“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 13 September 2014 00:00

Jean-Michel Basquiat, SAMO is dead

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In ricordo del bambino selvaggio e del bambino geniale e di quel giorno in cui vedendo Guernica di Picasso decise di prendere in mano una matita e non lasciarla più... Aveva sei anni... In ricordo di Samo, il ragazzo che se ne andò a quindici anni da casa per conquistare il mondo con la sua arte facendosi "veggente" e morì a ventisette anni ucciso da nient’altro che dalla propria vita... In ricordo di Jean-Michel e del suo ultimo capodanno passato da solo davanti al bicchiere in un bar.


"Questa è la canzone per il bambino geniale
canta dolcemente per la canzone il selvaggio
canta più dolcemente che puoi
per paura che la canzone scivoli via
Nessuno ama il bambino geniale
Si può amare un'aquila domata o selvatica
selvaggio o domato si può amare un mostro dal nome spaventoso
Nessuno ama il bambino geniale
e lui è libero
e la sua anima corre selvaggia".

Jean Michel Basquiat

http://www.youtube.com/watch?v=4QYeGJl0qd8

"mi chiamo Jean Michel Basquiat. Ho 27 anni. Li avrò per sempre".

da Phoebe Hoban: Basquiat. Vita lucente e breve di un genio dell'arte

Se c'è una cosa che ho sempre indovinato nella vita è il momento giusto. Sono capitato sempre al momento giusto. Dappertutto. Così anche morire è stato un colpo di genio, l'ultimo, quello che mi ha consegnato per sempre all'immortalità e fatto di me una leggenda. Lo dicevo sempre da sempre: morire prima dei trent'anni, come i miei grandi idoli. Dio! una vita avventurosa, una vita all'apice, una vita da personaggio di primo piano, è sempre stato tutto quello che ho voluto. Ma il prezzo che ho pagato l'ho capito solo alla fine. Troppo tardi per tornare indietro. Ho provato, credetemi, a farlo. Ho cercato gli amici di una volta, quelli che mi stavano vicino perché mi volevano bene davvero. Non c'erano più. Finiti quei tempi, quegli anni '80 in cui tutto sembrava possibile e tutto era fatto con ingenuità e passione. Perfino le marchette per strada in cambio di due spiccioli in più per sopravvivere. Me ne andavo in giro allora con quel largo cappotto addosso e 15 cent in tasca e tutto un futuro davanti da riempire rendendo reali uno ad uno i sogni. Non sapevo che i sogni quando diventano realtà si trasformano in incubi. L'ho fatto per mio padre. Senza saperlo è per lui che volevo diventare qualcuno. E proprio quel qualcuno che lui nella sua esistenza di contabile borghese in doppio petto blu aveva sempre detestato. Dirgli guarda cosa sono diventato e vederlo chinare la testa e impallidire... Lo hanno descritto un padre amoroso e disponibile: niente di più falso. Mi odiava. Ci odiava: me, mia madre, le mie sorelle. Ci picchiava. Ci insultava. Ci uccideva psicologicamente. Adoravo mia madre e le devo tutto. Le fughe di poche ore da casa insieme a guardare le opere dei grandi artisti nei musei, la passione per l'arte, la sensibilità dell'inerme. È finita pazza, sapete? chiusa in una clinica psichiatrica. Io, per salvarmi, ho scelto la strada.

"Credici o meno, ma io so disegnare".

Jean-Michel Basquiat, da Phoebe Hoban: Basquiat. Vita lucente e breve di un genio dell'arte

Morire a ventisette anni uccisi dalla propria stessa esistenza significa entrare di diritto nella leggenda. La vita di Jean-Michel Basquiat, la parabola breve di un uomo bambino che non è mai riuscito a diventare adulto, è talmente forte e perfetta nel suo genere da sembrare scritta da un autore, bella e pronta per diventare un film. La pellicola di un ragazzo che nel giro di pochi anni conquistò con il suo talento il mondo finché il mondo stesso non lo stritolò condannandolo all'inferno. La New York di quegli anni, l'ambiente mercantile dell'arte con le sue spietate logiche economiche, l'opportunismo di chi ti loda ti sfrutta ti usa e ti abbandona, c'è tutto. Julian Schnabel, artista anche lui, quel film l'ha girato davvero. Chissà se gli sarebbe piaciuto.

http://www.youtube.com/watch?v=ynSnrZDUlik

Certo non era quello che Jean-Michel si immaginava quando con il compagno di scuola Al Diaz dal 1978 iniziò a lasciare traccia della leggenda di Samo – The Same Old Shit, “sempre la stessa merda” – il nome con cui firmava le frasi criptiche che incominciarono a riempire i muri di New York e in due anni crearono le fondamenta di quello che sarebbe poi diventato un vero mito vivente. Anche Keith Haring ne era un fan, ci rivedeva il suo stesso spirito, non solo semplici scritte: quella era già arte.

