“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 19 November 2012 10:30

Il Sancarluccio tra angeli e demoni

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Un teatro che chiude è carne che s’espianta dal corpo vivo di una città. Un teatro che chiude è fiato d’attore che si spegne, è assito che s’impolvera, parola che s’ammutola.
Un teatro che chiude è il trionfo del silenzio, è corteo funebre che si snoda quasi inosservato dietro il feretro della cultura. Una cultura assassinata quotidianamente dall’abbrutimento del senso comune e che ormai è abituata a celebrare esequie rituali, sempre con le stesse prefiche a stillar lacrime su lacrimevoli ragioni.

A Napoli, un teatro che rischia – seriamente – di patir l’infausto destino di languire spento dietro ad una saracinesca abbassata, dietro ad un sipario calato, è il Sancarluccio, per beffarda ironia proprio nell’anno del suo quarantennale. E sono stati quarant’anni nel corso dei quali sulla piccola ribalta di via San Pasquale si è fatto buon teatro, a volte ottimo.

Una situazione paradossale, se solo si fa lo sforzo di tendere l’orecchio ed ascoltare lo stridere di un contrasto, per cui s’ode lo sciabordio di torrentizie erogazioni di pubblici danari verso meno nobili bacini, mentre silenziosamente si lascia

languire, senza riuscir a distillare somme ben più modeste per garantirne la sopravvivenza, uno spazio che ha dato tanto alla scena napoletana.

I demoni della crisi hanno le fattezze di istituzioni assenti, di uno sfratto incombente, demoni contro i quali la campagna di resistenza ha tentato l’extrema ratio d’affidarsi agli “Angeli del Sancarluccio”: una sottoscrizione che ha inteso chiamare a raccolta le forze vive e sensibili della città per scongiurare la chiusura, spettro incipiente per un affittuario moroso. Forze vive della città e non solo, se è vero com’è vero che da un’eco lontana di Danimarca s’è udita anche la voce di Eugenio Barba e del suo Odin Teatret; evidentemente c’è del marcio il cui lezzo giunge fino ad Amleto; e stavolta non è da Elsinore che proviene…

Pur in questo marasma d’incertezza, il Sancarluccio è partito con una stagione che pare voler lasciare la scena ignara della mannaia della scadenza tardo-novembrina che potrebbe troncarla. Ancor oggi si pensa (si spera) di riuscire ad arrivare fino ad aprile, consentendo al pubblico di poter ancora fruire dello spazio accogliente di via San Pasquale. Ad accogliere gli spettatori affezionati c’è come sempre Egidio Mastrominico, che ha l’aspetto d’un uomo provato da vicissitudini patite suo malgrado, sguardo intristito e zazzera incolta sono i sintagmi di una pena che vanamente attende il conforto di un’inversione di tendenza e la piccola coccinella che giace accanto al libro degli ospiti sembra essersi sottratta alla propria missione apotropaica. Il rumore dei passi nel foyer, le locandine che raccontano di scene passate, il soppalco di legno che istintivamente invita ad alzare il capo, l’atmosfera soffusa, la vecchia tenda verde che si apre sulla sala: tutto questo colpisce d’acchito chi entra al Sancarluccio. In un angolo, seduta e quasi evanescente, Pina Cipriani, che questo teatro l’ha fondato, sembra essere lì, viva finché è vivo il Sancarluccio.


Napoli, novembre 2012

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