“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 28 November 2012 11:47

vite parallele

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   Tori era la miglior puttana della città, di sicuro la più brava ed esperta pompinara del quartiere, per questo era la più richiesta sul mercato e aveva la miglior clientela fra tutte le sue rivali 

  Tori era una donna piccola e ben fatta, col culetto sodo e alto, le labbra carnose e le braccia muscolose, mani piccole ma con dita affusolate e unghie lunghe, ci sapeva fare nel suo mestiere, tutti i suoi clienti dicevano che a letto era una gran professionista, che muoveva il bacino da farti venire subito quando ti montava sopra, che era una porca come se ne trovano poche in giro e che poi lappava da dio, non c’era chi si lamentasse e alla fine tutti i suoi clienti se ne innamoravano

  Tori era una puttana vecchia maniera, intratteneva relazioni di buon vicinato con tutti i suoi clienti, maschi o femmine, prima di ogni lavoretto offriva un caffè sempre caldo e ben fatto, sigarette a iosa, quattro chiacchiere in amicizia su lavoro, affetti e famiglia, poi si passava all’opera e mandava sempre in paradiso tutti i suoi clienti, nessuno escluso

   Tori lavorava in un basso del centro storico della città, un garage abbastanza umido ma confortevole, lo aveva fittato da qualche anno e lì riceveva i suoi clienti quotidianamente dalle 10:00 a.m. alle 21:00 p.m., festivi esclusi; per amore della discrezione e mantenere così cordiali rapporti di buon vicinato, aveva escogitato un ingegnoso sistema per avvertire la sua clientela, senza che alcuno dei residenti attigui al garage potesse lamentarsi circa schiamazzi, assembramenti o fastidiose file all’entrata: aveva montato sulla piattabanda dell’ingresso un piccolo faretto bicolore, luce verde quand’era disponibile e rossa quando occupata nelle solite mansioni; questo semaforo abusivo garantiva di coordinare razionalmente il quotidiano traffico pedonale degli illibidiniti avventori, altrimenti ingestibili per l’immanente foia

   il suo garage era piccolo e umido, ma arredato con gusto minimale, un bagno sempre ben pulito, una tendina rosa che separava l’ingresso dal grosso letto a due piazze dove esercitava il suo mestiere millenario, una televisione quattordici pollici con videoregistratore sul comodino, una vasta scelta di film porno per i clienti più esigenti e un ricco repertorio di falli di plastica, fruste, pomate, costumi di pelle e altre porcate consimili per quelli malati; a Tori queste schifezze non erano mai piaciute, ma il mercato ormai tirava solo su queste cose e a lei, puttana vecchio stampo, non era rimasto altro che adeguarsi

   Tori non era di quella città, ma un’immigrata, proveniente dall’isola, da un paesino inghiottito dalla foresta, cresciuta a pane casareccio, latte di capra e bastonate; a diciassette anni fuggita di casa e dal padre che tentava di molestarla, imbarcata sulla prima nave per il continente, sbarcata con le migliori intenzioni di lavorare e darsi da fare per farsi una posizione, inserirsi nel tessuto sociale e conquistare l’apprezzamento della sua nuova città adottiva: insomma, c’era riuscita

   prima di cominciare a far la vita Tori aveva conosciuto un uomo onesto, affascinante, lavoratore instancabile, sulla trentina, capelli folti, occhio vivace, d’origine maltese; dopo soli sei mesi di fidanzamento si erano sposati e vivendo pressoché felici per più di dieci anni, con pure due figli: a quel punto della sua vita i ricordi della foresta, dell’acre formaggio caprino, delle bastonate e delle avances del padre erano lontanissimi, pensava di essere una donna felice, poi il marito s’era messo nei guai, perseguitato dagli strozzini, voleva aprire un bar tutto suo; riuscì ad aprirlo quel maledetto bar, ed allora iniziò la sua rovina: morì suicida per evitare i creditori, ma i debiti non si estinsero, traslando invece sulle spalle già provate di Tori e Tori iniziò a fare la vita per mandare avanti la casa, i figli e pagare gli strozzini

   ovviamente Tori è un nom de plume: nessuno dei suoi clienti, anche fra i più assidui e confidenziali, ha mai saputo quale fosse il suo vero nome, ma questo poco importava, per loro necessario è sempre stato che Tori li facesse impazzire, niente di più

