“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 04 November 2016 00:00

La bellezza dietro l’orrore, Steve McCurry al PAN

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Fissati su architetture di scale bianche, allineati all’altezza del nostro sguardo o poste molto più in alto, di traverso o dritte dinanzi a noi seguendo il tortuoso percorso di chi si lascia guidare dall’incontro folgoratore con le immagini, le fotografie di Steve McCurry sono come finestre. Più che guardare ad esse come se ci venissero incontro, siamo noi a doverle raggiungere, a doverci recare verso i tanti accessi a diverse dimensioni che si compiono proprio lì, in quello spazio dalle pareti neutre dove ognuna di esse esiste di per sé ed al contempo è legata indissolubilmente a tutte le altre.

Un po’ come se fossero distinti portali i quali ci indicano canali differenti attraverso cui interagire con il nostro pianeta ed immergerci nella sua realtà globale, le visioni catturate nel vortice dell’eterno momento dall’obbiettivo fotografico conducono ai molteplici aspetti emotivi delle attività, degli atteggiamenti, delle espressioni di molte e tanto difformi etnie, ed a quel tipo di lotta e di sofferenza strettamente umane, che includono nel loro dramma il più lirico afflato di vita.
Ciascun visitatore sceglie automaticamente dove gettare il suo più penetrante sguardo, in una maniera casuale che potrebbe inconsapevolmente nascondere una puntuale scelta. Magari si è in un attimo attratti dall’insuperabile, vivida icona della bambina afgana dagli occhi verdi, oppure ci si lascia condizionare da quella calma virtuosa dei pescatori dello Sri Lanka, appollaiati su irregolari aste di legno piantate nelle acque del mare, o magari si ascolta l’affascinante e muta saggezza del nomade Kuchi, dalla barba tinta di rosso con l’henné. Ovunque, anche tra quelli che appaiono solo come silenziosi, vasti e devastati paesaggi privi della presenza umana, si legge chiaramente una grande e primordiale intensità di vita. Ogni bimbo, anziano, qualsiasi persona di qualsiasi genere sia ritratta in un incontro ravvicinato o in mezzo a tanti altri esseri o cose, comunica a noi il suo incommensurabile valore, ed in un certo senso è come se tutti i presenti in quelle fotografie fossero meno soli, perché riconosciuti dallo spettatore ad un livello spontaneo che non ha bisogno di mediazioni, più vero e coinvolgente perché non descrittivo, ma riassunto nella chiarezza dell’immagine.
Le miriadi di dettagli di ambienti disastrati, annientati dai conflitti nazionali che si ripercuotono sul panorama internazionale, ed i colori spesso così saturi da apparire effettivamente sgargianti, senza dubbio attraenti, si calibrano nell’accostamento a toni complementari ed a zone in ombra, rendendo armoniosa la composizione nella sua interezza. I contrasti cromatici e di senso (l’accostamento tra elementi così lontani fra loro per cultura e distanze geografiche) sono lo spunto per l’incunearsi dell’occhio nella composizione, nella bellezza della molteplicità (delle forme, delle sfumature, degli sguardi) e della mescolanza, dove tramonti ed esplosioni rosseggianti e luci di fuoco che continuano ad ardere, sfondando e ad un tempo conservando quell’equilibrio visivo di cui abbiamo appena parlato, sembrano celebrare con onore quegli esseri umani talvolta colti precisamente nell’istante più tragico della loro esistenza. Anche laddove i bagliori siano prodotti da strumenti di morte, essi si trasformano in un contraltare che dà risalto alla vita, e sembra che possano offrire a tutti i protagonisti di quelle fotografie, a coloro che soffrono le pene dell’inferno o che addirittura sono già spirati, uno slancio di empatia ed in un certo qual modo la vicinanza da parte di chi, altrimenti, non avrebbe potuto partecipare ad eventi così intimi dell’esistenza altrui (specie di chi è così difficilmente raggiungibile e vive situazioni che è così arduo spiegare).
È una vocazione umanitaria, quella di McCurry, che si rinnova da più di trent’anni, da tutti quei momenti duri e rischiosi trascorsi, ad esempio, insieme ai Mujaheddin, per la volontà di testimoniare il conflitto in Afghanistan, o attraverso la ricerca, andata a buon fine, di Sharbat Gula. Ancora oggi, alla notizia del recente arresto della donna, Steve McCurry si fa più che mai suo sostenitore, mettendosi a disposizione per aiuti concreti oltre che ideologici, in nome di tutte le vittime che continuano a subire, e che, come lui tiene a sottolineare, seguitano ad essere innumerevoli.
E proprio questa concretezza è parte integrante di tale estetica, in una costellazione di immagini che sono di un’arte non sottilmente agganciata a ripiegamenti interiori (seppure dai risvolti psicologici molto personali e reconditi), quanto violentemente legata alla disarmante semplicità ed alla tragica evidenza del male, esplicitando in un unico essenziale scatto tutte le gradazioni e le conseguenze del dolore, lo squallore delle ingiustizie e dei soprusi e l’urgenza di una reazione significativa, tramite un racconto vero ed istantaneo di ciò che è, e che non rinvia ad altri tempi né invoca atti al giorno d’oggi impensabili, ma fatti terribili ed inquietanti che continuano, purtroppo, ad appartenerci e coinvolgerci in quanto razza umana, e che anzi tornano, paradossalmente, ad essere sempre più attuali. Ma questo tipo di fotografia non si limita a rivelare ciò che è stato tolto, tenta bensì di restituire quell’umanità all’immagine, e tra l’irreale desolazione dello scenario immerso nel fumo ad attraversato dalla regale solitudine del cavallo i cui zoccoli calpestano caotiche impronte di pneumatici sulla strada, lo sguardo triste e vecchio di bambini soldato, le eleganti rughe di pastori, i colori ed i profumi dei fiori traghettati su canoe che scorrono su fiumi piatti come tavole e i vivaci costumi di giovani danzatrici orientali, le cose si sovrappongono e rimestano. Ci si accorge, così, che il mondo del lavoro che crea gioia, della tenera sensualità della giovinezza, quello delle piante, dell’acqua in cui purificarsi, della terra feconda, del cielo arioso, del gioco infantile e degli accesi pigmenti, abita le stesse lande in cui ci sono la fame, la guerra e la disperazione, che le abita ancor più profondamente, e che c’è sempre una possibilità di bellezza dietro il monocromo velo di ogni orrore.

 

 

 

Senza confini
Steve McCurry

a cura di Biba Giacchetti
organizzato da Civita Mostre
in collaborazione con SudEst57
PAN – Palazzo delle Arti Napoli
Napoli, dal 28 ottobre 2016 al 12 febbraio 2017

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