“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 21 April 2018 00:00

Su "La cupa" di Borrelli

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Non è vero che la camera della nostra infanzia rimane piena di luce nella nostra memoria. Lo è solo per i manierismi della convenzione letteraria. È una stanza morta, abitata da morti. Cercheremmo di rimetterla in ordine invano: sempre morirà. Ma se pure ci si riesce di estrarne dei frammenti, anche infimi – un piccolo pezzo di divano, la finestra e, aldilà di una strada che svanisce sullo sfondo, un raggio di sole sul pavimento, le scarpe gialle di mio padre e i pianti di mia mamma e la faccia di qualcuno dietro il vetro della finestra – è possibile che allora la nostra vera stanza dell'infanzia cominci a prendere corpo e forse riusciremo anche noi a mettere insieme tutto quello che serve al nostro spettacolo”.
(Tadeus Kantor)

Due giovani (Vicienz Mussasciutto e Maria delle Papere) si amano ma giacché appartengono a famiglie rivali – conseguenza di una vecchia storia di cui furono protagonisti i padri dei loro padri: una cava di tufo sottratta da uno all'altro durante una partita giocata con carte truccate – la loro unione in matrimonio diventa impossibile: lei viene stuprata dal genitore di lui (Tummasino Scippasalute) mentre il ragazzo muore, non prima di aver rifiutato di credere all'innocenza della fanciulla che amava, rinnegando dunque il sentimento provato.
Non basta.
Maria delle Papere, destinata per disperazione al suicidio – un taglio netto alla gola, che si infligge con la mano destra tremante – ha un padre (Giosefatte 'Nzamamorte) che si rifiuta d'essere un padre così scontando una colpa lontana: non essere stato in grado di proteggere suo figlio Mimmuccio: seviziato, zittito e strozzato vent'anni prima. Inoltre. Un nipote e uno zio che diventano l'uno l'assassino dell'altro; gli occhi bruciati – condizione impostale dalla nascita – di Maria delle Papere, che mi ricorda gli uccellini che vengono accecati con la punta dello spillo perché in gabbia cantino per dimenticare la loro prigionia; una donna (Cenzina) che ha il ruolo infausto che nel Romeo e Giulietta di Shakespeare ha lo speziale – dona ai giovani amanti una pozione che invece di salvarli li condanna: anche lei, dopo essere stata insultata e picchiata, verrà uccisa da suo marito, Tummasino Scippasalute, e offerta a due animali perché la spolpino: simile in questo a Polinice, il cui cadavere Creonte ordina di lasciare insepolto nell'Antigone; ancor di più simile a Penteo, il cui corpo esanime è l'unico della tragedia greca che non viene portato via. E ancora. Le trame notturne, le alleanze e le delazioni, i sotterfugi, gli scambi di persona e le apparizioni improvvise, la semina continua del sospetto e del dubbio (alla maniera di Jago con Otello e Desdemona), l'esistenza di una selva che è lo spazio deputato alla violenza – come nel Tito di Shakespeare, nel cui bosco teatrale viene stuprata e mozzata di mani e lingua Lavinia – e il cumulo di defunti, esseri già morti prima che questa storia abbia inizio (una donna, gettatasi da una rupe per la depressione; una madre e un padre uccisi di lavoro in una cava; una moglie squagliata nell'acido perché sospettata di tradimento; una miriade di bambini violati e massacrati): cumulo che dall'aldilà ora pretende – da chi si appresta a recitare questa sera – l'esercizio implacabile della vendetta: pensate, per questo, all'Amleto o ad Agamennone, la cui tomba nelle Coefore chiede che il suo omicidio produca altri omicidi.
Le agnizioni – io non sono tuo zio ma tuo padre, tu non sei mia sorella ma mia figlia – come avviene in teatro fin dal terzo millennio prima di Cristo; la messa in mostra della deformazione fisica, per cui vediamo apparire Pacchione, un pescatore privo di entrambe le mani (Edipo non aveva forse il piede zoppo? Riccardo III non aveva la gobba?), e il sangue soltanto evocato, la presenza nel retroscena dell'Ade, gli inserti comici improvvisi, buoni per alleggerire la tensione (ne fu caposcuola Euripide, ne è stato maestro Shakespeare coi suoi fool), il rifiuto costante della verità (ricordate Cassandra?), il passaggio da un matrimonio a un funerale e il palco che diventa un campo di battaglia, i cadaveri che si affollano sui lati, s'alza il fumo, le urla si accalcano, gli uomini imprecano, schermaglie di parole si susseguono prima che – a una a una – le voci tacciano: resta infine solo l'eco dei suoni, un testimone degli eventi accaduti e un bouquet di fiori bianchi, illuminato da un faro che taglia lo spazio da destra: simbolo di speranza, forse; forse il segno che ogni innocenza è recisa, che la purezza è sconfitta, la passione non basta, che la felicità è un'illusione e la giustizia non esiste.