“Da quando avevo diciassette anni, ero certo di diventare celebre. Avevo delle idee romantiche sulla maniera di diventare celebre. Sognavo i miei eroi, Charlie Parker, Jimi Hendrix…”.

Jean-Michel Basquiat, da The Radiant Child, regia di Tamra Davis

Non era nato in un ghetto Jean-Michel, anche se gli piaceva farlo credere. In realtà era nato a Brooklyn, New York, il 22 dicembre 1960 da padre haitiano, il contabile Gérard Basquiat e da madre statunitense di origini afro-portoricane, Matilde Andradas; aveva due sorelle minori: Lisane e Jeanine. Avrebbe potuto avere una adolescenza, nel bene e nel male, come tante se il rapporto con suo padre non fosse stato così devastante: un uomo completamente privo di affetto ed empatia, che maltrattava la moglie e picchiava lui e le sorelle con la cinghia dei pantaloni. Quando a quindici anni Jean-Michel scappò di casa lo fece accusandolo di averlo ferito con un colpo di coltello in un gluteo. "Ero nella mia stanza che fumavo erba, entrò mio padre e mi ferì al culo con un coltello”. Definì in seguito il periodo di vita per strada come il peggiore della sua vita. Alla scrittrice Suzi Gablik disse: "Rimasi lì seduto a calarmi acidi per otto mesi. A raccontarlo adesso sembra noioso… è una cosa che ti mangia il cervello". Le sue insegnanti lo ricordano a scuola come un ragazzino ipersensibile, che si attaccava a chiunque gli mostrasse un minimo di attenzione e di approvazione, e disegnava continuamente fumetti trascurando per questo tutto il resto. La Storia dice che rimediò in quel modo anche una bocciatura in disegno dal vero. Ma ormai anche questo è leggenda.

"Direi che è stata mia madre a insegnarmi le prime cose. La mia arte viene da lei. Ma non posso descrivere mia madre, ci vorrebbe troppo tempo”.

Jean-Michel Basquiat, da Art After Midnight, di Steven Hager, 1985

Jean-Michel e sua madre. Sembra quasi di vederli in quelle fughe da casa girare per musei, sedersi davanti a un quadro, rubare un'ora di tranquillità a quell'inferno che insieme dividevano fra quattro mura. Un rapporto simbiotico il loro, un fare corpo comune e una stessa sensibilità, uno stesso linguaggio che attraverso l'arte riusciva a unirli metaforicamente anche nel silenzio. Basquiat ha sempre preferito non parlare troppo di sua madre: il dolore di una ferita mai rimarginata. Da L’anatomia del Gray, il libro di anatomia che lei gli regalò, quando a sette anni investito da una macchina rischiò di morire perdendo la milza, prese il nome del suo gruppo musicale, i Gray, perché a Jean-Michel piaceva anche suonare, suonava molti strumenti ma più di tutto amava la tecnica del campionamento e periodicamente si esibiva con l'amico Vincent Gallo al Mudd Club. Vincent Gallo dichiarò in una intervista di averlo incontrato una volta, negli ultimi tempi prima di morire, “Vedendolo pensai che avesse l’Aids. Ero sconvolto dal suo aspetto. Aveva piaghe su tutta la faccia... Non andai a casa sua perché non volevo avere niente a che fare con un tossico". Abbandonato da tutti. Una meteora in corsa verso la fine.

