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Saturday, 11 October 2014 00:00

Psichedelico infinito

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Dei lavori di Escher mi ha sempre colpito la precisione, quasi maniacale, con la quale sembravano realizzati. Ero stata altresì affascinata dal vortice di illusioni ottiche in cui l’occhio – e la mente – finiva per sprofondare in una ripetitività potenzialmente infinita.
Non immaginavo che dietro a tanta precisione ci fosse l’esattezza dei numeri, o meglio, l’astrattezza armonica della matematica: l’ho scoperto soltanto visitando la mostra allestita presso il Chiostro del Bramante, a Roma.

Questo non è stato sempre evidente: le prime opere del grafico olandese non erano che riproduzioni dei litorali rocciosi del sud Italia, di paesini arroccati sui monti e dei monumenti di Roma: l’attenzione era tutta rivolta all’effetto dei materiali, in particolare della roccia che, nelle litografie e soprattutto nelle xilografie, riacquistavano la loro asprezza e la loro consistenza granitica.
Eppure cominciava già ad affacciarsi una vertigine percettiva, un gioco visivo: alcuni elementi sono concepiti in base a quelle regole individuate dalla psicologia della Gestalt, secondo la quale la capacità di percepire un oggetto deriva da una certa organizzazione del sistema nervoso, e non da una banale immagine focalizzata dalla retina. L’esperienza umana non è considerata nelle sue componenti elementari, ma come un insieme sovraordinato rispetto alla somma delle sue componenti. Contravvenendo alla visione della Gestalt, vi chiedo ora di lasciare da parte, per un momento, la visione d’insieme, e di concentrarvi sulla più piccola unità: la sua precisione deriva direttamente da quella dell’architettura che vi ha colpito all’inizio, e ovviamente la influenza, la determina a sua volta. Immaginate ora di scoprire che quella piccola figura, per voi più o meno familiare, è frutto di uno studio geometrico del piano: ne è una divisione, una parte perfettamente determinata che è ulteriormente divisibile in altre, e così via fino a diventare particelle infinitesimali.
In questo senso, è possibile studiare le prime opere di Escher, ponendo l’attenzione sulle forme più semplici, secondo la regola della buona forma; oppure interpretando tutte le parti di una zona sia come sfondo sia come oggetto, a causa della nostra incapacità innata di percepire la figura senza uno sfondo; o ancora di captare tutti gli elementi come appartenenti a un sistema coerente e continuo, secondo la cosiddetta regola della “buona continuità".
Questo studio del piano diventa più evidente nelle opere prodotte dalla fine degli anni Trenta, in cui l’elemento che crea l’illusione ottica non è più inglobato, quasi nascosto, all’interno di un apparentemente comune paesaggio, ma diventa il protagonista dell’opera stessa.
In opere come Giorno e notte, le varie Metamorfosi e Sviluppo, è evidente la tendenza alla tassellatura dello spazio, fino allo sfruttamento completo del foglio da disegno, lasciando peraltro intendere uno sviluppo potenzialmente infinito della rappresentazione.
Escher, in questa fase della sua carriera, comincia a manifestare anche l’interesse per le interazioni tra bidimensionalità del foglio da disegno e tridimensionalità della realtà, giocando con le ombre e gli effetti chiaroscurali. È questo il caso di Specchio magico, Mani che disegnano o Rettili, che sembrano rappresentare perfettamente tutta l’arte del grafico olandese: è infatti qui che si esplicita al meglio, secondo me, il rapporto tra matematica e natura. La geometria, alla quale siamo abituati a pensare associata all’astrazione, trova la sua realizzazione negli animali, nei paesaggi e in strutture fantastiche come i Planetoidi; in altre parole, Escher riesce a rendere esplicita la geometria insita in ogni costruzione della realtà, ascrivendo anche gli organismi viventi ad un ordine, ad un’architettura dalla precisione matematica.
Dalla metà degli anni Cinquanta fino alla sua morte avvenuta nel 1972, Escher arriverà a fondere di nuovo i paradossi della percezioni con strutture apparentemente reali, ma con una fondamentale differenza: quello che predomina, in questo ultimo periodo creativo, è proprio l’incongruenza.
Immaginiamo di trovarci di fronte alla litografia Salita e discesa, oppure dinanzi a Belvedere: esse appaiono come strutture apparentemente coerenti, tanto che l’occhio, inizialmente, cerca di seguire un percorso di lettura ben stabilito. Puntualmente, però, si perde; torna di nuovo a guardare, a studiare passo passo la figura in modo da captare la giuntura che non tiene. Quando pensa di averla trovata, subentra l’aiuto del cervello, che cerca di forzare il segreto in maniera razionale, senza tuttavia venirne a capo, limitandosi a bollare il tutto come “illusione ottica”.
Questi quadri contengono infatti figure impossibili, che portano nomi ben precisi come cubo di Necker, in cui non è possibile indicare quale faccia sia rivolta verso l'osservatore e quale sia dietro al cubo (presente in Belvedere); triangolo di Penrose, che presenta una sovrapposizione impossibile di linee parallele con differenti costruzioni prospettiche; scala di Penrose, una rappresentazione bidimensionale di una rampa di scale che muta la propria direzione di 90 gradi quattro volte mentre la si sale o la si scende, per ritornare al punto di partenza in un giro infinito (in Salita e discesa).
Ci sono poi opere in cui l’illusione è la misura stessa del quadro, in cui cioè è evidente – fin dalla prima occhiata – lo stress cui è sottoposta quella rappresentazione della realtà. Galleria di stampe è basata, ad esempio, sull’effetto Droste, perché contiene una piccola immagine di sé stessa, che ne contiene a sua volta un’altra di dimensioni ridotte, e così via; Serpenti rispecchia il disco di Poincaré, che è un modello di geometria iperbolica; Cascata rappresenta il moto perpetuo.
Ciò di cui mi sono resa conto è che, nel caso di Maurits Cornelis Escher, non è possibile parlare di uno sviluppo della sua arte: definirei piuttosto i diversi periodi come una diversa interpretazione degli stessi principi geometrici, come uno studio focalizzato di volta in volta su un lato della percezione che gioca brutti scherzi al nostro occhio ottuso.
Come si spiegherebbe, altrimenti, una litografia del 1935 come Mano con la sfera riflettente, il cui studio sulla percezione di una figura concava o convessa basata sull’illuminazione di una sfera si ripresenta ben vent’anni più tardi in Convesso e concavo? Oppure come si spiegherebbero tutte le diverse declinazioni delle tassellature, applicate, in ultimo anche nel modello di Poincaré?
È pensando a questo che definirei l’arte di Escher come uno studio in continua revisione, che come un’insieme di opere fatte e finite. Se solo Maurits non fosse stato umano, questo studio avrebbe potuto protrarsi all’infinito, esattamente come sembra suggerire ogni sua opera con la sua psichedelica ripetizione di forme e figure.

 

 

 

Escher
a cura di Marco Bussagli
Chiostro del Bramante

Roma, dal 20 settembre 2014 al 22 febbraio 2015

 

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