La cupa è una tragedia, su questo sono tutti d'accordo: spettatori e critici. Rubo pareri in foyer, prima di tornarmene a casa – metto in fila le recensioni pubblicate fin'ora – e ciò che pare sia avvenuto al San Ferdinando è una serie di eventi effettivi, materialmente concreti, che riguardano donne e uomini in carne e ossa, vivi quanto siamo vivi noi che sediamo in platea. Ma è davvero così? Davvero ciò che appare durante La cupa è fatto della stessa sostanza di cui siamo fatti anche noi? Davvero Giosafatte 'Nzamamorte e sua figlia Maria delle Papere, Vicienz Mussasciutto e suo padre Tummasino Scippasalute sono creature reali? Sono davvero reali Pacchione, Pagliuccone, Settanculo, Sciarmazappe, Cenzina, Atamo Pacchiarano e Rachela – la papera che fa da compagna, protettrice e consigliera a Maria? A me sembra invece che La cupa sia innanzitutto una proiezione mentale, che sul palco non si muovano uomini e donne che sono ma donne e uomini che furono, che dinnanzi ai miei occhi ci siano innanzitutto spettri, fantasmi, apparenze strappate alla dimenticanza; la mia impressione è che La cupa sia (ri)abitata da anime ritornanti, per usare un'espressione di Moscato. La mia impressione è che quest'opera dunque – prima che una tragedia; prima che una trama che ha in sé gli archetipi strutturali e i gangli argomentativi della tragedia – sia un'evocazione di spiriti, la messinscena di un'ossessione cerebrale, l'ennesimo ritorno in classe dei morti, per dirla con Kantor; che sia, per dirla ancora con Kantor, la rinnovata esistenza di un ricordo.
Tant'è.
La cupa non comincia coi fatti – non c'è piede che batta sul legno facendo sentire il suo tonfo in concreto – né comincia in uno spazio chiaro al millimetro, già occupato da una moltitudine esistente; La cupa comincia con un uomo vivo e vegeto – uno solo, di nome Innocente Crescenzo – che dal fondo della sala del San Ferdinando parla con un maiale, di nome Ciaccone, che è “l'emerito custode r' 'a memoria storica di cudesta ode” poiché – essendo in passato già avvenuto tutto ciò che tra poco vedremo succedere di nuovo – sono “li bbestie” ormai, e non più gli uomini, a essere state “elette aposte' r' 'a parola”. È Ciaccone che comincia il rito, battente e sonoro, rinominando i defunti, mettendo in sequenza frammenti di quello che accadde, ricordando – perché si ripetano adesso – le “malefatte, empietà fatte e strafatte”. “Stann' arrivanno” quindi grida Ciaccione, “Ciaccone mio, non li evocare!” lo prega inutilmente Crescenzo: “I ssiente!” ovvero ormai sono prossimi e infatti dagli abissi oscuri del teatro, ossia dal retro delle sue quinte, avanza un gruppo di figure cadaveriche (il volto imbiancato, gli occhi scavati, la polvere, la sabbia o la resina sulle spalle, gli abiti bianchi o neri in segno di lutto): sono coloro che c'erano e che saranno, per le prossime tre ore, al nostro cospetto.
L'allora, dunque, ne La cupa ri-è.
E d'altronde.
Quattro anni fa Borrelli, nell'ipogeo sotterraneo della Chiesa del Purgatorio ad Arco – edificio desacralizzato, ossario popolare, tomba comune per i morti di tifo, sede del culto profano delle capuzzelle e casa tombale delle anime pezzentelle ovvero dei defunti rimasti senza preghiera e quindi costretti in eterno in Purgatorio: a un passo soltanto dall'Inferno mentre il Paradiso è una meta impossibile – mette in scena Opera pezzentella. Ebbene, al centro di Opera pezzentella si trova un canto intitolato Pietate nel quale – avanzando