima che venga annunciato l’attentato di Sarajevo, casus belli che nel 1914 diede inizio al primo conflitto mondiale, Audrey, in preda al panico dirà: “La catastrofe arriva, la vedo nelle mie lacrime, le lacrime sono lenti d’ingrandimento, ci si vede il futuro”. Il Suono dichiarazione di guerra, così indicato nel testo, è seguito dalla didascalia Urlo di Audrey. La partitura musicale si mescola spesso alla drammaturgia in maniera dichiaratamente teatrale. Infatti Denis/Pascal e Audrey “compongono” per tutta la durata dello spettacolo il suono dell’atmosfera attingendo a brani numerati e rumori esterni che immaginano e riproducono con la voce: “Bisognerebbe aggiungere alle grida delle rondini serali di Vienna le grida dei gabbiani serali di Budapest e quelli delle gru cenerine di Belgrado [...], bisognerebbe aggiungere il rumore del fuoco il legno che urla le donne che urlano [...], metti il suono 338, il sole sta sorgendo”. La musica, quindi, interviene come una decima protagonista a colmare il vuoto laddove la parola s’interrompe. Audrey è, inoltre, la madre della generazione futura, la nostra, iconizzata nel personaggio della piccola Vivian a cui sono riservate le ultime battute di Architecture: “Avete detto che bisognava prepararsi a un’epoca che non avevamo immaginato?”.
Nel finale Rambert lascia aperta una riflessione sul mondo contemporaneo spezzando definitivamente l’atmosfera dell’opera con l’intervento di pc e abbigliamento nero. Gli attori, smessi i panni i panni dei personaggi, recitano il testo nella sua completezza: parole e didascalie, descrivendo e anticipando le loro azioni. La parola ha vinto su tutto, ma si è inaridita e non ha più molto senso. Dopo i molti falsi finali che ci hanno fatto sperare in una chiusura solenne, questo è il finale più inatteso e più sconcertante.





Vie Festival
Architecture
testo, ideazione, installazione Pascal Rambert
con Emmanuelle Béart, Audrey Bonnet, Anne Brochet, Marie-Sophie Ferdane, Arthur Nauzyciel, Stanislas Nordey, Pascal Rénéric, Laurent Poitrenaux, Jacques Weber, Césarée Genet Bonnet (in alternanza con Rose Pointrenaux)
luci Yves Godin
costumi Anaïs Romand
musica Alexandre Meyer
traduzione Chiara Elefante
foto di scena Christophe Raynaud Delage
produzione structure production
in coproduzione con Festival d’Avignon, TNS-Théâtre National de Stasbourg, TNB-Théâtre National de Bretagne à Rennes, Théâtre des Bouffes du Nord, Bonlieu-Scène Nationale d’Annecy, Les Gémeaux-Scène Nationale, La Comédie de Clermont-Ferrand-scène nationale, Le Phénix-Scène Nationale de Valenciennes Pole Européen de création, Les Célestins de Théâtre Lyon, Emilia Romagna Teatro Fondazione
lingua francese
durata 3h
Bologna, Arena del Sole, 22 febbraio 2020
in scena 22 e 23 febbraio 2020

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