“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 23 February 2019 00:00

“Coreografia per una mostra”: Mapplethorpe al Madre

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La ridefinizione non di confini fra discipline, tra ambiti artistici o culturali, che non possono sussistere se non all’interno di una chiarezza di visione complessiva, ma tra la sottile linea del profilo di un corpo e l’antro fatto di luce od ombra, in cui si risolve tutto ciò che esiste attorno a quest’ultimo. Quello che qui si esplora è tale delimitazione, spinta quel tanto che basti a far comprendere quanto i due elementi finiscano per fondersi pur senza esautorare l’indipendenza del soggetto, indiscusso “archè” della composizione. Entro una simile volumetria abitativa è dunque la forma umana a dettare e costruire lo svolgimento spaziale in sua funzione.

E non importa che lo spazio sia appositamente creato nello studio fotografico; esso diviene a tutti gli effetti assoluto, concreto e astratto, scevro del superfluo, guadagnandosi la possibilità di esistenza. Ma pur costruendo a tavolino ogni scena, l’artefice non nasconde nulla, men che mai lo sfacciato riferimento, o meglio l’ostentazione del sesso e di un piacere sessuale che qui è incontrastato metro di bellezza, e che fa della struttura di ognuno dei ballerini e atleti nudi o delicatamente celati, l’unica possibile via di perfezione formale, forgiata dall’esercizio fisico, dalla sanità di un organismo pacificato con ogni suo movimento o doloroso desiderio (laddove piacere e dolore coincidono), in squisita sintonia con l’esterno, e in costante tensione verso l’impulso perenne e primordiale alla vita. Tutto si declina, naturalmente, al di fuori dei preordinati canoni di quello che ad oggi è ormai il mito del benpensante borghese, e al contempo cavalcando in un modo tutto peculiare, nello scandalo vero fatto della schietta aggressività di un’immagine, il compiacimento edonista dell’autore e della sua platea di ammiratori e intellettuali, i quali fanno di questo ribelle obiettivo di scardinamento di valori sociali e comportamentali, in favore dell’agognata liberalizzazione del pensiero e dei costumi, un fenomeno à la page nell’eccitante clima glamour della New York degli anni ’70 e ’80 e del jet set internazionale. Nella ricerca in esame la proporzione è esattamente ciò che è: si tratta di interpretare una fisicità non legata a un determinato orientamento sessuale o a concezioni formalistiche prestabilite, e nel mostrarla l’artista non comprende queste differenze di genere, o di alcun genere, fra le variabili della propria equazione, giocando in modo disinvolto e provocatorio con ciò che si vorrebbe far rientrare nella categoria dell’androgino o dell’effeminato.
Tenendo conto di tutte le componenti individuate nella produzione in esame e dell’atmosfera di quello che è anche un rigoroso studio gestuale e strutturale in sintonia con una rappresentazione performativa, cifra basilare di questa idea di esposizione, nel percorso si introduce da subito al lineare e diretto confronto con opere dell’antichità provenienti dal Museo Archeologico Nazionale, da Capodimonte e dalla Reggia di Caserta, nel contesto dello scambio sinergico e fruttuoso fra le diverse realtà museali della Campania. Dopo progetti quali Pompei@Madre, o la retrospettiva su Mimmo Jodice, la collaborazione tra i poli culturali prosegue fluidamente in questa Coreografia per una mostra, e porta avanti anche la densa e moltiforme riflessione che in varie sedi del globo, nel corso degli anni, si è spesso incentrata sul rapporto fra l’estetica di Mapplethorpe e l’equilibrio formale degli antichi principi. Così, ad esempio, la bellezza dell’ideale classico nei torsi scultorei romani, è parallela a quella espressa nelle fotografie del corpo nudo femminile e a quella delle tre grazie che spiccano sulla parete attigua, e viceversa queste ultime si “muovono” in parallelo con quella originaria e immortale conquista, catalizzando in modo sorprendente, sulla compattezza di una pelle che collochiamo in un baleno nel quadro estetico anni Ottanta, tutta l’indissolubile, plastica integrità di un’inappuntabile visione.
