“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 10 May 2013 02:00

Giovani e lavoro nel mondo ipermoderno: conversazione con Francesco Pastore

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Il 18 Aprile 2013, presso la sala consiliare del comune di Teverola, il movimento civico Ad alta Voce, presieduto dall’avvocato Pasquale Buonpane, ha organizzato un interessante dibattito sul rapporto tra i giovani e il lavoro; in tale occasione Francesco Pastore, professore aggregato di economia politica presso il Dipartimento di Giurisprudenza della Seconda Università di Napoli, ha avuto modo di sviscerare i contenuti principali del suo libro Fuori dal Tunnel, pubblicato dalla Giappichelli, in cui si fa notare che la transizione dalla scuola al lavoro rappresenta per molti giovani un tunnel lunghissimo a causa della loro scarsa esperienza lavorativa.

La ricetta del liberismo prevede che il mercato debba risolvere la difficoltà dei giovani offrendo loro un basso salario d’ingresso a conferma della loro minore produttività, una maggiore flessibilità in modo da permettere più facilmente di passare da un lavoro all’altro fino a trovare quello giusto e lavori temporanei, che sono l’unico modo per accumulare l’esperienza lavorativa di cui hanno bisogno. Gli interventisti, invece, criticano la flessibilità in entrata e i lavori temporanei, la prima infatti aiuta solo coloro che già hanno maggiore motivazione e un livello d’istruzione più alto, il lavoro temporaneo, invece, permette di accumulare esperienza lavorativa generica, ma non specifica al posto di lavoro. La soluzione individuata è invece un policy-mix nel quale la flessibilità sia accompagnata da un sistema d’istruzione più democratico e da un sistema capillare di formazione professionale.

 

Professore, nel suo intervento relativo al dibattito organizzato il 18 Aprile 2013 dall’Associazione culturale Ad Alta Voce di Teverola sui giovani e il lavoro ha fatto riferimento alla flessibilità del mercato del lavoro, ricetta tipica del liberismo, come causa principale dell’attuale precariato giovanile. Non pensa, come non ha mancato di evidenziare il premio Nobel per l’economia del 1998 Amartya Sen, che al liberismo possa essere mossa una critica rilanciando la questione dell’etica? Secondo Sen, infatti, il sistematico allontanamento dal comportamento mosso dall’interesse personale, e l’assunzione di uno orientato secondo le regole del dovere, della lealtà e della buona volontà è stato fondamentale in Giappone per il raggiungimento dell’efficienza economica individuale e di gruppo. Del resto, lo stesso liberismo, secondo le indicazioni del filosofo Scozzese Adam Smith, auspica che la somma delle singole azioni (miranti al massimo beneficio personale) abbia sempre di mira il massimo beneficio collettivo. Qual è la sua opinione?

 

Sono d’accordo con Amartya Sen e anche con la condizione che Adam Smith pone all’idea che l’individualismo e l’egoismo siano la soluzione in grado di consentire di raggiungere il massimo benessere collettivo. Spesso perseguire l’interesse individuale può essere da ostacolo al conseguimento di quello collettivo, quando non portare a svantaggi per tutti. L’idea che basti lasciar fare al mercato e all’individuo è un’idea economica primitiva che, tuttavia, trova sempre nuovi adepti. Forse il motivo è che le istituzioni che sopravvedono al corretto funzionamento dei mercati cambiano sempre spingendo chi crede nel liberismo a chiedere l’abbattimento delle istituzioni ormai superate, anziché una loro riforma.
Le istituzioni sono importanti, ma vanno aggiornate continuamente attraverso un processo democratico estremamente complesso. È innegabile che le istituzioni che sopravvedevano al mercato del lavoro, istituzioni che sono state sviluppate negli anni Settanta, quando esisteva un’economia di tipo fordista, sono un vincolo inaccettabile in un’economia dalla connotazione post-fordista e addirittura post-industriale. Tuttavia, le istituzioni del passato non vanno eliminate; esse vanno rinnovate. Un esempio classico sono i cosiddetti life-time jobs, i lavori che durano tutta la vita: in ogni epoca storica sarà sempre essenziale avere esperienze lavorative prolungate se si vuole che si sviluppi il capitale umano specifico ad un certo posto di lavoro. Senza l’elemento della durata, e quindi senza una certa protezione del posto di lavoro, lo sviluppo del capitale umano sarà limitato.
Istituzioni moderne sono essenziali al funzionamento efficiente dei mercati, non sono un ostacolo. Nel caso dei giovani, è noto che i Paesi che fanno meglio non sono solo quelli anglosassoni, dove le transizioni scuola-lavoro sono informate a principi liberisti, ma anche quelli scandinavi ed europeo-continentali, che pur essendo tutt’altro che flessibili, funzionano molto bene. La disoccupazione giovanile è più bassa in Germania che nei Paesi anglosassoni, per intenderci. Però, anche i mercati del lavoro dei Paesi europeo-continentali funzionano bene poiché rinnovano continuamente le loro istituzioni, eliminando i vincoli più rigidi. Le riforme di Hertz, dal nome del ministro tedesco che le ha attuate nei primi anni Duemila, sono state fondamentali per rilanciare il buon funzionamento del mercato del lavoro. Questi cambiamenti hanno consentito ai Paesi europeo-continentali e scandinavi di far fronte molto bene alla crisi economica che affligge l’economia mondiale, al contrario dei Paesi anglosassoni e anche di quelli mediterranei che, più di recente, li hanno seguiti a ruota sulla strada del liberismo, attuando riforme volte ad accrescere notevolmente il grado di rigidità del mercato del lavoro.

