“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 30 June 2014 00:00

Andy & Andy

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Nell’affascinante e complesso mondo culturale di oggi, può accadere che nello stesso periodo, nella stessa nazione, a pochi chilometri di distanza, venga celebrato lo stesso artista in due differenti mostre. E se quell’artista è il maestro della rappresentazione seriale, la cosa non può di certo stupire.
Andy Warhol è a Roma ed è a Napoli raccontato attraverso le sue opere più significative, in due immersioni espositive diversamente simili.

Nello splendido scenario di Palazzo Cipolla, trasformato in tempio delle arti dalla Fondazione Roma Museo, creata dal nobile impulso del professor Emmanuele Emanuele. Nel rifiorente PAN di Palazzo Roccella, sotto la regia di Achille Bonito Oliva, rivitalizzato negli ultimi anni dall’operato apprezzabile e irto di insidie della giunta comunale.
A Roma è esposta la collezione privata di Peter Brant, amico intimo di Andy e attore non protagonista delle rivoluzioni culturali e artistiche della New York degli anni ’60 e ’70. Una trionfale giostra variopinta, vivacità di immagini e colori. Il ripetibile e ripetuto diviene in Warhol copia mai uguale e sempre unica. Come unici sono i personaggi che lui rappresenta, come diventa unica l’icona immortale di Marilyn Monroe.
Dorothy Podber era un’amica di Warhol. Nel 1967 si reca nel suo atelier, la Factory, per ammirarne da vicino le opere; notando alcuni dipinti accatastati l’uno sull’altro, chiede all’artista: “May I shoot Marilyn?”. Un quesito apparentemente semplice, innocente: “Potrei fotografare Marilyn?”. Ma shoot significa anche sparare. Dorothy Podber tira fuori una pistola e inizia a colpire i ritratti. Proiettili che trapassarono quattro tele di inestimabile valore, proiettili che forarono sulla fronte l’immagine della sex-symbol americana, proiettili che per qualsiasi pittore sarebbero stati una terrificante tragedia. Per Warhol divennero Blue Shot Marilyn.
Andy è un innovatore ribelle, scaltro e geniale. Tutto trasforma in arte, tutto, finanche l’urina. In Oxidation Painting lo strato di vernice ancora fresca sul rame è innaffiato dal suo mingere e da quello dei suoi amici della Factory. Un superamento, quasi un’esasperazione ironica del fare di Pollock; l’action è ancora più personale, intima, interiore. Siamo di fronte ad un genio, al genio della Pop Art; l’arte popolare nell’accezione estrema: arte del popolo, dei luoghi e degli oggetti della quotidianità, guardati e rappresentati su un piano di osservazione differente, nuovo, mai visto prima.
Ma Warhol è anche occhio innovativo che volge alla storia dell’Arte, quella vera. Nella reinterpretazione dell’Ultima Cena, utilizza differenti retìne monocromatiche, tipiche del mondo della pubblicità di quegli anni, con l’intento di offrire la visione analitica ed interpretativa del capolavoro leonardesco. E The Last Supper, sarà The Last della sua vita, in quanto proprio in quell’anno, il 22 febbraio 1987, morirà in un letto di ospedale per un intervento alla cistifellea.
La mostra di Roma è meravigliosa, ben allestita, coinvolgente, accattivante; però è una mostra che avremmo potuto vedere in qualsiasi luogo del pianeta. Ricevendo eguali emozioni.