Per quanto il sentiero dell’esibizione per immagini sia precisamente scandito attraverso l’ordine temporale e di senso nell’attraversamento dei vari ambienti, si potrebbe guardare ad esso come ad una libera promenade che dalle due ali del piano in cui quest’ultimo si snoda approda all’ambiente centrale, fulcro significante di quella che intenzionalmente si presenta come continua preparazione, di fotogramma in fotogramma, di un vivido programma coreografico a cui ogni protagonista di tali ritratti, Mapplethorpe su tutti, sta prendendo parte. Di fatti nella sala della terza sezione l’apparato scenico si compone di una galleria di autoritratti fotografici dell’autore newyorkese, il quale con un’aria ambigua e intrigante, a metà fra la più istrionica spontaneità ed il più smaliziato sbeffeggiamento dello spettatore, si fa interprete di pose e travestimenti che spaziano dal più farsescamente impettito yuppie al più spiritato e maligno satiro, dialogando con le due salette attigue che fungono da camerini di prova e di vestizione per gli artisti che daranno vita all’ideale spettacolo. Uno dei due ospita una serie di quelle che definiremmo immagini forti, fra cui alcuni scatti del Portfolio X, dai contenuti esplicitamente sessuali e più precisamente sadomasochistici, in rappresentanza di quella frangia estrema di tale espressione, che conduce alla più sprezzante esibizione formale di ciò che è considerato intimo e proibito (fra queste, il celebre ritratto di Mapplethorpe con il frustino collocato nel particolare “luogo”).
Meritevole la carrellata di ritratti di artisti, star, intellettuali, fra cui Andy Warhol, Louise Bourgeois, Susan Sontag, Doris Saatchi, gli italiani Leo Castelli e l’amico Lucio Amelio, ammantato come un’oscura e sbilenca figura celata dietro una maschera feticcio, vicina alla resa del mistero che il fotografo profonde nel suo immortalare i luoghi cultuali e ancestrali di Napoli e della Campania, e le inquiete vibrazioni che uniscono vita e morte. Ma tra i sensibili riferimenti all’arte storicizzata e la particolareggiata, variegata ripresa del corpo di numerosi soggetti afroamericani con il membro in evidenza, emerge anche una via che lega le differenti ispirazioni all’interno della medesima attualizzata rappresentazione: l’idea visiva del passaggio delicato tra corpo e spazio attraverso una moderazione chiaroscurale che nel bianco e nero forgia un contrasto fine e quasi impalpabile, determinando una creazione carnale e insieme distaccata, essenziale.
La mostra, la quale è accompagnata da appuntamenti costituiti dalla realizzazione di performance site-specific che vedono coinvolti importanti coreografi stranieri e ballerini campani, si presenta frizzante e al contempo sontuosa, e rende un giusto omaggio alla figura di Mapplethorpe, a quel giovane artista spiantato che conquistò fama e denaro con il suo sguardo emblematico, incisivo e impudente, colui il quale una volta rispose allo scrittore Bob Colacello, che gli chiedeva perché scegliesse il sesso estremo come soggetto: “È la cosa più difficile da fare: trasformare la pornografia in arte, mantenendola sexy”.

 




Robert Mapplethorpe
Coreografia per una mostra

Fotografie di Mapplethorpe, opere antiche e moderne
A cura di Laura Valente e Andrea Viliani
In collaborazione con la Mapplethorpe Foundation
Foto a corredo:
Copertina: White Gauze, 1984 © Robert Mapplethorpe Foundation
1. Legs / Melody, 1987 © Robert Mapplethorpe Foundation
2. Phillip Prioleau, 1982 © Robert Mapplethorpe Foundation
3. Thomas And Dovanna, 1986 © Robert Mapplethorpe Foundation
4. Philip, 1979 © Robert Mapplethorpe Foundation
Museo MADRE
Napoli, dal 15 dicembre 2018 all’8 aprile 2019

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