Basquiat era bello. Ma non era solo quella bellezza ad attirare l'attenzione su di lui. Aveva un'eleganza innata, uno sguardo malinconico che si accendeva di improvvisi lampi di allegria, un sorriso dalla dolcezza disarmante. Voleva arrivare, è vero, voleva dimostrare al mondo di essere qualcuno, e si muoveva con la strafottenza di chi si sente predestinato a qualcosa di grande, ma sotto l'apparenza che si era inventato era ben nascosta l'estrema fragilità di chi ha bisogno di un punto fermo a cui ancorarsi, una mano che lo sorreggesse, un posto a cui tornare. Era il ragazzo che a quindici anni faceva marchette per dieci dollari, era il ragazzo che si legava, immancabilmente, a donne disposte ad accoglierlo ed aiutarlo, era il ragazzo che, fondalmentalmente, non sapeva stare da solo. "Jean-Michel scioccò gli amici raccontando che le sue prime esperienze sessuali furono omosessuali. Era stato costretto a fare sesso orale da un barbiere che si vestiva da donna. Poi ebbe una storia con un dj", si legge nella biografia di Phoebe Hoban. L'incontro con Madonna resta fra i più noti ma fu solo uno fra i tanti e rappresentò, in fondo, semplicemente il ritrovarsi di due che avevano in comune lo stesso desiderio di emergere ad ogni costo. Prima di lei era stato molto più importante e significativo quello con Suzanne Mallouk: avevano entrambi vent'anni, lei una barista, lui il ragazzo che ogni giorno entrava al bar ordinava un cappuccino e la fissava. Ebbe il coraggio di invitarla a uscire solo dopo aver venduto a Blondie, per duecento dollari, il suo primo quadro. Non si lasciarono più per molto tempo. Lei lavorava. Lui dipingeva. Funzionò fino a quando il successo non irruppe come un uragano nella loro vita, funzionò fino a quando Jean-Michel non diventò solo, per tutti, Basquiat. Finì male, con un falò sotto le finestre del loft che dividevano insieme di tutti i quadri che lui le aveva regalato: sopra Jean-Michel era a letto con Madonna. Giù, sul marciapiede, Suzanne cercò di liberarsi così di un amore che l'aveva tradita e ormai la faceva solo soffrire. Oggi la chiamano "la vedova di Basquiat". Giusta o sbagliata che sia come definizione è l'unica che, alla sua morte, non si sia gettata avidamente a vendere ogni frammento di ricordo, altre avrebbero venduto anche la loro pelle, dichiarò un gallerista, se solo sopra ci fosse stato un tatuaggio disegnato da lui. Magari è anche questo il giusto prezzo, il giusto risarcimento della gonorrea che attaccava a chiunque, fregandosene completamente delle conseguenze e pagandone poi le cure per non sentirsi in colpa. Resta il fatto che le donne che ha avuto lo descrivono come un grande amante, uno che quando si innamorava ti riempiva di regali e di disegni trattandoti come una regina. Peccato che poi si stufasse velocemente, passasse ad altre saltuarie storie e poi tornasse da te per farsi perdonare. Ogni volta, con tutte, così.

"Non ascolto ciò che dicono i critici d'arte. Non conosco nessuno che ha bisogno di un critico per capire cos'è l'arte".

Jean-Michel Basquiat,  da Phoebe Hoban: Basquiat. Vita lucente e breve di un genio dell'arte

Cosa ha rappresentato il successo per Basquiat? sicuramente una terapia, fallace, contro le sue insicurezze interiori. Sicuramente una rivalsa nei confronti di un mondo che, fuori dalle luci accese di party, locali e gallerie d'arte, continuava a vedere in lui soltanto un ragazzo negro. Fra le quattro mura di quel mondo splendente si sentiva idolatrato e a suo agio. Fuori era ancora quello a cui un taxi non si fermava solo perché non aveva la pelle del colore giusto. Fra questi due poli la parabola di un ragazzo, un talento naturale, che avrebbe avuto ancora bisogno di molto tempo per crescere e che bruciò le tappe della sua esistenza in un pugno di pochissimi anni.

