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Saturday, 01 September 2018 00:00

Ariella Azoulay. La fotografia tra estetica e politica

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Ariella Azoulay, nativa di Tel Aviv e docente di Comparative Literature e di Modern Culture and Media presso la Brown University di Providence, Rhode Island e di Visual Culture presso la Bar-Ilan University di Tel Aviv, è una documentarista e teorica della fotografia e della cultura visiva, autrice del libro recentemente tradotto e pubblicato in italiano con il titolo Civil Imagination. Ontologia politica della fotografia (Postmedia books, 2018).

Azoulay, che intende la fotografia “come un evento collettivo in cui visione, parola e azione si intrecciano e sono inseparabili dalle lotte globali in corso tra la violenza dominante e la società civile”, apre il volume con con una riflessione a proposito della celebre fotografia, riportata in copertina, Aisha al-Kurd and her son Yassir (1988) realizzata da Micha Kirschner. La donna della fotografia e il marito, genitori di cinque figli, sono palestinesi tenuti prigionieri per qualche tempo in “detenzione amministrativa” dalle autorità israeliane mentre veniva demolita la loro abitazione. Azoulay racconta di come erroneamente avesse in un primo momento individuato in tale fotografia un esempio di estetizzazione della sofferenza operato dal fotografo e di come tale fraintendimento deriverebbe dalla scorretta abitudine di contrapporre estetica e politica. A partire da tale esempio il libro riflette su quelle ragioni dell’errata interpretazione e sulla necessità di “ripensare la categoria del politico, con i suoi limiti e le sue specifiche, e di fare spazio all’emergere di una categoria diversa, quella civile”.
Nel contesto mediorientale in cui è stata scattata la fotografia “la cittadinanza è limitata ad una serie di  privilegi di cui solo una parte della popolazione controllata dal governo può godere, peraltro in modo tutt’altro che equo. Il diritto fondamentale riservato a questo gruppo di privilegiati consiste nella possibilità di guardare la sciagura, di essere spettatori. Sul piatto non c’è il piacere potenzialmente legato all’atto spettatoriale, bensì l’atto stesso, riservato ai privilegiati detentori di diritti civili, i quali possono osservare il disastro da una posizione relativamente sicura, mentre coloro che essi osservano appartengono a una diversa categoria di soggetti, costituita da persone che possono subire una sciagura e pertanto essere  guardate nell’atto di sopravvivere in condizioni distratte”. Dunque, sostiene Azoulay, lo scandalo del ritratto  non risiede nella fotografia, nella sua estetica, ma piuttosto nella vulnerabilità dell’abitazione di Aisha al-Kurd all’invasione violenta di militari israeliani e, inoltre, nel fatto che “più resta permeabile agli sguardi di coloro che non vedono la sua sofferenza, ossia di quei cittadini privilegiati che non vedono la sua condizione come propriamente disastrata, o meglio che la vedono come un disastro a seconda del punto di vista”. Quella di Aisha, così come per milioni di palestinesi, continua la studiosa, è definibile una sciagura di regime, un tipo di sciagura che ha la caratteristica di venir messa in atto ripetutamente “senza essere percepita come tale dai cittadini che vivono entro la sua portata”.
In una sciagura di regime, “il primo passo nell’evoluzione di un discorso civile consiste nel respingere l’identificazione di una sciagura con la popolazione che la subisce. Consiste cioè nel rifiutarsi di vedere il disastro come una proprietà specifica di questa popolazione, come ad esempio nella locuzione profugo palestinese. Un discorso è civile nel moneto in cui sospende il punto di vista del potere governativo e i caratteri nazionalisti che lo rendono capace di creare divisione tra i soggetti, e di mettere le fazioni l’una contro l’altra. […] Il discorso civile non è una finzione; cerca anzi di tracciare la via per un campo di relazioni tra i cittadini da una parte e i soggetti privi di diritto di cittadinanza dall’altra, sulla base della loro alleanza in un mondo che tutti condividono in quanto donne e uomini sottoposti al potere”.
Secondo la studiosa il civile andrebbe definito come l’interesse dei cittadini nei confronti propri e degli altri in forme condivise di coabitazione; a tale scopo, continua, occorre un’immaginazione civile che a sua volta richiede la ridefinizione dell’immaginazione politica, ossia una forma di immaginazione condivisa tra gli individui.
Con tali premesse il saggio tenta poi di descrivere questa immaginazione sul campo invitando chi legge, per usare le parole spese dal Cargo Collective a proposito del libro, “a partecipare allo sforzo di ricostruire alcune delle caratteristiche dell'immaginazione politica moderna, di vedere il modo in cui il potere si inscrive al suo interno e di utilizzare la facoltà dell'immaginazione civile per ripensare i suoi potenziali confini. […] Azoulay utilizza la fotografia per ricostruire un dominio in cui dei punti di vista in competizione si scontrano senza che nessuno di loro, nemmeno quello dominante, goda di una posizione privilegiata”.
È importante notare come nella visione di Azoulay la fotografia venga concepita “come una questione civile e politica, ma la concettualizzazione della fotografia come politica non ne allontana né annulla le qualità estetiche”. L’invito che rivolge la studiosa è pertanto quello di abbandonare l'ingannevole tendenza che vuole politico ed estetica come due poli contrapposti e di adottare piuttosto “una nuova prospettiva sul rapporto tra politica ed estetica, equivalente a due dimensioni dell’essere-insieme” in modo che si possa andare verso “una nuova concettualizzazione della dimensione visiva della vita politica [utilizzando] tracce fotografiche per leggere forme diverse di relazioni di potere, dominio e collaborazione".

 







Ariella Azoulay
Civil Imagination. Ontologia politica della fotografia
Milano, Postmedia Books, 2018
pp. 272

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