  

   dall’altra parte di quella stessa bigia città, in piena periferia, viveva Maria, donna di robusta e bassa costituzione, donna schiva e molto riservata, anche lei vedova da parecchi anni, anche lei insediata in città da molto tempo, anche lei doveva sgobbare tutti i giorni per mantenere casa e figli

   Maria era una donna estremamente gentile e umanitaria, di mestiere infermiera: infermiera per modo di dire, mai posseduto alcun diploma o titolo che l’abilitasse, più semplicemente Maria assisteva persone anziane bisognose d’ogni sorta d’aiuto: andava nelle case a fare loro un po’ di compagnia, o alla posta a pagare le bollette o a ritirare la pensione, faceva loro la spesa o il bucato, le accompagnava dal medico o in giro la domenica, magari faceva iniezioni, infilava supposte, cose del genere, era una donna onesta e generosa

   nel suo palazzo nessuno la conosceva sul serio, donna schiva, molto riservata, buongiorno-buonasera e basta, ma sempre cortese con tutti

   di certo donna poco ricercata nel vestire, sempre lunghi maglioni o camicioni di color nero-vedovile, fuseaux neri, scarpe basse e niente trucco, mai un gioiello, mai un belletto; il suo volto non celava un’antica bellezza, di donna di paese, forte e fiera, con lo sguardo simpatico e l’occhio intelligente, manteneva ancora un ottimo colorito sul viso, labbra ben fatte, sempre fresche e rosse, ma l’insieme ispirava tuttavia una certa stanca malinconia di donna che le ha passate brutte

   ogni mattina Maria andava al bar sotto casa e comprava la colazione per i figli, beveva il suo caffè con dolcificante e iniziava il suo lavoro di “infermiera”, tutto il quartiere la conosceva come tale e per questo la rispettava, ma mai nessuno s’era fermato a parlare con lei per più di due minuti, donna riservata, non c’è che dire

   da alcuni anni ormai Maria aveva un lavoro fisso di assistenza presso una donna anziana del centro: ogni giorno attraversava tutta la città, prendeva due autobus poi un tratto a piedi per i vicoli stretti e scuri del centro, per arrivare da questa solinga vecchina, proprietaria di alcuni quartierini lì al centro di quella città di mare

   in fondo a Maria quel lavoro non dispiaceva, né duro né faticoso, la vecchia signora era sempre gentile con lei e la pagava abbastanza, insomma Maria tirava a campare e grande e ben leggibile sul suo volto era la felicità di tornare a casa la sera, verso le 21:30 p.m., e ritrovare i suoi figli attorno alla tavola della cucina che l’aspettavano per cenare tutti insieme

  

   Tori per l’intanto continuava il suo ben remunerato lavoro di miglior puttana della città, ogni giorno la luce verde s’accendeva poco dopo le 10:00 a.m., ma solo per pochi minuti ogni volta; il flusso dei suoi clienti era costante e ben ordinato, il semaforo faceva il suo dovere: per chi si fosse trovato a passare per quel vicolo per caso, sarebbe stato assai più facile vedere la luce rossa, in vece della verde, accesa lì sull’entrata di quel basso-garage

   Maria invece continuava ad uscir di casa per andare dalla vecchia signora, lasciava i suoi figli già pronti per la scuola, li baciava entrambi ogni mattino, cornetti pronti in tavola, solito caffè al bar sotto casa e via verso il centro intricato di quella città d’angiporto

   il basso di Tori, con la luce rossa quasi sempre accesa, non era poi così distante dall’abitazione della vecchia signora e chissà quante volte per recarsi al suo tranquillo lavoro di infermiera Maria vi era passata davanti, senza nemmeno far caso, presa com’era dalle sue preoccupazione per continuare a campare, a quale colore spiccasse sull’entrata di quell’umido ma confortevole garage del centro storico