l'uno verso l'altra – dialogano proprio Giosafatte 'Nzamamorte e sua figlia Maria delle Papere. Il nucleo tematico de La cupa viene da lì, è di per sé – dunque – già un allora chiamato a ripresentarsi in scena adesso. In particolare Pietate è un dialogo dolcissimo e crudele: la cecità, la passione per il canto, il desiderio di avere un papà per Maria; il senso di colpa, il rifiuto del ruolo paterno, l'incapacità di tornare ad amare da parte di N'zamamorte: “abbracciami” le chiede quindi la figlia, “Je nun 'o ssaccio fa'!” le risponde suo padre. Almeno raccontami la mia storia, raccontami chi fui e chi fosti, gli chiede la ragazza, “nu ghiuorno saparraje...” le risponde Giosefatte prima che Opera pezzentella riprenda il suo corso.
Pietate, messo in relazione con La cupa, dimostra che Borrelli è in possesso di un proprio universo cranico-purgatoriale-poetico; una sorta di aldilà personale abitato da morti reali e immaginari, nelle cui viscere e tra le cui penombre torna a immergersi quando sente che è arrivato il momento di portare alcuni di loro di nuovo alla luce, di farli tornare in apparenza alla vita perché si mostrino in pubblico; Pietate dimostra inoltre che la morte in quanto morte è il presupposto del teatro di Borrelli, che per lui il teatro è innanzitutto un atto di memoria, il recupero del perduto, uno scavo nel profondo del tempo, l'opposizione all'ingiusto dominio del silenzio, la ripresa di un ricordo e quindi di un nome, di un volto, una voce, una circostanza.
Tanto è vero che.
Tre anni fa, alle cinque del mattino, Borrelli ha convocato gli spettatori sulla spiaggia di Torregaveta per mostrare qualche frammento di 'A Sciavica (uno spettacolo oggi inesistente e dunque morto): operazione possibile solo prima che sorgesse l'alba, che fosse giorno, che il mondo riprendesse la sua esistenza ordinaria. Due anni fa invece mi sono trovato, assieme a un centinaio di abitanti flegrei, nel mezzo di un parcheggio in cemento che per una sera – solo per quella sera – è tornato a essere ciò che era ossia il campo di pallone Maremorto: tornarono col Memorial Bombolone, attraverso la pratica collettiva del racconto, i giocatori di allora, le partite vinte o perdute, certe azioni indimenticabili ma che pure erano state dimenticate; tornarono i pali, le reti e la traversa, le linee di gesso e i cross dalla fascia, i colori delle maglie, il battito sordo del calcio dato a una sfera di cuoio, la giovinezza perduta, i compagni scomparsi e l'umido della terra innaffiata. L'anno scorso infine – nell'aula di una scuola elementare, con Il sommo poeta del Petraro – è tornato udibile il verso di Michele Sovente attraverso il corpo contorto di Borrelli, in piedi su un banco, impegnato in un reading in grado di fondere assieme lacrime, saliva e muco, sudore, passato e presente, vita e malattia, solitudine, affetto, un tumore, la devastazione fisica, la morte e la permanenza poetica.
Di volta in volta “tesso e ritesso l'ordito mio / di tenerezza e oblio / dove la morte attraggo. / Con gesti ripetuti / aggrego amici persi di vista / e di svista in svista / incontro daccapo i miei antenati / che come attori muti / fissano una crepa” mi viene da scrivere: pensando a Borrelli, citando Pensose facce dilagano di Sovente.
Per questo ora, come da una crepa inflitta al presente attraverso l'evocazione del passato, tornano i morti – avanzano cioè gli attori, che kantorianamente se ne prendono incarico – affollando la scena de La cupa.

