“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 01 November 2015 00:00

Los Canos de Meca

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Attraversiamo lunghe distese di terra gialla mista a abetaie di un verde tale da sembrare amalgamato con la tonalità della terra stessa. È questo che mi impressiona: non si tratta più del verde cupo degli ombù o di quello brillante degli aranci, disseminato in nubi frondose lungo le vie piastrellate. E non è nemmeno il verde smeraldo degli abeti alpini, così profondo da sembrare la gola gorgogliante di un gigante.
Questo è un colore ibrido, come ibrido è questo paesaggio che, repentinamente, passa dalla pianura alla steppa, dal mare alla montagna, come se tutte queste fossero le facce dello stesso prisma.

Sembra di guardare il mondo stampato su quelle istantanee ingiallite degli anni Settanta. Un mondo vintage, dove tori annoiati pascolano in grossi recinti delimitati da cactus screpolati, i cui incartapecoriti lobi, erti di spine, sono stati compattati al punto da essere diventati impenetrabili.
Un mondo in cui l’anacronistica sagoma di un toro gigante si profila, ogni tanto, sul dorso si una brulla collina, come a volerci ricordare che siamo in Spagna, la terra della corrida. O, più probabilmente, che questa terra appartiene a loro, ai tori. Qualche altra svolta tra le brulle collinette e lo sguardo, finalmente, scorge un miraggio tinto di una tonalità di blu più scura del cielo: siamo arrivati. Finalmente.
La terra comincia ad affinarsi, diventando sabbia: le erbe si fanno più alte e sottili, schiudendosi attorno a pontili legnosi. Togliamo le scarpe e via, verso quella sovrapposizione netta di strisce, come in un quadro di Rothko – solo un po’ meno cupa.
La vertigine dell’horror vacui mi sferza nel momento in cui acquisto la consapevolezza di essere affacciata sull’oceano. Turpi storie di marinai portati alla deriva e di titani vendicativi si srotolano, con effetti speciali da film di serie B, nella mia testa: non ho davanti a me il grande e placido Oceano Pacifico, né il ben più rassicurante mare nostrum, delimitato da coste amiche. Si tratta invece del temibile Mare di Atlantide, titano condannato a tenere sulle spalle l’intera volta celeste per essersi alleato con Crono in una rivolta contro gli dei dell’Olimpo. Una stilizzata cartina del Vecchio Continente si sovrappone alla striscia luminosa che mi si profila davanti: l’azzurrino del mare che lambisce il mento di quella testa di donna che è la Penisola Iberica, sembra estendersi, piatto e monocromatico, a perdita d’occhio. È come se il mio cervello non avesse i dati per processare quell’estensione − nemmeno quella cartacea dei planisferi in scala. Le coste americane sembrano a distanze siderali; così deve essersi sentito Colombo, pronto a salpare per il suo secondo viaggio verso le Americhe.
Alla fine, scacciato ogni malsano timore, decido di immergermi, tenendomi però prudentemente vicino alla riva. Dal vetro deformato della maschera intravedo banchi di pesci e le gambe del mio compagno di viaggio, che mi danno la fallace speranza di non essermi allontanata troppo, neanche fossero una boa inchiodata sul fondale. Qui, infatti, a differenza di molte spiagge italiane, non ci sono punti di riferimento come scogli o i ripetitivi abbinamenti cromatici degli stabilimenti balneari: c’è solo una lunga cintura di terra sabbiosa che si estende fino a un promontorio, da un lato, mentre dall’altro lambisce un breve istmo. Poi ricominciare a srotolarsi, bianca e granulosa, sullo sfondo di un paesaggio fuoriuscito dal réclame di un auto sportiva. Mi aspetto quasi che quella passerella di legno, le cui assi si snodano tra i giunchi e le dunette, venga smontata come la fila di tessere di domino crollata a faccia in giù; aspetto di vedere gli abeti cadere riversi come sagome da palcoscenico, mostrando il loro piedistallo di legno scadente. Mi aspetto che questi bagnanti schivi, così diversi dalla moltitudine schiamazzante italiana, si alzino e dicano “Ok, ora basta! L’acqua è troppo fredda, per oggi ho finito!”. Invece tutto resta com’è, con i suoni che si disperdono al vento e il mare che, piatto come una tavola, sembra voler rimanere in disparte.
L’acqua è davvero troppo fredda per essere sopportata più di una manciata di minuti. Ecco perché gli abitanti di queste contrade, avvezzi come sono alle misure estreme, si azzardano ad immergersi solo durante le ore più calde della giornata, detto per inciso proprio quelle sconsigliate, al primo accenno d’estate, dalle associazioni mediche e dai telegiornali. Ma qui non ci sono leggi, solo consuetudini. Non ci sono bagnini né altoparlanti molesti. Le costruzioni umane sono abolite, e che ognuno se vaya con Dios. Al di là del promontorio, però, la sensazione depositata sulla pelle dalla Playa de la Hierbabuena sembra dissiparsi, inghiottita dalla musica di un bungalow sulla spiaggia, dove la gente sembra coagularsi alla ricerca di cocktail e compagnia. Questa deve essere la parte “in” del litorale. Eppure resto in disparte, provando a rievocare la sensazione che mi restituisce questo posto dai tratti smussati e rilassati.
Pochi turisti, e la maggior parte di essi si tiene in disparte, restando tranquilla a bere la vista di queste acque poco frequentate; l’enorme pineta dove dormiamo, in cui le bolle colorate delle tende sembrano inglobate dalla resina e dal fruscio degli aghi secchi. Tutto è rilassato, persino le rocce che, come cupe piattaforme porose ricoperte di muschio, affiorano dalla riva, lastricando la costa fino all’immoto e solitario faro.
Leggermente stordita da questa sensazione di placidità commista allo straniamento che si prova nel trovarsi in luoghi dimenticati dal mondo, faccio ritorno al campeggio, dove il ragazzo della reception – evidentemente dopo aver studiato le nostre carte di identità − mi apostrofa: "Oh! Ma voi siete di Perugia! Io ho studiato a Teramo, ma ho visitato… festa di cioccolato, a Perugia!" conclude, con il suo italiano traballante come il mio spagnolo. Sorrido rassegnata, pensando ad un vecchio e scontato adagio: “Quanto è piccolo il mondo!”.
Già. E la sensazione di infinito subisce immediatamente una contrazione sistolica, ridimensionandosi e ricollocandosi su un ben più comprensibile asse.

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