“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 15 September 2015 00:00

Le Cimitière Marin di Paul Valery

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Paul Valéry, importante poeta e scrittore francese, nelle cui vene scorreva per metà sangue genovese, visse a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento.

Dal secolo romantico Valéry eredita la poetica simbolista e a tratti ermetica, oltre che una passione per le immagini decadenti e una tensione verso la fusione di idee filosofiche e linguaggio poetico. Benché appassionato sin da giovane di letteratura, Valéry entra in crisi profonda quando è ancora ventenne, prendendo le distanze dalla composizione poetica per dedicarsi esclusivamente alla "via dello spirito", arrivando a sostenere che "un buon poeta non è più utile alla sua nazione di un bravo giocatore di bocce". Col tempo, tuttavia, la vocazione artistica avrà la meglio e l'autore ricomincerà a comporre, acquistando molto successo e credito presso i suoi contemporanei.
Sempre fedele alle sue convinzioni etiche e morali, Valéry rifiuterà di aderire al programma del governo collaborazionista francese, pagando con il bando dalla cultura "officiale" fino alla fine della seconda guerra mondiale. Alla sua morte, il presidente Charles de Gaulle gli tributò funerali di Stato e si adoperò affinché il poeta venisse sepolto nel cimitero di Sète, dallo stesso descritto in vari lavori. Uno di questi si intitola appunto Le Cimetière Marin: un poemetto di ventiquattro strofe in decasillabi, che ha come sfondo principale il sepolcreto di Sète, sorto vicinissimo alla spiaggia della cittadina.

Si tratta di un'opera piuttosto complessa, ricca di riferimenti mitologici, in cui Valéry associa con eleganza immagini semplici a speculazioni sull'esistenza dell’uomo e sul suo rapporto con L'Essere che tutto permea. Mano a mano che la composizione prosegue, il poeta riflette sulla caducità della vita, arrivando alla conclusione − che narrativamente coincide col sopraggiungere di una tempesta − che tutte queste riflessioni siano pressoché inutili: "Il vento si leva" dirà, "bisogna tentare di vivere", ed è questa lo scioglimento della tensione finale.
Riporto di sotto alcune delle strofe a mio parere più significative del poemetto:

2.
Quel tetto quieto, corso da colombe,
In mezzo ai pini palpita, alle tombe;
Mezzodì il giusto in fuochi vi ricrea
II mare, il mare, sempre rinnovato!
Che ristoro a un pensiero è un lungo sguardo
Posato sulla calma degli dèi!

3.
Che fine luccichìo tesse e consuma
Tanti diamanti d’impalpabil schiuma,
E quale pace sembra in gestazione!
Quando un sole si posa sull’abisso,
Opere pure d’un principio fisso,
Scintilla è il Tempo e il Sogno cognizione.


Già da questi primi versi è evidente la progressione musicale del poemetto. Nella traduzione di Fiornando Gabbrielli, qui riportata, si è mantenuta la stessa attenzione per le sonorità che caratterizza l'originale di Valéry. Nella seconda e terza strofa, è forte lo slancio del poeta per il paesaggio marino che lo circonda. Lo sguardo che rivolge allo scenario gli permette di distaccarsi dalle riflessioni filosofiche su cui si era concentrato, mostrandogli come tutto, innanzi a lui, sia in realtà immutabile e solo apparentemente in moto ("la calma degli dei" e "la pace in gestazione" stanno ad indicare proprio questi concetti). Negli ultimi tre versi, altamente ermetici, si realizza la fusione intima tra la sfera del sensibile e dell'onirico – vale a dire tra l'Individuo-Percezione e l'Assoluto-Natura.

6.
Guardami, cielo bello, cielo vero,
Come cambio! Io che ero così altero,
Pieno di strana, oziosa onnipotenza,
A questo spazio fulgido m’arrendo:
Per le case dei morti vo inseguendo
La mia ombra, che m’ha addomesticato.


7.
L’anima esposta ai fuochi del solstizio,
Reggo la tua mirabile giustizia,
Luce, e le armi tue senza pietà!
Ti rendo pura a dove fosti in nuce:
Pensa per te!... Anche se, render la luce,
Implica d’ombra una cupa metà.


A questo punto il poeta passa a descrivere il cimitero, o meglio, le sensazioni che la sua vista gli ingerisce: ammette la necessità del cambiamento, il dover diventare polvere anche lui che prima era così "altero", convinto delle sue capacità. La "oziosa onnipotenza" della gioventù e dello studio, vale a dire l'illusione di poter afferrare tutto e godere di tutto, lasciano spazio alla consapevolezza che, dove c'è luce, c'è anche ombra – dove c'è vita ci sarà, inevitabilmente, morte.

13.
Son ben nascosti i morti in questa terra
Che li riscalda e asciuga il lor mistero.
Mezzogiorno, lassù, non si dà pena:
In sé si pensa e si confà a se stesso...
Testa completa e perfetto diadema,
Io sono in te il segreto cambiamento.