   una mattina Maria scese per recarsi dalla vecchia signora come al solito, comprò i cornetti per i figli, li baciò e salutò, bevve con calma il suo caffè dolcificato e si diresse al centro, senza rendersene conto passando per l’ennesima volta dinanzi al basso di Tori non ancora illuminato; in quei medesimi minuti anche Tori arrivava al suo posto di lavoro, aprì il garage, tirò su la saracinesca, accese la luce verde, si acchitò per bene ed iniziò ad aspettare i suoi clienti per quella giornata: dopo poco la luce ridiventava rossa

   a sera, dopo le 22:00, come al solito la professione di Tori era conclusa per quella giornata: serranda abbassata, garage chiuso, lucchetto alla serratura, luce spenta

   nessuna notizia ancora all’altro capo della città, in piena periferia, si aveva invece di Maria: a quell’ora normalmente a casa, attorno alla tavola, a cenare coi figli, a parlare della giornata, ma quella sera niente ancora; i suoi figli andarono a dormire preoccupati, chissà, forse uno sciopero, forse la vecchia s’era sentita male e Maria era rimasta a farle compagnia, disponibile e caritatevole com’era; a quell’ora Tori invece era certamente tornata alla sua di casa per badare ai suoi figli già cresciuti

   il mattino dopo, verso mezzogiorno, di Maria nessuna notizia ancora, era domenica e il basso-garage di Tori era come al solito chiuso; i figli di Maria telefonarono alla vecchia signora, ma la madre non aveva dormito da lei per quella notte

   la vecchia signora, come sentì la voce dei figli di Maria, iniziò a preoccuparsi, un atteggiamento simile da parte di Maria, che lei conosceva bene, certo meglio di chiunque altro, non era affatto normale; la sua prima preoccupazione fu quella di vestirsi alla svelta, scendere in istrada ciabattando per i vicoli del centro; chiavi in mano si recò al garage dove lavorava Tori, certo lei con tutte le sue conoscenze avrebbe saputo qualcosa: la vecchia signora era la proprietaria di quel basso-garage

   aprì la saracinesca, entrò, un forte olezzo acre che sapeva di lisoform e di qualcosa andato a male subito le salì su per le nari; scostò la tenda rosa che separava l’ingresso dalla camera da letto, si trovò dinanzi un qualcosa di raccapricciante: il corpo senza vita di Tori sdraiata su di un fianco, buttata in un angolo del basso, col volto affogato in una pozza di sangue nero e rappreso, il cranio fracassato dalla parte della tempia destra, un grosso fallo di moplen nero infilato fra le gambe e un trapano elettrico conficcato nella gola

   sul letto c’era in piedi uno sgabello di legno con l’angolo ancora insanguinato – il corpo contundente – tracce ematiche dappertutto, impronte di scarpe (verosimilmente maschili) in giro per la stanza e il televisore sintonizzato sul canale 0, il canale del videoregistratore, che mandava in onda un film porno dalle scene interraziali

   la vecchia spense il televisore, si avvicinò ancora un po’ al corpo esanime di Tori, lo sguardo si fissò sulla grossa punta elicoiforme affondata per intero nella zona laringo-faringea: subito le prese uno spasmo allo stomaco, corse fuori per strada, quasi svenne, fece chiamare da un dirimpettaio la polizia, poi pensò a chiudere il garage

   la pattuglia arrivò dopo poco a piedi in quei vicoli impossibili, il corpo era lì che l’aspettava: nel bagno vi erano impronte di sangue sull’interruttore, una borsetta di pelle nera col contenuto riversato sul pavimento bagnato di acqua e sapone, umidità e plasma: una spazzola, una scatola di profilattici vuota, dei cleenex, un pacchetto di gomme da masticare, un portacipria, delle chiavi di casa, una carta d’identità, mancava l’incasso della giornata

   il maresciallo prese il documento e lo aprì per il riconoscimento della vittima: Tori non era della città, proveniva dall’isola, abitava in periferia, era vedova, nella vita il suo vero nome era Maria, disoccupata, “bisogna avvertire i figli” pensò la vecchia signora 

 

 

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