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Thursday, 09 July 2015 00:00

Le malattie del corpo e del negativo

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Le ferite del corpo sono evidenti, sanguinano a volte, oppure assumono la forma scheletrica della malattia interiore. La pelle si ritira e non ritorna, la presenza diventa una bozza incompiuta di un progetto sospeso. La carne è una terra sferzata dal vento e le dune si svuotano della sabbia e dei sassi, il deserto privo di acqua scompare anche nella sua aridità e quello che resta è lo scavo profondo e vuoto in cui nulla ritorna, dove il ricordo di qualcosa appare nella sua grande assenza.

La malattia mortale di cui ci parlano le foto di Sophie-Anne Herin è il morbo che attanaglia sempre più spesso giovani vite del nostro tempo: l’anoressia. Le foto non hanno alcuna pretesa giornalistica o didascalica, i corpi umiliati, dopo gli scatti, vengono diluiti, resi inconsistenti per lasciare spazio alla narrazione della mente. Il dolore viene manomesso con un lavoro su di esso in postproduzione, l’artista si appropria dell’immagine e lavora sui negativi ferendoli alla maniera in cui il disagio mentale si accanisce sul corpo. Il diaframma diventa luogo estemporaneo attraverso il quale l’occhio può raccontare, allegoricamente, il retroterra emotivo che si annida nelle tracce evidenti della materia. La malattia fisica è la coda, l’estremità ultima di quella psichica, la fotografia imprime una determinazione sensibile e temporale sulla dimensione umana che osserva, permettendo così l’instaurarsi di una dialettica tra il fotografo e la sua opera.
Le foto sono luoghi di sospensione in cui è possibile agire e distorcere, oppure rivelare e svelare il segreto intimo di segni apparenti e ancora poco comunicativi, nonostante la durezza della realtà. Un’opera concettuale si dipana davanti ai nostri occhi, un lavoro fatto di ombre e sagome svilite. La stanchezza o l’assenza di forza interrompe il flusso vitale dell’esistenza e le posture esprimono qualità nascoste nel profondo oblio della coscienza. L’artificio sul negativo tradisce una catena di simboli e rapporti di senso che ignorano l’estetica del gusto e manifestano un’esigenza privata della rivelazione. Una mostra di correlativi oggettivi angosciosi ci apre le porte di un universo costruito, giorno dopo giorno, sulle paure e le mancanze, dove l’eco vuota delle parole inesprimibili cauterizza richieste semplici sepolte dentro di noi.
Sophie, nel lavoro che compie in una fase seconda alla pura registrazione dei fatti, agisce nel modo in cui la malattia o la depressione o ancora la memoria agiscono su tutti. I rapporti naturali che intercorrono tra corpo e anima sono gli stessi che esistono nella creazione artistica, in questo caso la fotografa acquisisce un vantaggio sulla materia da trattare, infatti se nel primo caso ognuno è abitato da un continuo monologo che stanca, poiché le due sfere convivono nello stesso spazio, l’opera d’arte come corpo è esterno, frontale al suo spirito senziente. Il soggetto artistico può manomettere e piegare alla sua volontà lo scafandro creaturale che gli appartiene. Quello che il dolore infligge al corpo, Sophie-Anne lo infligge al negativo, dando vita a un linguaggio poetico unico e antico. Eppure sembra quasi una vendetta contro quello che spesso tace all’interno e che poi ci riduce in spettri e viandanti squilibrati. Il corpo è una scorciatoia forviante, ma forse è il primo strumento che la natura ha trovato per raccontarci l’origine della forza e del male. Così l’artista quando narra finge interesse verso i fatti e l’unica cosa che veramente lo interessa è l’entropia perfetta delle parole, dei colori, delle note o ancora delle pellicole attraverso le quali può gettare il suo mondo nel mondo stesso.
La fotografia ha un tempo esatto e immutabile, Sophie con un accendino e qualche altro espediente interviene sulla legge stabile delle condizioni e, nell’immagine ferma e lontana negli anni, costruisce un discorso nuovo, portando altra storia a quella che non può cambiare. Le cose in sospeso sono tante, non ci è permesso di ritornare indietro per capire o ascoltare ancora una volta quello che ci è sfuggito prima. Ma l’arte è la più grande dimostrazione di quanto sia importante riscrivere e rivedere il passato, sotto la lente impietosa della memoria che cerca e poche volte trova parole sufficienti. Questa guerra e questa pace traspaiono dalle foto inerenti alla sua infanzia e dai ritratti antichi della sua famiglia. La fotografia composta che ritrae le labbra di un bambina e la schiena di suo padre è il mosaico dai pochi elementi in cui il diniego e la voce si incontrano, come in una supplica, come fosse la lettera che ognuno scrive a nessuno e a tutti, perché alla fine l’unico destinatario siamo noi stessi.

 

 

 

 

Incontri di fotografia a L’Asilo Filangieri
Sophie-Anne Herin: l'incontro con il reale e la prospettiva personale sul mondo
organizzato da Centro di Fotografia Indipendente
Ex Asilo Filangieri
Napoli, giugno 2015

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