14.
Non hai che me di fronte ai tuoi timori!
I miei ritegni, i dubbi, i pentimenti
Sono il difetto del tuo gran diamante...
Ma nella loro notte, sotto i marmi,
Un popolo indistinto alle radici
Degli alberi è schierato già con te.


Il sole, o forse il Tempo (come abbiamo detto, Valéry è un poeta ermetico e ama confondere le acque e parlare in modo ambiguo − egli stesso non offrirà mai interpretazioni ufficiali delle sue poesie, asserendo che ogni suo lavoro esprime ciò che il lettore vi legge) è indifferente alle sorti dei singoli uomini. Chi ancora vive, come il poeta, è il "difetto" nella sua gloria, in quanto la sua vita non si amalgama, non si compenetra col Tutto, ma cerca ancora di stabilire una sua individualità; i morti, invece (il "popolo indistinto alle radici") hanno preso su di sé questo aggettivo, accettano di essere cioè "indistinti": restituiscono la loro unicità per avere, in cambio, la partecipazione all'Assoluto (il "diamante").

19.
Padri profondi, teste inabitate,
Che sotto il peso di tante palate
Siete la terra e c’intricate i passi,
II vero tarlo, il verme irrefutabile,
Non è per voi, dal sonno imperturbabile:
Vive di vita, e non mi lascia mai!


20.
Amore, forse, o odio di me stesso?
Ho il suo dente segreto così appresso
Che un nome o l’altro, tanto, gli va bene!
Lui vede, vuole, sogna, tocca! Giace
Con me a letto, la mia carne gli piace:
la mia vita al suo vivere appartiene.


La vita del poeta è tormentata da un "tarlo", un'inquietudine, che non lo lascia mai: Valéry sa che quest'angoscia non è dei morti, che non sono più toccati dalle vicende umane, ma dei vivi. Cerca di dargli un nome: è odio, è amore? Ma "un nome o l'altro gli va bene": è la stessa natura umana a farlo soffrire, il vedere, il sognare, il toccare.

22.
No, no!... Sveglia! Nell’era successiva!
Spezza, corpo, quest’aura riflessiva!
Bevi, petto, la nascita del vento!
Una freschezza, dal mare esalata,
Mi rende l’anima... O forza salata!
Corriamo all’onda, a uscirne via vivendo!


Finalmente, il poeta si risveglia dal suo intorpidimento filosofico: le speculazioni appartengono a "l'era successiva": parlerà dei morti quando sarà morto anch'egli. Comincia a soffiare un forte vento, che spazza via la calura del mezzogiorno: la forza della vita si impadronisce di nuovo delle membra del poeta.

24.

S’alza il vento... Bisogna osar di vivere!
L’aria immensa apre e chiude il mio quaderno,
Fra le rocce osa l’onda, e si frantuma!
Volate via, pagine accecate!
Rompete, flutti, di festose ondate,
Quel quieto tetto in cui beccavan fiocchi!

Ormai la tempesta (simbolo della vita) ha ristabilito il suo dominio nell'animo del poeta, e Valéry lancia il suo ultimo incoraggiamento: Le vent se leve, il faut tenter de vivre! L'esistenza è un mare rabbioso, un vento trascinante: bisogna provare a cavalcarlo. Per ragionare della vita ci sarà tutto il tempo da morti: le pagine filosofiche volano via, strappate dalla vivacità ultima dell'esistenza.
La popolarità di questo poemetto si è rinfrescata in seguito all'uscita del film di Hayao Miyazaki, 風立ちぬ (Kaze tachinu), titolo che ricalca un verso dalla traduzione giapponese del Cimetière Marine di Valéry – in italiano, Si alza il vento.
Perché una scelta così particolare? Sicuramente è un riferimento alla vita del protagonista, progettatore di aerei; ma è anche un inno alla sua capacità di non demordere, di andare oltre le carte (le "pagine accecate" dell'ultima strofa) per vivere la sua storia d'amore con Naoko, per quanto tragica sia. Forse non tutti sanno che, inizialmente, il film di Miyazaki doveva terminare in altro modo: l'ultima battuta di Naoko non doveva essere "Vivi!", bensì "Vieni!". Il regista (e sceneggiatore) cambiò il dialogo il giorno prima della consegna; e così facendo, diede un altro significato all'opera e al titolo. Jiro non sceglie più di seguire Naoko (cosa che sarebbe equivalsa alla morte) ma di continuare a vivere, così come Valéry sceglie di abbandonarsi alla tempesta ristoratrice, sgombrando la mente dalle riflessioni che lo inquietavano.
Il vento si leva per entrambi, ed essi scelgono di accoglierlo.

 

 

 

 

 

N.B.: L'articolo è leggibile anche sul blog di Chiara Rita Napolitano, Seelen Tinte

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