L'incontro con Andy Warhol fu determinante. Jean-Michel aveva sempre visto in lui un maestro. Warhol se lo trovò di fronte un giorno, mentre era al tavolo di un ristorante. Basquiat lo avvicinò e gli propose di acquistare qualcuna delle cartoline che allora disegnava. Un gesto che qualcun altro avrebbe considerato folle e fin troppo audacie e che ben rappresenta la determinazione che aveva di entrare di diritto in quel paradiso degli artisti che fino ad allora aveva sempre guardato da dietro un vetro. Ma sarebbe errato pensare che si trattò solo di una mossa strategica e utilitaristica, il rapporto fra i due, infatti, può ben definirsi uno scambio alla pari. Jean-Michel si era già fatto un nome, non solo nella strada ma anche nell'ambito degli addetti ai lavori, i suoi quadri erano già in pieno un investimento economico per i galleristi che li esponevano e li mettevano in vendita. Del resto quando le banche incominciano a considerare le tue opere come una garanzia per i prestiti significa una cosa sola: sei arrivato. La sua prima mostra, nel marzo del 1982 a Modena e contemporaneamente a New York nella galleria di Annina Nosei, aveva riscosso apprezzamenti da parte del pubblico e dei critici. Quegli stessi collezionisti che compravano le sue tele Basquiat si divertiva però, spesso, a disprezzarli. "Mi ricordo di una volta in cui c’erano questi due collezionisti, ed era una notte calda umida da cani. Volevano portarlo a cena fuori. E così Jean-Michel scelse il ristorante più caldo che stava sulla Columbus Avenue e che faceva cibo messicano, e i collezionisti erano qui tutti afflosciati. Un’altra cosa che fece fu sganciare delle bombolette puzzolenti tedesche. Le sganciò tutte alla galleria in cui Milo Reese stava facendo una mostra. Erano delle cose veramente squallide, che trasportava in una fiala. Ed erano talmente disgustose. Le lanciava appena vedeva arrivare qualche collezionista...", racconta Paige Powell, una delle sue compagne. "Una volta che la Boone era a Los Angeles per una mostra da Gagosian, restò affascinata da un quadro dorato che aveva fatto Basquiat", ricorda Matt Dike: “aveva costruito questa gigantesca struttura di assicelle, e Jean l’aveva dipinta di color oro disegnandoci sopra una grande testa. Mary la vide e disse “La adoro! È favolosa! La voglio!”. E dopo che fu andata via, Jean disse: “Che si fotta, non l’avrai mai” . Tirò fuori un enorme e lunga tela e usò uno dei suoi pastelli a olio per disegnare sopra una lunga linea e una freccia. Poi scrisse “Gold Copyright” e disse: “credo sia il miglior lavoro che abbia mai fatto. Mandatela a Mary Boone". Questo era anche Basquiat. Il suo stile, quell'inconfondibile miscuglio di linguaggio adulto e linguaggio infantile, ironia, colore, fumetti, pittura, scrittura, Lichtenstein, Pollock, Magritte, Klee, Cy Twombly e molto altro ancora lo aveva reso unico sulla scena artistica di quella New York degli anni '80. La rappresentava, la vestiva alla perfezione, esattamente come lui indossava alla perfezione gli abiti di Armani e Versace sporcandoli di colore. Warhol dal canto suo stava vivendo un momento di stasi, la sua vena creativa sembrava esaurita, da tempo non proponeva più nulla all'altezza del suo passato. Era un nome, certo, ma un nome ormai stanco. Diedero, l'uno all'altro, quello che in quel preciso momento all'uno e all'altro mancava.

"Ho lasciato la mia impronta sul mondo e il mondo ha lasciato la sua impronta su di me. Qua puoi avere tutto quello che vuoi, basta provarci, e anche quello che non vuoi se non stai attento".

Jean-Michel Basquiat, da Phoebe Hoban: Basquiat. Vita lucente e breve di un genio dell'arte

Il sodalizio fra i due all'inizio non fu facile. Warhol era diffidente nei confronti di questo ragazzo, temeva pure di farlo entrare nel suo studio per timore che gli imbrattasse le tele di colore. In più sapeva che era un tossico e questo, visto le sue esperienze passate, lo rendeva sospettoso nei suoi confronti. Basquiat, dal canto suo, adorava Warhol e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di essere accettato da lui. Rivestiva, in fondo, perfettamente i panni di quella figura paterna che gli era mancata, gli si attaccò certamente più di quanto lo stesso Warhol potesse sopportare. Certo è che quel periodo fu uno dei più belli e sereni per Jean-Michel e rappresentò, in tutto e per tutto, il coronamento di un sogno. Il ragazzino fragile stava finalmente toccando con mano tutto quello per cui aveva sempre lottato ed era vicino al "dio" che tutto quello aveva sempre, per lui, incarnato. Non fu solo un legame d'arte ma anche, e soprattutto, un legame di sentimenti, fu, per la prima volta, un sentirsi a casa.  

