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Thursday, 05 March 2015 00:00

Tūnus

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"J'ai toujours aimé le désert. On s'assoit sur une dune de sable. On ne voit rien. On n'entend rien. Et cependant quelque chose rayonne en silence...”.
Antoine de Saint-Exupéry

Tutti viaggiamo, spesso e volentieri prediligiamo come meta capitali europee, luoghi di divertimento, oppure stazioni esotiche, ma che ci assicurino un discreto confort al quale siamo affezionati. Le nostre foto ritraggono piazze barocche, chiese rinascimentali, archi gotici, castelli faraonici con le merlature e i cannoni, ricordano i nostri amici, con i quali abbiamo visto la bellezza di un mondo artistico e ornamentale che ci appartiene, come un patrimonio di simboli indimenticabile. Però il viaggio che voglio raccontarvi è un po' diverso, i viaggiatori sono quasi tutti miei coetanei, ma la meta che hanno scelto è magica e terrificante, l'eredità che Matteo Pedicini ci offre è uno sguardo curioso e affascinato, una smania perfetta di raccogliere il più possibile tracce di un mondo arcaico ma incredibilmente vivo, ancora giovane e capace di libertà e cultura.

Ho osservato attentamente le foto di Matteo, ho cominciato dalla cornice: un perimetro massiccio ingloba l'immagine, il legno grezzo non distrae, ma concorre alla scena. È un richiamo dal fondo, una discrezione del contorno che armoniosamente crea un effetto di continuità con il tema racchiuso al suo interno. La perfezione è bandita, ogni scatto è rubato, la Tunisia di Matteo Pedicini è una terra limpida e polverosa, una zona di guerra che ha scelto la pace e la democrazia per vivere. Dal promontorio – Tūnus – che dà il nome alla mostra, per giorni e giorni il suo obbiettivo ha scorto e assaporato il fluire incalcolabile di un tempo antico legato a volti arsi e infanzie felici. Passando in rassegna i suoi scatti, il passo si fa lento, il peregrinare è meditato come se lasciasse una zona sospesa tra l'osservatore e l'osservato, è la fede antica dell'intelletto che scruta guardingo e media i rapporti, disperdendo il senso profondo. È una visione inevitabile e innata per noi, in sintonia con i nostri spettacoli umani, le nostre architetture mondane. Eppure qui, nonostante la curiosità vacanziera, il mondo che alla fine si imprime non può che sfuggire a queste logiche moderne e sospettose. I sensi distali si chetano nella loro smania critica e la meraviglia della natura, della naturalità dei rapporti collettivi e privati, della semplicità quotidiana diventa una corrispondenza di voci e rumori, un nuovo, ma primitivo linguaggio fatto della stessa sostanza. I bambini e le donne, il lavoro manuale, i costumi e le consuetudini, si amalgamano in un caleidoscopio colorato ed energico, un vaso pieno fino all'orlo di tutta la ricchezza e la povertà che un popolo deve saper dosare. Una maglia indossata da un bambino recita 'My way is the only way', segno inconfutabile della presenza, anche in questa zona remota del mondo globalizzato, di uno scambio e di un'apertura verso un pianeta ormai tutto uguale, tutto indifferenziato, una porzione di storia che si serve di una lingua franca per velocizzare i tempi reali della comunicazione. Ho chiesto a Matteo quanto i volti siano stati indagati dal suo obbiettivo per trarre un segreto intimo e quanto invece mostrino una visione più ampia e comunitaria; quanto le facce arse dal sole e schiaffeggiate dal deserto siano il monito di una profonda complicità di sentimenti e abitudini, una mappa geografica interpretabile e rivelatrice. Ovviamente Matteo ci tiene a precisare l'assoluta libertà del viaggio e del suo mirare, di come tutto il progetto sia sopraggiunto in un secondo momento, oserei dire per dare un ordine e una copertina degna alla vita che ha vissuto in quei giorni.