 

 


La luce si accende, i protagonisti compaiono, la rappresentazione comincia. Creazione multipla, essa risulta dalla volontà di un drammaturgo, dallo stile di uno scenografo, dalle melodie di un musico, dal gioco degli attori e dalla partecipazione del pubblico. Ma, prima di ogni altra cosa, essa è una cerimonia. Tutto sembra determinare questo aspetto cerimoniale del teatro: la solennità del luogo, la distinzione di un pubblico, profano, e di un gruppo di attori isolati in un “altro” mondo intimo, ombratile, assoluto e i tagli di luce, il rigore dei gesti, la particolarità di una lingua poetica che distingue radicalmente il linguaggio del teatro dal linguaggio quotidiano”.
(Jean Duvignaud)
Il palco è una pedana annerita al centro della quale s'intravede una mezza cupola che costituisce la cava di tufo. Dall'alto cala presto una sfera celeste, di ampiezza grandiosa, che rappresenta la Terra – intesa nella propria interezza – e che funge anche da fardello simbolico: è il mondo “fuori sesto” di Amleto, è il mondo retto con strazio e fatica da Atlante. La scena prosegue poi con soluzione di continuità tagliando nel mezzo la sala: il corridoio centrale, infatti, è una lunga pedana di tappeto-terriccio marrone, con sfumature laterali grigiastre e scaglie argentate e a ai suoi lati si scorgono diciotto passanti di metallo, nove per lato: i passanti sono un mezzo scenico – servono per far scorrere la cava dal fondo del palco al centro della sala, così rendendone materialmente visibile il crollo attraverso lo scivolamento – ma a me questo corridoio, prima che l'hamachichi ovvero la “strada dei fiori” del teatro Kabuki (come ha scritto Fiore su Controscena) ricorda, più umilmente, la stradina (cioè la “cupa” del titolo) che in terra flegrea porta alle cave e nel contempo mi ricorda anche l'ultimo tratto della Cumana, la linea ferroviaria che parte dal centro storico di Napoli e che termina proprio a Torregaveta, a un centinaio di metri dalla spiaggia cara a Borrelli (quella stessa Cumana, aggiungo, già inteatrata con S.E.P.S.A: opera che rappresenta anch'essa un viaggio dalla morte alla morte attraverso il recupero memoriale dei defunti). Inoltre. Del San Ferdinando vengono utilizzate le scale poste a tre quarti di sala e l'anfratto posteriore semicircolare, lo spazio cioè che si trova dopo le ultime file della platea: qui troviamo un candelabro a quattro luci, una rete da pesca e un drappo sfrangiato e dipinto che − a un tempo − pare un ritratto sconsacrato, una vecchia tela barocca e un ex voto marinaro: ritrae Giosafatte 'Nzamamorte.
Questo è l'ambiente – l'altro mondo – rianimato durante La cupa: è Torregaveta, con le sue montagne scure ed erose dal mare e la sabbia, le stradine in salita e la lunga banchina in cemento, i binari arrugginiti del treno, ma è una Torregaveta resa come antro formalizzato e allestito perché accolga una messinscena che svela la propria fattura teatrale in ogni suo aspetto. Tutto infatti concorre a generare il lessico specifico che ha lo spettacolo perché lo spettacolo diventi più di uno spettacolo: sia un rito cerimoniale.
Concorre la postazione del musico, Antonio Della Ragione, che è illuminata sulla destra e da cui proviene un ordito sonoro che fonde note orientali, canti degli scavatori flegrei e l'andamento bandistico dei madonnari; concorrono gli abiti – vere e proprie divise scure imbiancate sul petto, le spalle o le scapole dal manto latteo della resina o della salsedine – e concorrono le luci di Cesare Accetta, che sulla Terra calendarizzano l'andamento dei giorni (l'alba, il mattino, il tramonto, la sera, la notte, di nuovo l'alba) mentre nella pedana/corridoio producono tagli freddi o celesti che sembrano provenire dal Paradiso, caldi chiarori di scena e improvvisi avvampi sulfurei, d'un rosso bollore infernale: sono luci che riescono finanche a marchiare i corpi degli attori imprimendo dettagli (la linea rossa posta sotto gli occhi di Maria delle Papere, per indicare il bruciore a cui si deve la sua cecità).
Concorrono alla teatralità l'uso del verso in luogo della prosa (il rifiuto della falsificazione dialogica italiota e dell'ipocrita conversazione salottiera, illusoria e borghese), il dettato pluridialettale (che fonde cappellese, bacolese, montese con l'italiano barocco del Seicento, il napoletano di quartiere, l'onomatopea animalesca, il ritmo cantilenante ebraico) e certe frasi che rendono chiara la consapevolezza che siamo a teatro, che noi siamo attori e voi spettatori, che qui si recita, con sincerità, la finzione (“stimatissimo pubbreco 'i sta plateja”; “sta tragedia che per trent'anni ho vissuto da commedia”; “le tue frasi andrebbero scritte da un poeta” e “comme due attori ca doppe tante repliche e tant'anne de fatica senza maje se 'ncuntra' s'abbracciano in scena e sulo 'lla se diceno che se vonno bbene”).
Concorrono le enormi ali di grifone che scendono dal soffitto e che rappresentano la Natura che sorveglia, incombe e protegge o punisce questo nugolo di uomini che si affanna crudelmente sotto di lei.
Concorrono l'utilizzo continuo delle uscite laterali della sala, l'assolo vocale al microfono, l'apertura e la chiusura della botola, l'entra-ed-esci calcolato al secondo, l'uso del testimone interno (c'è di continuo chi spia ne La cupa) e concorrono gli oggetti (esempio: un elmo) posizionati in passerella perché siano pronti per l'uso nel momento in cui servono.
