“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 08 January 2015 00:00

DFW: Un elemento in potenza integrale, non integralista

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Ho deciso che il passaggio a Infinite Jest debba essere scandito da una lenta marcia di avvicinamento. Non un blitzkrieg, che rischierei di impantanarmi come i nazisti alle porte del cuore sovietico. Quel romanzo è lì, nella libreria di sala, mi aspetta come il generale inverno tendeva agguati alle armate di Von Paulus.

Il 2015 è stato consacrato a questa Stalingrado letteraria scritta da David Foster Wallace: so di gente, parlo di buoni lettori, che lo ha abbandonato dopo una battaglia pagina per pagina, casa per casa. Io cingerò Infinite Jest d’assedio lentamente e lo piegherò per fame. Come? Preparandomi. Prendendo confidenza con DFW. Che intanto, prima che un narratore per alcuni entrato di prepotenza nel mito, era un saggista strepitoso.
Tennis, Tv, Trigonometria, Tornado contiene sei saggi che tutto possiamo dire ma non che siano canonicamente strutturati. O ideologicamente granitici. Fate voi. Quattro parole che iniziano per T nel titolo (a ben guardare, pure titolo) ovvero la quartultima lettera dell’alfabeto. Coincidenze che di sicuro non c’entrano una cazzo ma con David Foster non si sa mai.
Sottotitolo: “e altre cose divertenti che non farò mai più”. Perché la vita è una macina che gira, gira e ogni stagione è entropica: un passaggio tra una forma di energia a un’altra ma, a ogni miscuglio, qualcosa viene perso. Inesorabilmente.
Veniamo ai sei saggi, tutti della prima metà degli anni Novanta del secolo scorso. Dunque, fine millennio. E già su questo ci sarebbe da dire molto, se non altro in termini di attualità. Perché i visionari guardano oltre l’orizzonte del contemporaneo.
Il primo è dedicato alla gioventù dello scrittore, speranza del tennis statunitense che riflette su una iniziazione adolescenziale alla dura realtà della competizione e della sconfitta. Di questo saggio, non possiamo trascurare le condizioni climatiche impietose che caratterizzano il Mid-West. Metteteci poi qualche tornado e il gioco (deprimente) è fatto.
Il secondo saggio, molto complesso in verità, è l’analisi del medium tv e dei suoi rapporti con la letteratura contemporanea. Una presa di coscienza di come la grande narrativa cosiddetta post-moderna sia essenzialmente narrativa d’immagine e dunque finisca per fare il verso alla televisione. Insomma, quest’ultima ha vinto e il riscatto letterario, possibile sia ben chiaro, è ancora lontano.
Il terzo è la visita a una affollatissima fiera dell’Illinois rurale in compagnia di una vecchia fiamma del liceo. DFW si immerge in quello che televisivamente, ebbene sì siamo tutti fagocitati, è definito paese reale. O America profonda, sempre aggirandosi attorno al tubo catodico. Ne esce un mondo di machismo e desolazione che coinvolge ogni essere umano e non basta a mascherare lo sbandamento il tentativo di celarsi dietro le masse e il frastuono.
Il quarto saggio, il più breve, è un’istantanea a denti stretti che contesta le teorie che riguardano la morte dell’autore e il suo indebolimento identitario a seguito del trionfo dello strutturalismo e dello sperimentalismo linguistico.
Il quinto è la descrizione della vita sul set del film di David Lynch Strade perdute ed è il pretesto per una riflessione sul percorso del regista, sulla sua opera, sulla sua visione di Bene e Male, sulla sua angosciante capacità di penetrare e turbare le nostre coscienze. Anche qui, è interessante notare come di questo apprezzato e disprezzato autore cinematografico, DFW delinei una carriera ad andamento sinusoidale: vetta, crollo e tentativo di risalita. DFW è capace di rendere sguardi imparziali anche quando si capisce dove va la sua simpatia. E in questo caso va a Lynch piuttosto che a Tarantino, tanto per dirne uno. Il modo di David Foster Wallace di trasmettere il proprio gusto è così vicino a quello di uno spettatore, e di un lettore, in potenza che evidenzia contaminazioni e idiosincrasie, caratterizzate da un fitto magnetismo che rende perfettamente la vertiginosa capacità elaborativa del ragionamento.
Infine, a chiudere il cerchio, si torna sui campi del tennis professionistico, grazie alla parabola del campione a metà Michael Joyce che insegue un sogno nonostante i limiti inequivocabili del suo gioco che non potrà mai diventare emblema dello sport-società-spettacolo. Come riesce ad esempio Agassi. Indovinate anche qui dove il cuore porta DFW.
Ecco il grande merito, a mio modo di vedere, di questo scrittore prematuramente scomparso: costruire un tomo su un filo sottile dove camminano insieme virtuosismo della parola e dolore della realtà. E a proposito di fili, quanta voglia aveva David Foster Wallace di penetrare l’ordito della vita, di guardarla senza schermi perché, insomma, essa stessa viaggia sopra un filo, o sui lati di un triangolo secondo una prospettiva trignometrica, e lo ha dimostrato l’epilogo di DFW, ma finché ci siamo è inevitabile il contatto con i tanti numeri di questa funzione esponenziale.

 

 

 

 

 

 

David Foster Wallace
Tennis, Tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)
traduzione di Vincenzo Ostuni, Martina Testa, Christian Raimo
Minimum Fax, Roma 2011
pp. 379

 

 

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