 

Durante il dibattito lei ha più volte espresso la necessità, ribadita anche nel suo libro, di un legame fra istruzione e formazione sul campo come centrale per rimettere in moto il processo occupazionale. Sicuramente il modello tedesco ha tratto giovamento dalla forte sinergia scuola/lavoro; mi chiedo però se il problema reale non vada ricercato nella scarsa propensione del sistema scolastico italiano a risvegliare la coscienza critica dei giovani, unico antidoto all’indifferenza nei confronti della politica e quindi del proprio futuro lavorativo. In altre parole, ho avuto l’impressione che volesse ridurre la scuola a una specie di collocamento al servizio della grande industria, quando invece il suo vero compito, come affermava Bowen, è formare “personalità autenticamente umane”, coscienti della contraddizione tra il proprio fare e il sapere di esso.  Può chiarire meglio la sua posizione?

 

Non credo ci sia questo rischio, che spesso viene paventato da chi ha un background culturale umanistico. Direi che è un errore non considerare l’aspetto dell’investimento in capitale umano e i possibili esiti occupazionali dell’istruzione universitaria. Per le famiglie e per i giovani, istruirsi implica un costo e se non c’è un rendimento adeguato si rischia di spingere molti ad uscire dal circuito dell’istruzione e della formazione. Ciò sarebbe un grave danno per tutti, poiché maggiore è il livello di istruzione, maggiore è la qualità della vita, la salute, la sicurezza, la capacità di innovazione e anche la crescita economica. Proprio in questo periodo, la crisi economica sta mettendo a dura prova le finanze di molte famiglie e le iscrizioni universitarie si riducono in modo drammatico. Uno dei motivi di questa riduzione del numero delle iscrizioni è proprio che finora è prevalsa una visione dell’istruzione come bene di consumo piuttosto che come bene d’investimento. Ciò incide alla lunga sulla motivazione, riducendola e aumentando così la durata degli studi e la probabilità di abbandono scolastico ed universitario, che sono in Italia fra le più alte al mondo. Occorre, invece, accrescere la motivazione dei giovani garantendo all’istruzione una maggiore spendibilità nel mercato del lavoro.

 

Il problema del sistema capitalistico è la considerazione della forza-lavoro come una merce fra le altre, così lavoro e vita si intrecciano nella società postfordista, ponendo le premesse dello sfruttamento. Quali correttivi possono essere apportati  per superare questo perdurante feticismo delle merci?

 

L’istruzione, qualunque istruzione, è il migliore strumento per combattere il feticismo delle merci. Più l’individuo è istruito, maggiore sarà la sua creatività e autonomia nel lavoro. In futuro, probabilmente, grazie alla diffusione della società della conoscenza, la produzione materiale sarà sempre più automatizzata e il lavoro tornerà ad essere creativo. Si ritornerà in questo alla fase pre-industriale nella quale il lavoratore era parte di un’aristocrazia operaia. Egli era artigiano e perciò padrone del prodotto del proprio lavoro. Così accadrà anche in futuro. Prima, però, occorre superare la situazione attuale. Proprio per non aver investito abbastanza in ricerca e sviluppo ed in innovazione, siamo caduti in una trappola, un vicolo cieco. Continuiamo a produrre beni a basso contenuto tecnologico che riducono l’incentivo ad istruirsi e a fare ricerca. Occorrerebbe un intervento dall’alto volto ad accrescere l’innovazione ed a farci entrare in quella che alcuni chiamano la "high road to development".