Concorre la studiata coreografia individuale e collettiva, che fonde le arti marziali dei manga nipponici (e di certi telefilm che vedevamo noi quarantenni da ragazzi), i colpi mortali di certe attuali serie-tv  e i rimandi al Teatro No con un accorto bilanciamento dei corpi nello spazio: il giro su se stesso (da carillon) che compie Gaetano Colella/Innocente Crescenzo quando recita la ninna nanna; la fusione bacino-a-bacino (mentre le schiene si inarcano all'indietro) con cui Maria delle Papere/Marianna Fontana e Vicienz Mussasciutto/Renato De Simone rendono l'attrazione sessuale che li unisce e l'impossibilità di viversela in toto e in concreto; il tocco con la mano destra con cui Tummasino Scippasalute/Gennaro Di Colandrea coniuga fisicamente la battuta di Maria delle Papere (“stu riavulo m'ha tuccato 'a panza comme si vuje 'u facisseve mò”); la disposizione in quattro gruppi da tre – e 'Nzamamorte nel mezzo – durante la processione che porta gli attori dal fondo della sala verso il palco; la posizione alternata (uno a destra, uno a sinistra) degli interpreti quando stazionano fissi in corridoio.
Concorrono l'uso dello slow motion, del fermo immagine, della schiera, del gruppo composto e destrutturato, della stilizzazione statuaria (l'intreccio marmoreo tra Maria delle Papere e Rachela/Veronica D'Elia) e concorre l'utilizzo dell'attrezzeria teatrale e degli elementi creati per farci comprendere l'irrapresentabile (fondamento del taomai teatrale): così un lungo cordone stringe al ventre Maria delle Papere che retrocede – trascinata per strappi da Tummasino Scippasalute – in un'andatura di spasmi: è lo stupro per cui ogni tiro è una penetrazione della vagina.
L'investimento nella formalizzazione – il rifiuto della scena neorealistica perché sembri vera – mi suggerisce almeno due cose.
La prima: la teatralità è il lessico di Borrelli, la lingua che ha scelto da quando aveva diciassette anni, era uno studente di liceo e trascorreva i pomeriggi col professor Salemme a riscrivere i classici, studiare le sestine dantesche, improvvisare farse e commedie, ripensare accenni comico-beckettiani ambientandoli in un ascensore. La teatralità (quest'insieme di parole, corpo, scene, luci, musiche e visioni) è l'unico modo nel quale Borrelli riesce a parlare a se stesso e al mondo, a parlare del mondo e di sé, a parlare di sé al mondo. Non c'è altra forma, non c'è altra modalità di discorso possibile, non c'è per lui altro genere (tant'è che risulta impropria la dicitura “romanzo” sulla copertina di 'Nzularchia, il testo teatrale pubblicato di recente dalla Baldini & Castoldi).
La seconda: per Borrelli il teatro è l'unico mezzo (democratico, popolare e colto assieme) che gli uomini hanno per dirsi ciò che è vero, mettendo in discussione se stessi e il pezzo di realtà di cui fanno parte, gli assetti sociali vigenti, le pratiche collettive quotidiane, il momento presente. A cosa serve infatti la messinscena de La cupa? A cosa servono i due giovani che non possono amarsi, la lotta tra famiglie rivali, gli omicidi e i suicidi e il cedimento apocalittico della cava ossia la ribellione della Natura alla violenza reiterata degli uomini se non a descrivere per esagerazione la società di cui facciamo parte: una società abituatasi all'orrore, alla violenza, alla depravazione morale, allo stupro di ogni norma e che pertanto rischia il crollo civile, l'implosione definitiva?
Per questo ne La cupa – ovvero “abbascio” questa “Torregaveta” scenica – i reati si assommano, oltre ogni limite sopportabile: qui si sfanga, si smotta e si spreta dove ci sono le antiche mura romane e nei pressi dell'acquedotto imperiale, “'u lastrato r' 'u tufo” è “canceroggio e irrespirabbile” mentre sotto il terreno “ci stanno scorie radioattive seppellite”, “ll' amianto”, “chiummo, acide e nitrato” e “fuste nucleare azzeffunnate” per cui “a ggente more de leucemia a carrette”; qui dominano il gioco d'azzardo, la calunnia, l'abusivismo edilizio, la truffa, la prostituzione, la pesca di frodo, “l'omicide e ll'aggiotaggie”, la negromanzia; qui ci si ubriaca “a primma matina”, il lavoro è sfruttamento, impera la ludopatia e la sevizia è pratica quotidiana e consueta; qui agisce indisturbato il “viecchio cammurrista” e “bastardo”, “laido sciissiuniste”, ci si “ntufa di palate e cazzuotte”, il pedofilo  trova di continuo altre vittime e i bambini, dopo essere stati stuprati, vengono uccisi, disossati e ne vengono smerciati gli organi al mercato nero; qui neanche la Natura sembra conoscere misura, normalità, un po' di sollievo: il sole, appena sorto, se “'nfrasca 'nt 'a cantina r' 'a feccia 'i 'll umanità”, il vento è “nu feticcio d'aria catarrose” mentre la bellezza dell'agave, “l'albero della morte”, fa nascere un fiore che “mentre sboccia” già “crepa”.
La cupa, insomma, è lo specchio epico, coscienziale e teatrale – dunque digrossato e distorto – nel quale viene riflessa (perché diventi oggetto di riflessione, cioè di ripensamento e giudizio) la realtà che viviamo ogni giorno.
Ma La cupa dice anche un'altra cosa.

