“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 29 March 2013 22:46

L'amata. Le lettere di e a Elsa Morante

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Chi di voi non ha amato appassionatamente questa donna piccola di statura mentre leggeva L'isola di Arturo, uno dei libri più belli del secolo scorso (la prima edizione  è del 1957)? Anche a chi non è piaciuta l’opera non è facile negare una scrittura lineare e sulfurea insieme, chiara e ombrosa; e scusate l'ossimoro. Quanti libri abbiamo letto, sentendo nelle righe un tentativo di plagio di quel capolavoro? Tantissimi, alcuni addirittura sono stati presi dallo sfizio del copia ed incolla, semplicemente.
Nata a Roma nel 1912, la Morante è una bambina terribilmente attraversata dai perché della vita, con studi incompleti, che legge Turgenev già a quattordici anni e che, se fosse ancora di moda la frenologia, si potrebbe dire ‘un’adolescente isterica e disturbata’.

Meno schiva di quanto si sostiene, la ragazza ha sempre avuto l'uzzolo di scrivere ed infatti abbandona l'università, lascia la famiglia, si mantiene compilando tesi, cambiando stanze di pensione e camere ammobiliate, fino ad avere un piccolo appartamento in affitto, nel 1935.
L'anno successivo conosce uno scrittore strano, che guarda intensamente i bicchieri fino a quando non li riconosce più come oggetti ma come cose che non hanno una funzione specifica, a testimonianza di quanto tutto sia nebuloso, noioso. Lo strambo uomo si chiama Alberto Moravia, con cui inizia a convivere nel 1936: cosa scandalosa a quei tempi, anche se poi si sposano legalmente nel 1941.
Il nipote Daniele Morante in un bel carteggio edito da Einaudi nel 2012, L'amata, sceglie tra le migliaia di lettere scritte o ricevute dalla zia, ne pubblica seicento per quasi settecento pagine di missive e telegrammi. Un epistolario selettivo, diviso in capitoli, dalle prime scritte nel 1930 fino alle ultime, datate 1985: l’anno della sua morte.
Prima di conoscere Alberto Moravia, Elsa Morante aveva avuto molte relazioni sentimental-sessuali, in particolare con un inglese, ma perlopiù ella inizia scrivendo alla sua amica del cuore: Luisa Fantini. Ad esempio così : "Luisella cara cara, ti scrivo che è quasi mattina. Ti confesso che sono molte notti che non posso dormire. Molto buio. Non tanta malinconia quanto credi... la mancanza assoluta di speranza e di risorse, la disperazione, insomma, mi hanno sempre dato forza. Pensa che non ho nessun lavoro, nessun mezzo, nessuno".
Elsa, leggendo, la si definirebbe come donna incasinata, poco pratica, svogliata, con l'unico conforto nella scrittura e nella lettura. Come destinata, forse, al CIM (Centro di Igiene Mentale) per essere seguita da uno psicoterapeuta. A quei tempi, invece, quasi si chiedeva agli intellettuali di essere ingarbugliati, saturnini, creature della notte e frequentatori di bar dove si parlava di qualsiasi cosa o li si pretendeva intenti a lunghe vacanze a Capri, a Procida, nelle capitali europee.
L'amore per Moravia è devastante: la Nostra è gelosa, oppressiva, lamentosa. Gli chiede continuamente conferme della stesura di alcuni suoi brani, il marito cerca di lenire le sue ansie, il romanzo per cui lei è così preoccupata è Menzogna e Sortilegio, che esce nel 1948. E nel frattempo scrive sempre all’amica: "Sto diventando piuttosto nervosa e bisbetica... ti confesso che quasi sempre mi vedo in un vuoto pauroso e penso di finire male. Comincio a capire gli ubriaconi e i pazzi".
Le lettere al marito non sono interessanti quanto, piuttosto, noiose: la scrittrice vi confessa che viene trascurata, che ha sposato un uomo che non vuole bene a nessuno, nemmeno a se stesso. Con la guerra – dal 1943 alla fine del 1944 – vivono sfollati sui monti della Ciociaria, poi soggiornano a Napoli, tornando poi definitivamente a Roma, in Via dell'Oca.
