“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 24 February 2018 00:00

Un sipario, una cornice, un mondo

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A sorpresa, entrando nella sala della Galleria Toledo, un sipario chiuso. Ultimamente le messe in scena, nella maggior parte dei casi, ne fanno a meno proiettando subito lo spettatore al centro della storia, attore ignaro, silenzioso partecipante. Il sipario scuro, qui, ne Le braci di Laura Angiulli tratto dal romanzo omonimo di Sándor Márai, con l’adattamento di Fulvio Calise, è il diaframma vellutato che solo in apparenza chiude lo spazio platea/palco perché crea quel momento breve di distacco, è il lungo respiro che riempie i polmoni che precede una immersione in un mondo lontano ma non lontanissimo, un mondo proiezione e introiezione di se stessi.

La scenografia di Rosario Squillace che appare all’apertura del sipario sintetizza e suggerisce la struttura dei rapporti interpersonali dei due protagonisti Henrik e Konrad: due pareti di parato venato di verde si incastrano in un angolo formando il vertice di un triangolo che racchiude tutto lo spazio scenico. Tre poltrone, disposte sulle pareti oblique, e una al centro quasi al limitare del boccascena, sono coperte da teli bianchi. A sinistra la parete si completa con un tavolino su cui poggiano dei libri, una stufa e una porta bianca. A destra, sull’altra parete, è poggiata una grande cornice, vuota. Rimanda immediatamente al ritratto della moglie di Henrik, Krisztina, che nel romanzo di Márai il marito fa ricollocare tra gli avi solo alla fine della storia, quando tutto si è compiuto. Qui è un segno evocativo, un vuoto enorme su un mondo e all’interno del rapporto dei due vecchi amici che si rincontrano dopo più di quarant’anni. Henrik libera le poltrone dai teli, ripete tra sé le domande che farà all’amico, prepara un discorso accusatorio che vorrebbe portarlo a conoscere la verità. Cresciuti insieme, educati insieme alla scuola per militari dell’ex impero austro-ungarico, inseparabili fino all’incontro con Krisztina, anima affine all’artista Konrad, ma che sarà la moglie di Henrik. Questi ripercorre con ansia nella voce le loro vite fino al momento della fuga dell’amico per i Tropici, intuendo solo allora, in quell’istante, il tradimento che si era compiuto alle sue spalle tra la moglie e Konrad. “Non ci si può impadronire impunemente di una persona sottraendola agli altri”, dice Henrik, che, dopo la rivelazione, vivrà nel castello nei Carpazi condividendolo con la moglie senza vederla mai più, fino alla sua morte avvenuta ancora giovane. Solo il suo diario gli resterà, ma non avrà il coraggio di leggerlo fino in fondo.
Il momento atteso da una vita arriva: Konrad entra nella stanza, vestito di scuro, a passi lenti, intimidito nello sguardo e impacciato, quasi ingessato in una comoda scorza, dopo aver affrontato un viaggio attraverso l’Europa da Londra mentre infuria la guerra, il secondo conflitto mondiale, nel 1940. Muove, però, incessantemente le dita, esplorando uno spazio che gli è dolorosamente familiare. Racconta dei Tropici, dove ha vissuto lungamente. “I Tropici uccidono qualcosa dentro”, convengono i due, forse il senso di colpa, l’odio covato nel segreto di quella relazione clandestina. Il dialogo tra di loro si presenta allora non come un tardivo processo a un tradimento dei sentimenti più nobili come l’amore e l’amicizia, ma come il ricomporsi di due aspetti di un mondo che, tenuto faticosamente in piedi dopo la Grande Guerra, si sta sbriciolando sotto i loro piedi stanchi. Henrik ha conservato il mondo della sua giovinezza dentro di sé, in un fermo immagine prima del tradimento, rimanendo nella sua casa, nella sua terra, con le radici ben profonde; Konrad, invece, senza più patria, disincantato, alienato fin da giovane rispetto a un contesto a cui sentiva di non appartenere. I due si muovono mentre si interrogano, si confessano, si misurano a “passi tardi e lenti” direbbe Petrarca, ma sempre in direzioni opposte l’uno all’altro senza sfiorarsi mai se non per un timido accenno verso la fine.
Il disegno luci di Cesare Accetta riscalda gli oggetti sulla scena dove i due personaggi si soffermano più a lungo: il tavolino, le sedie, le poltrone. Crea ombre tra la grande cornice e il muro proiettando inquietanti geometrie. La luce cade sui loro capelli bianchi e i loro vestiti scuri esaltandone i contrasti, l’ansia di verità di Henrik e la reticenza di Konrad. “Perché la fuga?”, vuol sapere il generale che è convinto che: ”Le azioni non corrispondono alla verità se c’è pienezza nell’anima”, ma in fondo lui è sempre stato a conoscenza della risposta. La prossimità più intima tra i due avviene quando Henrik rievoca la scena della caccia, ponendosi dietro di lui che è seduto sulla poltrona centrale, come un imputato ad un processo. Si trovava sulla linea di tiro del fucile di Konrad, sentì il rumore del cane alzarsi pronto a sparare. Perché non lo uccise? Il climax raggiunge il suo apice, mentre le luci si abbassano, creando una suspense che non rivela, fa intuire. Konrad non darà alcuna risposta perché “la vita è più complicata di quanto si pensi”.
Vanità, amore, odio, ostinazione sono le braci di ciò che resta del passato. Henrik si riconoscerà specularmente nell’odiato amico. Krisztina lo aveva capito bene, la vigliaccheria di uno che era fuggito non era diversa da quella di chi era rimasto, in una solitudine estrema. Un accenno di note di un pianoforte si mesce ai rintocchi di un orologio, Henrik chiude la porta della stanza, che le luci hanno trasformato in una gabbia, con Konrad che si distende sulla poltrona, finalmente in pace. Il sipario si chiude sulle braci delle loro vite, un attimo prima che si trasformino in cenere. I due uomini sono testimoni di un’epoca in pieno disfacimento, desiderosi di comunicare senza riuscire a comprendersi, imprigionati nei loro valori e ideali al tramonto come nei loro abiti e nei loro gesti. Paradossalmente ammettono con coraggio la loro vigliaccheria, il loro male di vivere. Carpentieri e Jotti, praticamente perfetti, “sono” Henrik e Konrad. Sessanta minuti di spettacolo crudo e poetico insieme che la regia di Laura Angiulli, essenziale e netta, concentra sui due simboli storicamente determinati, ancora oggi tremendamente attuali. Perché è vero quello che dice Henrik: ”L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore”.

 




Le braci

tratto dal romanzo di Sándor Márai
adattamento Fulvio Calise
drammaturgia e regia Laura Angiulli
con Renato Carpentieri, Stefano Jotti
scene Rosario Squillace
luci Cesare Accetta
illuminotecnica Lucio Sabatino
aiuto regia Serena Sansoni
assistente scenografo Lorenzo Crisci
foto di scena Cesare Accetta
produzione Il Teatro Coop. Produzioni/Galleria Toledo
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Galleria Toledo, 20 febbraio 2018
in scena dal 16 al 25 febbraio 2018

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