Duecento chilometri più giù, il Warhol delle Vetrine nel Palazzo delle Arti di Napoli, è parimenti emozionante ma è soprattutto una mostra di Napoli, su Napoli, per Napoli, a Napoli.
Tutto volge alla città di Partenope persino le opere viste nella Capitale. La stessa zuppa Campbell’s Tomatoes, ripetuta con la tecnica del bombardamento pubblicitario, non può non richiamare le nostrane buatte di pummarola.
E Ladies and Gentlemen, le foto ingrandite delle drag queen newyorkesi non possono non essere rilette come la versione oltreoceano dei femminielli.
L’azione quasi istintiva di tale parallelismo non è un mera volontà 'napolicentrica' dello spettatore, ma è indotta dalle opere che Andy realizzò sulla città. Perché da quel 1975, in cui per la prima volta visitò Napoli, e immortalato dal video del regista Mario Franco, Andy Warhol eats, addenta la prima mozzarella; egli rappresenterà la terra partenopea in molte delle sue sfaccettature, con risultati sorprendenti.
Le enormi serigrafie di personaggi famosi del ‘900, da Kennedy, a Mao, a Liz Taylor fino ad Elvis, che ammiriamo nell’esposizione capitolina, qui sono sostituite dalle foto di Grazia Leonardi Buontempo, Ernesto Esposito, Peppino Di Bernardo, Salvatore Puca e soprattutto del gallerista Lucio Amelio; personaggi dell’intellighentia artistica e culturale napoletana, non certo famosi come i precedenti ma ai quali Warhol dà medesima visibilità ed importanza. Perché sono i figli di una città così diversa dalle altre e così simile alla sua New York. Lucio Amelio merita poi particolare menzione e gratitudine per aver portato l’artista americano a Napoli, nella sua galleria di Piazza dei Martiri.
Quando il sisma dell’Irpinia sconvolge e distrugge la Campania, Warhol non esita a dare la sua testimonianza con Fate Presto: tre imponenti riproduzioni, acrilico e serigrafia su tela, della prima pagina de Il Mattino; in bianco e nero, in sfumatura di bianco e in negativo. Il foglio di un quotidiano letto da milioni di persone diviene opera, arte. E le stesse tonalità del nero e del bianco, volgono al buio e alla luce, alla morte e alla speranza generate dal tragico evento.
È evidente che Warhol sia travolto ed affascinato dalla metropoli attuale e dalla sua storia, dal suo atroce passato. Quel Vesuvio, che Plinio il Vecchio raccontò nell’eruzione del 79 d.C. con una bramosia di sapienza tale da lasciarci la vita, lo intriga, lo ipnotizza, lo ispira. Nasce così la serie di diciotto quadri Vesuvius, realizzati nel 1985 per la mostra del Museo di Capodimonte, ove in maniera impareggiabile rappresenta la lava omicida del vulcano. Un magma cromatico devastante ripetuto in colori accesi, forti, differenti sulla base di un disegno solo apparentemente eguale. Diverse dimensioni, diverse sfumature, impatto unico. Il momento più intenso dell’intera esposizione di Palazzo Roccella. Una incredibile forza pittorica, un messaggio senza tempo, terribile per l’uomo e trionfante per la natura. E mentre crea, si chiede se l’incendio dell’Empire State Building avrebbe potuto sconvolgere allo stesso modo New York.
Oggi le sue parole suonano amare come un triste presagio dell’America post 11 settembre.

Andy Warhol, dalla Brant Foundation
e Andy Warhol, Vetrine è straordinario e straordinario. E la ripetizione non è un errore di battitura.
Nella magnifica esposizione di Roma, ad attraversare momenti incomparabili della propria produzione è un Warhol Global; il Warhol sbarcato a Napoli, rapito e travolto dalle bellezze e dalla storia della città, è Glocal. Le due mostre finiscono, forse in modo inconsapevole per complementarsi, senza essere mai un già visto e già apprezzato, prive di aneliti competitivi; addirittura necessarie ed ausiliari per inchinarsi alla genialità, all’intuizione, al talento di un uomo che capì come produrre e vivere di arte in un’epoca priva di arte.
“Ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista del business”.
E forse anche per questo Warhol, pittore, scultore, pubblicitario, fotografo, regista, attore, si sentiva un po’ napoletano.

 

 

 

Andy Warhol. Dalla Brant Foundation
Fondazione Roma Museo – Palazzo Cipolla
Roma, dal 18 aprile al 28 settembre 2014

 

Andy Warhol. Vetrine
PAN Palazzo delle Arti di Napoli – Palazzo Roccella
Napoli, dal 18 aprile al 20 luglio 2014

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