Non durò molto. Il mercante d’arte svizzero Bruno Bischofberger propose una mostra in collaborazione tra i due che entrambi accettarono, ma quello che avrebbe dovuto essere un evento artistico importante si rivelò invece deleterio per il loro rapporto. Quando, il 20 settembre 1985 all'indomani dell'inaugurazione alla Tony Shafrazi Gallery, il Times riportò in un articolo che Basquiat era la mascotte di Warhol, l'amicizia fra i due entrò irrimediabilmente in crisi. Le abitudini tossiche di Jean-Michel fecero il resto. Andy Warhol non era un consumatore di droghe, fondamentalmente era un salutista e le detestava. All'interno della Factory ne era vietato l'uso e sembra che, secondo Phoebe Hoban, solo Basquiat e un assistente di studio ne facessero un regolare consumo. Jean-Michel era un tossico a tutti gli effetti, droga ed alcool lo avevano segnato fin dall'infanzia. Aveva tentato spesso di disintossicarsi allontanandosi dall'ambiente di New York, ma gli bastava tornare per ricominciare da capo con i soliti giri e il successo, i soldi, l'accesso facilitato a qualsiasi ambiente, l'adorazione di chi lo circondava e gli permetteva di tutto, non lo aiutavano a venirne mai veramente fuori. Il successo aveva anzi reso ancora di più ingestibile questo tratto del suo carattere, la pressione a cui si sentiva sottoposto lo spingeva maggiormente a rifugiarsi nell'eroina che gli dava quella calma di cui aveva bisogno per continuare e nella cocaina che gli dava la forza per lavorare. Keith Haring ha dichiarato alla Hoban: “Era costretto ad essere all’altezza della fama di giovane prodigio, che è una sorta di falsa santità. Al tempo stesso era costretto ad essere all’altezza della propria natura ribelle e, ovviamente, delle tentazioni che gli procuravano tonnellate di soldi. Il problema di dover gestire il successo non andrebbe sottovalutato”. Creava freneticamente, per notti e giornate intere, dipingeva con la televisione accesa o la radio a tutto volume quasi avesse paura del silenzio. I sensi sempre più alterati, disegnava ovunque così come l'estro del momento gli indicava di fare: superfici di frigoriferi, finestre, muri, lenzuola, magliette, pezzi di cartone e di carta, materassi, e le opere di dimensioni più grandi le stendeva a terra camminandoci sopra. Racconta Anden Scott che un giorno andò a trovarlo in uno scantinato dove lavorava e lo trovò immerso in un disordine incredibile: "... c’era cocaina dappertutto. Era talmente orribile che mi venne la pelle d’oca. Gli dissi: 'Puoi decidere se fare di te un grande artista o una grande tragedia'. Lui sorrise e mi rispose: 'Perché non entrambi?'”. 

Il 22 febbraio 1987 Andy Warhol muore. Il 12 agosto 1988 Jean-Michel Basquiat muore. Dopo un'agonia interiore lunga poco più di un anno. La morte di Warhol lo aveva toccato, profondamente, e ne accelerò, in un certo senso, la fine. La sua ipersensibilità, l'abuso di droghe, l'aver perso per sempre l'unico punto di riferimento vero che almeno per un periodo era riuscito a colmare il vuoto affettivo che si sentiva dentro, lo avevano gettato in un baratro da cui gli era impossibile risalire. Chiuso in casa, senza voler più vedere nessuno, aveva smesso anche di dipingere e piangeva continuamente. Intossicato, abbruttito fisicamente, ridotto alla larva di quello che era stato, sfruttato fino all'ultimo giorno dal suo gallerista che pur di avere ancora qualche sua crosta lo accompagnava dagli spacciatori, puliva il suo vomito, gli era costantemente a fianco, non per amore, no, ma per soccorrerlo in caso di overdose. La gallina dalle uova d'oro continuava a vendere moltissimo. Le quotazioni continuavano ad essere in ascesa. La gallina dalle uova d'oro non poteva permettersi il lusso di morire. Di quegli ultimi quadri neppure sappiamo se veramente siano i suoi: un assistente lo aiutava a dipingere mentre lui non riusciva neppure a stare seduto su una sedia. Qualcuno lo ricorda la notte di Capodanno del 1987: solo. Seduto a un bar. Davanti a un bicchiere. Qualcuno ricorda che pochi mesi prima di morire dipinge Cavalcando la morte, un quadro in cui la solita figurina nera domina uno scheletro bianchissimo che cammina a quattro zampe. Quella figurina era lui. La morte lo stava portando via.

"Questo sono io. Non sono una persona vera. Sono una leggenda".

Jean-Michel Basquiat, da Phoebe Hoban: Basquiat. Vita lucente e breve di un genio dell'arte

Cosa resta di SAMO oggi? cosa resta di Jean-Michel Basquiat oggi? L'uomo e la leggenda si confondono. L'arte rimane. Reliquie vengono tolte dai cassetti, rispolverate e messe in vendita. Mostre e personali in giro per il mondo lo ricordano. Un commercio fiorente che la morte ha soltanto accresciuto. Oggi tutti di quegli anni a New York si pregiano di aver conosciuto Basquiat, anche soltanto per tenergli il braccio mentre si infilava l'ago in vena. Ma qualcuno può dire di averlo veramente conosciuto? e gli amici che lo hanno lasciato solo possono dire di averlo veramente amato? riposa in pace Bambino Geniale, riposa in pace Bambino Selvaggio.





Immagini fotografiche: Archivio Andy Warhol, | Archivio Getty, Life, Vogue America, The New York Times Magazine


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