 

In Divorare gli dei, il libro che dedica alla tragedia greca, Jan Kott scrive che “nel mondo tragico i morti ritornano” e che “l'eroe tragico è solo tra la gente forse perché vive, come Antigone, nel mondo dei morti: nel mondo di quelli che sono stati assassinati o che lui stesso ha assassinato”. “I morti” infatti – continua Kott – “chiedono per prima cosa di essere seppelliti ma poi chiedono anche riparazione” e dunque chi sopravvive comprende “che ammazzare non basta e che i morti, appunto, ritornano e insistono”. “Il ritorno dei morti e le loro caparbie richieste”, prosegue, “sono la forma più evidente del destino nella tragedia greca: sino alla fine si rifiutano di morire, anche se sono già morti, e i vivi sono dunque il loro nutrimento supremo”. “Le generazioni successive” – conclude Kott – “devono quindi soddisfare le richieste dei morti, dare un significato alla loro sconfitta, ristabilire l'ordine nel mondo ma questa mediazione attraverso il tempo e la storia può finire solo in tragedia, con nuovi cadaveri a riempire la scena”.
Così  “i morti mangiano i vivi”.
Ma Kott ha scritto anche Shakespeare nostro contemporaneo e infatti – in un passo di Divorare gli dei e poi in alcuni dei suoi capitoli – mette in stretta relazione la tragedia greca e quella elisabettiana. Dov'è che Kott vede l'evoluzione della prima nella seconda? Nella trasformazione della lotta tra morti e vivi in un conflitto tra padri e figli: prendete l'Amleto, ci dice Kott, e osservate bene la storia: si tratta di una tragedia nella quale i padri impongono ai figli il destino, senza alcun margine di libertà o di scelta: vale per il principe danese, vale per Ofelia, Laerte, Fortebraccio. E infatti tutti periscono o sono destinati a perire: se nella tragedia greca “i morti mangiano i vivi” in quella di Shakespeare i genitori mangiano la prole messa al mondo ed è così che accade anche ne La cupa che, dunque, presenta al pubblico anche il tema dello scontro generazionale e che consente a Borrelli di confessare in pubblico la difficoltà personale (il rifiuto, arrivo a scrivere) di diventare egli stesso padre associandosi a questa “malarazza” paterna, corrotta, dominante e colpevole.
Infine.
Dal genere della tragedia così come lo conosciamo – dalla Grecia antica a Racine, passando per Shakespeare – l'opera di Borrelli si distingue tuttavia per almeno due aspetti.
Il primo: i protagonisti non sono sovrani e regine, esponenti della corte, aristocratici, dame e cavalieri ma sono i pescatori, i cavatori di tufo, i marinai, la casalinga, il becchino di Baia o di Bacoli e i loro discendenti. Borrelli dunque proletarizza la tragedia – genere nobile per eccellenza –, lo vivianizza (il Viviani che guarda ancora ai quartieri mentre Eduardo cancella dai suoi drammi i “bassi” e “ambienta il suo teatro al primo piano del palazzo” per dirla con Stefano De Matteis): così facendo Borrelli promuove gli ultimi tanto quanto Caravaggio sceglie una prostituta o una ragazza del popolo per dipingere una Madonna.
Il secondo: mentre la tragedia greca è contraddistinta dalla solitudine dell'eroe, dovuta alla sua deformità comportamentale rispetto al contesto, alla sua parabola anarchica e alle sue scelte controcomunitarie – Serse che attacca la Grecia, Eteocle che uccide Polinice, Prometo che schernisce la potenza divina; Clitemnestra che fa uccidere Agamennone, Oreste che sgozza sua madre, Antigone che viola le leggi della città ed Elettra, che spinge suo fratello a uccidere, Admeto che accetta il sacrificio di Alceste, Medea che massacra la prole per punire Giasone, Teseo che spinge a morte suo figlio – e mentre Shakespeare riconiuga questa arcaica solitudine del deforme proponendo un attore che avanza in proscenio,  separandosi dal coro degli interpreti con cui (e verso cui) sta recitando, e che fissa gli spettatori negli occhi e gli confida i progetti che ha, le proprie mire, le scelte che compie – Amleto, nel momento in cui decide di fingere la pazzia; Macbeth, quando mostra le mani zuppe di sangue o Riccardo III quando nell'Enrico VI parte III annuncia il suo programma politico, “conquistare la corona”, e i mezzi per attuarlo, “recitare” (eccola l'anormalità tragica shakespeariana, che trova concretezza nell'uomo che finge più di quanto fingano gli altri per arrivare, un giorno, a interpretare la parte momentanea del sovrano) – invece Borrelli propone ne La cupa un'anormalità non più individuale ma sociale, non più singola ma collettiva e riesce così a offrire a una comunità (di spettatori) una comunità (di personaggi e di attori) che rendano evidente il degrado della nostra comunità (di cittadini). Tant'è che – se si escludono Maria delle Papere, l'innocenza in persona, e Innocente Crescenzo, lo straniero di ritorno – tutti gli altri protagonisti de La cupa sono vittime ma anche carnefici, sono luridi tra i luridi, creature possedute dal rantolo della colpevolezza, sono “licantropi”, sono portatori insani di vergogna e miseria, agenti in spregio a ogni regola.

