“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 10 October 2017 00:00

Sul guardare e sulla fotografia

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All’interno della raccolta di scritti Sul guardare (Il Saggiatore, 2017) di John Berger, in un pezzo intitolato Usi della fotografia, scritto nel 1978, l’autore riprende e sviluppa alcune riflessioni espresse da Susan Sontag nel suo Sulla fotografia. Realtà e immagini nella nostra società (Einaudi, 1978), testo imprescindibile, quest'ultimo, per chiunque voglia approfondire il rapporto tra fotografia e società.
Sebbene gli scritti dei due siano stati stesi sul finire degli anni Settanta, alcune riflessioni in essi contenute risultano ancora utili per ragionare sulla società ipertrofica contemporanea nonostante nel frattempo siano subentrati importanti cambiamenti sia sociali che nella pratica fotografica e non tanto per il passaggio dall'analogico al digitale, quanto piuttosto per la condivisibilità delle immagini resa possibile dalle apparecchiature e dal web.

A pochi decenni dalla sua nascita, avvenuta sul finire negli anni Trenta dell’Ottocento, la fotografia, ideata come svago per un’élite, viene già utilizzata per i motivi più disparati: schedature poliziesche, ricognizioni militari, reportage di guerra, documentazioni enciclopediche ed antropologiche, ritratti ed album di famiglia, cronaca e cartoline... La rapidità con la quale vengono compresi i possibili usi della fotografia, sostiene Berger, testimonia la profonda organicità di questa al capitalismo industriale.
È però soltanto nel periodo compreso tra le due guerre mondiali “che la fotografia diviene il modo più diffuso e naturale di occuparsi di immagini”. È in quegli anni, continua lo studioso, che essa si sostituisce al mondo come sua “testimonianza diretta”. Considerata “accesso diretto alla realtà”, per qualche tempo la fotografia è uno strumento a disposizione degli usi più vari, poi viene piegata, grazie alla sua “veridicità”, ad usi propagandistici.
A riprova di come la diffusione delle fotografie finisca comunque per incidere anche a livello di visione del mondo, Sontag, nel suo libro, sottolinea come questo venga proprio da loro parcellizzato in frammenti tra loro incomunicanti, dando luogo a una visione del mondo priva di continuità e di connessioni in cui ogni momento assume il carattere di mistero.
Facendo riferimento alla rivista americana Life, nata nel 1936, Berger riflette a proposito del nome scelto per titolare la testata; se da una parte il termine Life sottintende che le illustrazioni pubblicate riguardano la vita, dall’altra suggerisce che esse stesse sono la vita. La rivista sembra dunque giocare sulla doppia possibilità di vedere il reale nelle fotografie e al tempo stesso di considerare esse stesse come il reale o, almeno, come parte di esso. Non a caso, insistendo sull’ambiguità, il primo numero di Life riporta in copertina la fotografia di un neonato con la scritta “Life begins...”: l’inizio dell’era della realtà fotografica, della fotografia come realtà.
E prima della fotografia cosa c’era? Il disegno, la pittura... certo, ma prima della fotografia, sostiene Berger, c’era soprattutto la memoria; la funzione della fotografia veniva svolta dalla mente. La stessa Sontag sottolinea come la fotografia non sia da intendersi come strumento della memoria ma come sua invenzione o sostituzione. “La macchina fotografica”, secondo Berger, “salva una serie di apparenze da un susseguirsi, altrimenti inevitabile, di ulteriori apparenze e le mantiene immutate nel tempo”. Prima della comparsa dell’apparecchio fotografico, continua lo studioso, tale funzione poteva essere svolta soltanto dalla “memoria nell’occhio della mente”. Le fotografie in sé, però, a differenza della memoria, non possono conservare il significato di un evento; si limitano ad offrire “apparenze estrapolate dal loro significato” e quest’ultimo è il prodotto di processi cognitivi. Sontag a tal proposito scrive che il funzionamento è un processo temporale ed è nel tempo che deve essere spiegato: solo ciò che narra può consentirci di comprendere. In accordo con la studiosa, Berger ricorda come le fotografie di per sé non narrino ma si limitino a “trattenere apparenze istantanee”.
Circa gli usi della fotografia l’autore traccia una netta separazione tra le fotografie appartenenti alla sfera privata e quelle di uso pubblico. Occorre tenere in considerazione il fatto che lo scritto in questione risale agli anni Settanta del Novecento, cioè a ben prima dell’avvento dell’era dell’immagine condivisa propria dell’epoca del digitale, di Internet e degli smartphone. Secondo Berger la foto privata viene letta “in un contesto che è coerente con quello da cui la macchina fotografica l’ha rimossa [...] la fotografia mantiene ancora il significato dell’evento dal quale è stata separata”. L’apparecchio fotografico è uno strumento utile a mantenere una memoria vivente, la fotografia in questo caso è da intendersi come un promemoria tratto dalla vita mentre questa viene vissuta. “La fotografia pubblica contemporanea presenta un evento, cattura una serie di apparenze che non hanno nulla a che fare con noi, suoi lettori, o con il significato originale dell’evento”. Le informazioni che essa offre sono disgiunte dall’esperienza vissuta dal fruitore; l’unica memoria a cui contribuisce è quella di colui che ha scattato la fotografia, la visione istantanea registrata è quella del fotografo. “È proprio perché non portano in sé alcun significato certo, perché sono come immagini nella memoria di un estraneo, che le fotografie si prestano a qualsiasi uso”.