Gli ho domandato
: "Quando si parla di paesi islamici spesso si tende a omologare i costumi e le culture, tutto è manovrato da una religione che dal nostro punto di vista appiattisce le diversità. Ora, vorrei chiederti: quanto le tue fotografie si siano indirizzate verso un senso collettivo del vivere pieno di radici e quanto invece, se pur inconsapevolmente, abbiano mirato a ritrarre le diversità tra soggetti afferenti ad una sola cultura".

Matteo mi ha risposto: "Il tentativo di ritrarre un senso collettivo solido e le diversità che vivono ed esistono all'interno di questa comunità penso vadano di pari passo. Mi sono soffermato molto sul voler cogliere l'intimità delle persone e questo porta ad esaltarne sia le differenze che l'umanità che le accomuna. Diversità di storia e di origini. Il territorio è forse il filo conduttore, la culla dalla quale nasce tutto. I volti raccontano storie personali e la propria cultura, mentre la terra mi sembra voler riunire le diverse storie all'interno di un senso collettivo ed è lì che sono le radici che mi chiedevi".

Rimane il deserto.
Le fotografie inerenti al deserto sono sincere, non c'è la ricerca della spettacolarità come un paesaggio così potrebbe suggerire, si alternano primi piani dei granelli ondulati dal vento e viste a perdita d'occhio dove il sole pallido all'orizzonte rimane sospeso come un palloncino ardente, come la lancetta più sicura per l'uomo che vive tra la polvere e il cielo. Le città antiche e spoglie presenti nel deserto, a noi, sofisticati geni dell'arredo, sembrano resti, come quelli che troviamo a Roma, testimoni però di imperi diversi. Sicuramente lo sono, sono le ultime mura di un sogno sconfinato. La magnificenza a cui siamo avvezzi è il prodotto di un uomo invaghito dalla propria immagine. Qui, tutto è silenzioso, ogni cosa cambia posto continuamente, la terra si sbriciola e si frantuma in miliardi di puntini, la cappa celeste è indisturbata e la storia ha potuto, nei secoli, decifrare il suo mutismo geometrico.
Guardando queste foto non ho potuto fare a meno di chiedere a Matteo: "Le foto sul deserto mi hanno suscitato un forte senso di aridità, ma soprattutto un sentore di risorsa e poeticità, un patrimonio fondamentale per l'uomo di quelle terre. Quanto pensi che il rapporto tra la gente e questa dimensione così sconfinata e insidiosa possa rivelarsi nei volti bruni dei soggetti che hai immortalato? Vorrei trovare una congiunzione terrena ed espressiva tra questi due interlocutori. Come uno scambio equo, seppure una commistione di umori".
Lui mi ha regalato un aneddoto molto bello: "Posso risponderti citando Mohamed, un ragazzo di Tozeur, il quale diceva che almeno una volta al mese dorme nello Chott el Jerid, il deserto di sale, dove ti trovi in una distesa bianca infinita e al di sopra di te un tappeto ancora più grande di stelle, nessuna luce artificiale e presenze umane: così diceva di capire cos'è la libertà".
Perché forse la libertà è questa, ha ragione Mohamed. È la sapienza di questi uomini che accettano la struggente presenza di un animale informe, minaccioso a volte, litigioso, ma anche paziente, il cuscino perfetto per osservare le stelle e riconoscerle, per orientarsi a volte o per gustare la libertà che troppo spesso noi abbiamo cercato di imbottigliare, come a dare una forma alla sabbia che non ne possiede.

N.B.: Ringrazio Matteo Pedicini per il tempo, seppur esiguo, le parole preziose e la cortesia con la quale ha risposto alle mie domande.


nus – Ma route est la seule route
Napoli, Institut français “Le Grenoble”
dal 24 febbraio al 17 marzo 2015

FOTOGRAFIE DI MATTEO PEDICINI
Con il patrocinio del Consolato generale di Tunisia a Napoli

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