Per dare un’idea ecco il frammento da una lettera, tanto simile a quasi tutte: "Caro Alberto, ho un tale desiderio di parlarti ogni momento, che dovrei sempre scriverti. Ma questo non è possibile... tu finiresti per non leggere, per il tuo carattere che ti fa sembrare inutili le cose che hai... a te voglio tanto bene, sei sempre la persona che amo di più in questo triste mondo".
Moravia spesso si scoraggia ma sopporta le ubbie della moglie, che non sa cucinare e non fa nulla in casa mentre predilige stare fuori, per ristoranti e per bar, in compagnia del poeta Sandro Penna e di Parise, Pasolini, Cardarelli, Gadda. Il gruppo dell'intellighenzia capitolina. In merito, se volete una idea di quella Roma lì – della Roma degli intellettuali e delle invidie, dei proclami e degli amori e delle battaglie politiche –  vi consiglio di leggere il bellissimo Addio a Roma di Sandra Petrignani (2012, Neri Pozza Editore).
Pur amando disperatamente Moravia, dal 1953 in poi Elsa inizia a provare un sentimento di affetto erotico verso il regista Luchino Visconti, un amore disperato, perché al regista piacevano gli uomini.
Lei faceva finta di niente, ma lo elogiava, dicendogli che era bellissimo, coltissimo. Nessun risultato affettivo. Ogni tanto l'indifferenza del regista la esasperava e lei cercava di scuoterlo: "Tu hai voluto che noi fossimo estranei. La sola spiegazione che io ho saputo darmi è stata il tuo oblomovismo, se mi vuoi bene aiutami".
Di tutt’altro tono le lettere, molto belle, che scambia con Natalia Ginzburg e con Italo Calvino. Un po' astiose, invece, quelle che invia alla Ortese, perché si dichiara invidiosa della potenza immaginifica espressa dai romanzi della napoletana.
Viaggi tanti, in India o in Marocco: sempre lei, Moravia e Pier Paolo Pasolini, che la sfianca raccontandole tutte le esperienze sessuali con gli adolescenti del luogo, fin nei minimi particolari. La scrittrice continua a soffrire d'insonnia e la notte porta da mangiare ai gatti, facendo chili e chili di pappone che distribuisce nelle vie centrali della capitale; il marito la lascia e va a convivere con la giovane Dacia Maraini. Lei sembra svuotata, finita, diventa sempre più astiosa, cattiva (nell'entourage capitolino viene chiamata, senza mezzi termini, "la stronza").
La sua unica ossessione sembra quella di scrivere perché, quando nel 1974 pubblica La Storia, sa di aver composto un libro con il quale, con la figura di Iduzza, ha posto le basi per un nuovo neorealismo poetico.
Nel 1976 si reca per un periodo in Andalusia, per una specie di sopralluogo per Aracoeli, che ha iniziato a scrivere. Quest’opera, con L'isola di Arturo, è il mio romanzo preferito e su di esso conto di scrivere in futuro, per raccontarlo.
Nel 1983 tenta il suicidio con il gas e per due anni vive in una clinica: tra le sue pareti muore, di infarto, nel 1985.
Lo scrittore Palandri le scrive: "Cara Elsa ho saputo del tuo tentativo di suicidio... pensavo, ‘ma allora non crede più che l'anima dei suicidi se ne resta vagabonda sulla terra e non trova riposo’. È tale il tuo dolore e la tua fatica di vivere?".
Le ultime lettere sono di una donna stanca, ormai invecchiata, oppressa da dolori di ogni tempo (si rompe anche il femore). Cesare Garboli le scrive: "Io credo che la vita ti abbia dato molto; e nello stesso tempo ti abbia offeso in un modo misterioso a te stessa".
Questa è stata Elsa Morante.

 

 

AA.VV.
L'amata. Lettere di e a Elsa Morante
a cura di Daniele Morante
Einaudi, Torino, 2012
pp. 686

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