 



La cupa è uno spettacolo dal grande impegno, un lavoro che – a parte la sera del debutto al San Ferdinando – sarà presentato al pubblico in due parti, in sere diverse. Borrelli è un autore nazionale più vicino al Piccolo di Milano che allo Stabile della sua città e che, in questa occasione, arriva a Napoli nonostante lo Stabile di Roma – e non è la prima volta che accade – sia venuto meno all'ultimo momento al suo impegno di co-produttore. Con gli amici romani si era pensato di dare vita a un vero e proprio evento diviso tra Napoli e Roma ma, nonostante il loro dietrofront, faremo in modo (anche solo con le nostre forze) di rendere questo lavoro capace di aprire al meglio il mio nuovo triennio, appena riconfermato dal Ministero”.
(Luca De Fusco)
Borrelli ha impiegato quasi cinque anni per scrivere i quindicimila versi che compongono il testo completo de La cupa, che consta di 574 pagine: noi assistiamo alla messinscena di un quinto di queste pagine. Ha poi scelto in piena autonomia i propri attori, a uno a uno, rafforzando il suo progetto di formare una nuova compagnia flegreo-napoletana e, con questa compagnia, ha lavorato per mesi in una stanza di una palestra di Bacoli, lì dove organizza anche laboratori e seminari: si tratta di una sala rettangolare, dal soffitto basso e cinta da vetri coperti da tende nere, una sala che ha un arsenale delle apparizioni pirandelliano sulla sinistra, un vero e proprio scabuzzino dei costumi e dei trucchi, dei manichini e delle maschere (ci sono stato una volta per seguire, da uditore, un suo laboratorio). Lo ha fatto – lì ha provato per mesi – perché le tre settimane (di media e di routine) che un teatro Stabile offre a un regista per allestire una produzione sono un tempo ridicolo se si vuole fare seriamente il proprio lavoro, se davvero si vuole provare a vivere (e poi a far vivere sul palco) un processo creativo e non ci si limita soltanto a confezionare e firmare un prodotto. Poi le tre settimane allo Stabile di Napoli le ha trascorse, sia chiaro, stando soprattutto all'ultimo piano dell'edificio, in quella che per due anni è stata la (inappropriata) sede della Scuola dello Stabile: uno stanzino intriso dall'umidità e dal vago sentore di muffa – ci sono stato in passato, so di cosa scrivo – che ha una forma irregolare e misure inaccettabili per essere una vera sala prove e che per terra ha tappeti neri che si staccano di continuo, tant'è che occorre tenerli fermi al pavimento con lo scotch, e sulla destra dipana invece tre piccole camerette senza porte e senza arredi (se si esclude un tavolo sul quale ammassare i propri effetti personali): stanze che dovrebbero essere gli spogliatoi per gli attori.
Dev'essere stata una sorta di gabbia per matti lo stanzino dello Stabile, per i giorni in cui La cupa è stata provata lì, penso adesso. Infine è andato in scena, mediando tra le proprie esigenze artistiche (queste tre ore che sono la durata minima per raccontare ciò che era necessario raccontare) e un coraggio propositivo in parte mancante giacché ha sconsigliato La cupa in un'unica soluzione: come fosse impossibile proporre al pubblico tre ore vissute in platea, come se il pubblico non potesse essere indotto ad aumentare la propria soglia di attenzione, come fosse impensabile rischiare l'azzardo della disabitudine, come se La cupa non fosse in grado di inchiodare ogni singolo spettatore alla poltrona.
E adesso?
In Italia ci stiamo abituando a un sistema che rende i teatri finanziati delle fabbriche iper-produttive: io Ministero ti do i soldi, tu in cambio devi dimostrarmi che lavori in quantità. Venti o trenta giorni di prove, una quindicina di repliche e poi la maggior parte degli spettacoli termina definitivamente, sostituita da una nuova proposta, già programmata per l'anno seguente e da piazzare agli abbonati a prezzi sempre più vantaggiosi: offerte da supermercato, spesso, o da “compagnia aerea low cost” per citare Luca De Fusco. Si tratta di uno stato di crisi della filiera creativo-teatrale accentuata dall'incapacità dei circuiti regionali a svolgere i propri compiti, una crisi che tra l'altro sta comportando la fine del repertorio, che non è necessariamene un accatasto museale di cianfrusaglie e di vecchia tromboneria ma che talora costituisce (costituiva) una tenitura dignitosa – e una forma di rispetto – per quel teatro meritevole di essere ripreso ed offerto ad altri spettatori, magari di altri parti d'Italia. Già, perché nel contempo anche la tournée è una pratica in via di scomparsa: presidi territoriali, fortezze cioè destinate a dominare il contado circostante (in cui devono svolgere il 70% della loro attività) i teatri Nazionali in particolare saturano il mercato locale e hanno sempre meno la possibilità di far girare per il Paese i lavori in cui credono, ciò che a loro sembra di maggiore qualità. E tuttavia un margine di libertà ancora c'è, c'è quel 30% di attività girovaga che può essere utilizzato per investire davvero sulla diffusione dell'innovazione poetica e sulla condivisione della bellezza e la cui gestione dipende dalla sensibilità dei direttori artistici, dalla loro capacità di associare alla sostenibilità commerciale d'impresa la protezione del rischio artistico (ragione per cui un teatro riceve finanziamenti pubblici), dando esempio di meritocrazia culturale e così rispondendo al proprio ruolo, alle funzioni e le responsabilità che questo ruolo comporta. Così un Nazionale può decidere di co-produrre e far circuitare Il cielo non è un fondale di Deflorian/Tagliarini, ad esempio; così un Teatro di Rilevante Interesse Nazionale può offrire la possibilità della tournée al Macbettu di Alessandro Serra o a Un quaderno per l'inverno di Civica.