 

Hannah Arendt, nel suo Vita Activa, sosteneva che specificamente umana non è la possibilità di svolgere un lavoro, che risponde a una mera esigenza biologica (zoé), quanto quella di “agire”, ovvero cominciare qualcosa di nuovo intervenendo direttamente nel pubblico dibattito con la forza delle proprie argomentazioni. Non pensa, a tal proposito, che una discussione sul lavoro debba avere come obiettivo quello di illustrare i problemi strutturali che non consentono ai giovani di  essere protagonisti dell’agorà politica? Lo stallo economico attuale è dovuto infatti, parafrasando la Arendt, al fatto che l’amministrazione burocratica della grande famiglia sociale ha rimpiazzato l’esercizio diretto della parola in politica, la sostituzione del fare con l’agire ha reso la produttività l’unico senso dell’agire in comune, l’amore per la libera iniziativa ha prodotto l’amministrazione di molti da parte di pochi.

 

Sono d’accordo nel dire che purtroppo i giovani contano sempre di meno nella vita sociale e politica e ciò incide anche sulla qualità della nostra politica economica e della politica tout court. Però, la partecipazione attiva alla politica va di pari passo con la partecipazione attiva al mercato del lavoro. È solo attraverso il lavoro che l’individuo acquisisce anche il coraggio di entrare nell’agone politico e far pesare le proprie opinioni. Si veda il caso delle donne: minore è la loro partecipazione attiva al mercato del lavoro, minore anche quella alla vita politica e sociale.

 

La depressione di fine Ottocento, la crisi del 1929, quella petrolifera del 1973 sono crisi cicliche del sistema capitalistico; quali affinità e differenze, al di là dei diversi contesti storici, riscontra con quella che ha avuto inizio nel 2009?

 

Il meccanismo delle crisi economiche resta sostanzialmente invariato nel corso dei decenni e così anche l’elenco dei rimedi, in fondo. Però occorre cambiare un po’ le soluzioni oggi. Sulle cause, la risposta è chiara. Come in passato, ci si è fidati troppo del liberismo: anche a causa del forte debito pubblico, si è cercato di ridurre il peso dello Stato nell’economia. I vincoli di bilancio pubblici sono così stringenti da impedire anche la riforma dello stato sociale. È mancato anche il coraggio di apportare i cambiamenti necessari. Come dicevo prima, occorre riformare l’intervento dello Stato nell’economia. Occorre la forza di cambiare, di eliminare la spesa improduttiva, i privilegi, gli sprechi e trovare nuove risorse per una spesa produttiva. Ci è mancato il passaggio che la Germania ha avuto nei primi anni Duemila. Inoltre, sempre a causa del conservatorismo e liberismo imperante, non si è capito che l’euro significava non tanto inflazione, ma perdita di competitività per la nostra industria, troppo legata al settore manifatturiero tradizionale. Se ne esce se si ha il coraggio di cambiare: cambiare l’organizzazione dello Stato, la struttura industriale e anche la distribuzione dei redditi. La soluzione delle politiche keynesiane potrebbe non funzionare se non accompagnata da una redistribuzione a favore dei redditi più bassi, quelli che contribuiscono con maggiori consumi alla domanda aggregata. Negli ultimi anni il debito pubblico è aumentato, ma non per questo l’occupazione è cresciuta. Il motivo è che non sono aumentati i consumi, ma solo i redditi dei più ricchi, che consumano in media meno di coloro che vivono di redditi più bassi.

 

Può riassumere per Il Pickwick i concetti principali che sostanziano i correttivi da lei prospettati per uscire dal tunnel?

 

Credo che, in sintesi, si possa dire che bisogna superare l’idea che per aiutare i giovani dobbiamo aumentare la flessibilità del mercato del lavoro. Invece, bisogna migliorare la qualità della loro istruzione e consentire l’acquisizione di un capitale umano a tutto tondo, cioè comprensivo anche dell’esperienza lavorativa sia generica che specifica ad un certo posto di lavoro. A tal fine, senza infingimenti, dobbiamo riconoscere la necessità proprio di superare l’idea dell’istruzione come bene di consumo e trattarla come bene di investimento. Si tratta di una rivoluzione culturale. L’istruzione porterà con sé pur sempre maggiori valori culturali, anche se la si collega meglio con il mercato del lavoro. Non preoccupiamoci di questo. Occorre “investire” di più in istruzione. Occorre aiutare le famiglie a scegliere il percorso che rende di più con informazioni adeguate sugli esiti occupazionali dei diversi percorsi di studio. Occorre anche fornire maggiori collegamenti fra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro, che finora sono stati mondi paralleli. Occorre introdurre una università professionalizzante. Occorre creare una infrastrutturazione informale nel mercato del lavoro che preveda un’interazione fra diversi soggetti: giovani, famiglie, luoghi di informazione e di formazione, imprese, sindacati.  

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