“Ciò che viene ricordato è sottratto all’annullamento dell’abbandono, se tutti gli eventi sono visti simultaneamente da un occhio soprannaturale, al di fuori del tempo, la distinzione fra ricordare e dimenticare si trasforma in un giudizio, in un atto di giustizia, grazie al quale il riconoscimento equivale a essere ricordato e la condanna a essere dimenticato [...]. Da principio, la secolarizzazione del mondo capitalistico in atto durante il XIX secolo, annullò il giudizio di Dio e lo sostituì col giudizio della Storia in nome del Progresso; la Democrazia e la Scienza divennero gli agenti di tale giudizio [...] per un breve momento la fotografia fu considerata uno strumento al loro servizio [...]. Durante la seconda metà del Novecento, il giudizio della storia è stato rinnegato da tutti, tranne i derelitti e i diseredati. Il mondo industrializzato 'avanzato', terrorizzato dal passato, cieco sul suo futuro, pratica un opportunismo che ha svuotato di ogni credibilità il principio di giustizia. Tale opportunismo trasforma tutto [...] in spettacolo. E lo strumento usato a questo scopo [...] è la macchina fotografica”.
Sontag sottolinea come la pervasività della fotografia abbia modificato il giudizio che si esprime sugli eventi. La mole di fotografie presenti tende a suggerire all’osservatore che queste sono state scattate da qualcuno perché si è trovato di fronte a “buoni motivi” per farlo; la presenza delle fotografie testimonierebbe la presenza di altrettanti eventi degni di attenzione. La pratica fotografica conferisce così un giudizio sulla realtà: ciò che è stato immortalato è degno di attenzione, dunque importante.
Da parte sua Berger ritiene che l’età contemporanea, nel suo trasformare tutto in spettacolo, crei una sorta di eterno presente in cui la memoria cessa di essere considerata necessaria o anche solo desiderabile e, con la perdita della memoria, l’essere umano tende a perdere la “continuità di significato e di giudizio”. L’apparecchio fotografico ci solleva dal peso della memoria, registra allo scopo di dimenticare.
Secondo Susan Sontag il capitalismo esige una cultura basata sulle immagini, necessita di fornire svago per supportare il consumo e anestetizzare le ferite di classe, razza e genere, ha bisogno di raccogliere informazioni per sfruttare al meglio le risorse naturali, per aumentare la produttività e mantenere l’ordine. “La duplice capacità della macchina fotografica, quella di soggettivare la realtà e quella di oggettivarla, è la risposta ideale a queste esigenze e il modo ideale di rafforzarle. Le macchine fotografiche definiscono la realtà nelle due maniere indispensabili al funzionamento di una società industriale avanzata: come spettacolo (per le masse) e come oggetto di sorveglianza (per governanti). La produzione di immagini fornisce inoltre un’ideologia dominante. Al mutamento sociale si sostituisce un mutamento nelle immagini”.
Riprendendo tale impietosa analisi della Sontag sull’uso comunemente praticato della fotografia, Berger giunge a dichiarare l’impossibilità, almeno nel momento storico in cui scrive, di una pratica fotografica realmente alternativa a quella vigente in quanto il sistema pare del tutto in grado di omologare qualsiasi tipo di fotografia. Si tratta allora di provare almeno ad utilizzare le fotografie secondo una pratica capace di guardare a un futuro alternativo. Occorre, sostiene lo studioso, tornare alla distinzione fra uso privato e uso pubblico della fotografia, al fine di valorizzare la capacità della foto ad uso privato di conservare il contesto dell’istante registrato permettendo alla fotografia di vivere in un’ininterrotta continuità.
“Le fotografie sono relitti del passato, tracce di ciò che è avvenuto. Se i vivi prendessero su di sé il passato, se il passato diventasse parte integrante del processo attraverso cui le persone fanno la propria storia, allora tutte le fotografie riacquisterebbero un contesto vivo, continuerebbero a esistere nel tempo, invece di essere momenti congelati [...]. Il compito di una pratica fotografica alternativa è di incorporare la fotografia nella memoria sociale e politica, invece di usarla come un sostituto che ne incoraggia l’atrofia. Questo compito definirà sia il tipo di immagini da riprendere, sia il modo di usarle”.
Dunque, conclude Berger: “Il fine deve essere quello di costruire un contesto per una foto, costruirlo con le parole, costruirlo con altre fotografie, costruirlo in base alla posizione che essa occupa in una sequenza di foto e immagini”. Tale contesto ricolloca la foto nel tempo, ovviamente non nel tempo originario, perché ciò risulta impossibile, ma nel tempo narrato e quest’ultimo “diventa tempo storico quando è assunto dalla memoria sociale. È necessario che il tempo costruito e narrato rispetti il processo della memoria che spera di stimolare [...]. Intorno alla fotografia si deve costruire un sistema radiale che le consenta di essere vista in termini allo stesso tempo personali, politici, economici, drammatici, quotidiani e storici”.

 



John Berger
Sul guardare

Il Saggiatore, Milano, 2017
pp. 266

Susan Sontag
Sulla fotografia. Realtà e immagini nella nostra società
Einaudi, Torino, prima ed. 1978 (ultima ed. 2004)
pp. 179

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