E al Nazionale di Napoli cos'accade?
Da anni il teatro diretto da Luca De Fusco, in particolare utilizzando la cattiva pratica dello scambio (in uso a gran parte dei teatri italiani), esporta (quasi) soltanto le regie firmate proprio da Luca De Fusco: il suo Il giardino dei ciliegi e la sua Orestea, il suo Antonio e Cleopatra e il suo Sei personaggi in cerca d'autore. Così ieri sono andato alla conferenza stampa per la presentazione della nuova stagione e − evidentemente nel segno di “una politica basata sulla continuità artistica” − ho ascoltato De Fusco fare l'elenco delle prossime tappe italiane e straniere delle produzioni dello Stabile la cui presenza “all'estero, in particolare, è di grande orgoglio giacché il compito di un Nazionale è proprio quello di esportare e mostrare il meglio del teatro italiano, il meglio − nel nostro caso − anche del teatro napoletano”. “Torneremo a Parigi” ha quindi spiegato il direttore e “proprio ieri ho firmato il contratto per la nostra ennesima tappa a Mosca”. A quale spettacolo si riferisce? Al suo Sei personaggi in cerca d'autore che tornerà, anche nella stagione teatrale 2018/2019, a essere merce di scambio pure nostrana.
Possibile, mi chiedo − e gli ho chiesto − non ci siano spettacoli di altri registi che siano meritevoli delle stesse opportunità? Possibile che “il meglio del teatro nazionale e cittadino” coincida così spesso proprio con le messinscene firmate dal direttore? Ed è accettabile, invece, che un allestimento come il Miseria e nobiltà di Arturo Cirillo due anni fa sia stato condannato a sparire per sempre dopo sole tre settimane di repliche? È accettabile constatare che Mal'essere di Davide Iodice, per continuare con gli esempi, abbia girato quest'anno solo grazie all'intervento di un altro teatro pubblico, lo Stabile di Sardegna, che così ha dimostrato di credere davvero e nel tempo in uno spettacolo ch'era stato prodotto dal Nazionale di Napoli? E La cupa? De Fusco che pensa di fare ora con La cupa di Borrelli? Leggendo la broscure mi sono accorto che − al momento − non ne è prevista la ripresa nella prossima stagione (insomma, il 6 maggio si chiuderebbe) né La cupa risulta tra i titoli per i quali il Nazionale pare riesca, voglia, abbia intenzione o al momento stia tentando di organizzare o produrre viaggi in Italia o all'estero.
La cupa sarà dunque un'altra esperienza di qualità destinata a essere uccisa neonata dalle norme ministeriali e dall'autoreferenzialità autopromozionale del direttore artistico? De Fusco non ritiene sia suo compito supportare gli investimenti compiuti? E non sente il dovere di creare le condizioni perché più produzioni di altri autori e registi − e con in scena attori che non siano quelli della sua compagnia fissa − vivano l'esperienza necessaria, preziosa e benefica della tournée?
Sono le domande che mi restano, riflettendo su La cupa, e non riesco a non pensare che, nel dire di “morti che mangiano i vivi” (per riusare la frase di Kott), forse il lavoro di Borrelli suggerisce qualcosa anche del nostro sistema teatrale.

 

P.S.: Nel momento in cui scrivo quest'articolo mi risulta che Luca De Fusco non abbia ancora visto La cupa. Non era presente alla prima (forse perché a Parigi per accompagnare la messinscena di D'estate con la barca, monologo interpretato da Gaia Aprea e di cui proprio De Fusco firma la regia) ma pare ch'egli non abbia neanche mai assistito a una prova né presenziato poi a una delle repliche svoltesi al San Ferdinando. Com'è possibile?

 


 

La cupa. Fabbula di un omo che divinne un albero
versi, canti, drammaturgia e regia
Mimmo Borrelli
con Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D'Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Autilia Ranieri
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
disegno luci Cesare Accetta
musiche, ambientazioni sonore composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione
assistente ai costumi Irene De Caprio
assistente alle scene Sara Palmieri
trucco Sveva Viesti
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
durata 3h
lingua cappellese, bacolese, montese, italiano, napoletano
Napoli, Teatro San Ferdinando, 10 aprile 2018
in scena dal 10 aprile al 6 maggio 2018

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