“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 02 May 2014 00:00

"Epifanie": il laboratorio irregolare di Antonio Biasucci

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In questo stesso istante, fra le scabre mura del castello nato dal ventre più vivo della sua stessa città, si incontrano l’intimità e la condivisione, lo sguardo verso il dentro ed il fuori, le scalpitanti miriadi di segni e l’unicità di ogni singola immagine. Qui prende vita il primo progetto per un “laboratorio irregolare” di fotografia, dove innanzitutto si accoglie e sostiene l’urgenza di conoscere se stessi, di produrre materialmente il risultato della propria personale indagine. E si tratta di un’urgenza della scoperta protratta nel tempo, estesa all’infinito, nella ripetizione della spontanea ritualità del gesto primordiale: quello della ricerca. Si percorre e ripercorre il cammino costruito, nell’alternanza fra visioni e reazioni emotive e poi ancora nuove visioni nate da quelle reazioni, e nuove reazioni, fino ad arrivare alla distillazione di un succo che sia il più possibile puro, eloquente nella sua stessa essenza.

La forza del progetto risiede nella semplice verità; si riflette e ci si autodetermina all’interno di una consapevolezza ben formalizzata da Antonio Biasucci il quale, insieme ad Antonello Scotti, si assume il compito di spingere le energie creative di giovani spiriti verso l’estrema presa di posizione dell’identità personale, verso una “scarnificazione”. È la riduzione a pochi elementi distintivi che annulla la dispersione delle energie e delle sensazioni, compattando in sé l’intero universo espressivo del singolo.
Otto giovani confrontano la propria visione della vita, si propongono di esplicitare da subito il proprio cammino attraverso lo sguardo fotografico ben puntato su ciò che li riguarda e li interessa, come sigillo alla promessa di non abbandonare mai il proprio sentire. La molla propulsiva dell’autoascolto scatta così per tutti, per ciascuno degli otto fotografi così come per i visitatori del loro animo, di cui si può saggiare l’ombra, la traccia che risuona in ogni diverso portfolio. Essa risuona in tutti coloro che hanno partecipato al progetto attivamente, creando il “liscio” e minimale tavolo che amplifica il momento epifanico nella luminosa rivelazione di contenuti interiori, più umani che mai, al centro del sempiterno mistero dell’oscurità (progetto di G.F. Frascino ed otto studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli). Risuona nei maestri che hanno condotto l’orchestra dei giovani artisti come punto di riferimento di un modus operandi che avrebbe lasciato alla loro arte totale libertà.
Risuona in quei ragazzi ed in noi tutti che andiamo a vedere di cosa si sta parlando, sfogliando con attenzione le pagine dei libri che contengono quelle fotografie come rigidi carillon in attesa di mostrare la danza degli oggetti e dei soggetti sulle note di una personale melodia. In ordine sparso si mettono in moto gli ingranaggi dello spirito, si colgono nessi, si spostano immagini, si aggiungono nuove icone. L’occhio, primo filtro, cattura il tocco leggero ma deciso d’un chiaro muso equino schiacciato contro l’erba, il fiero e coinvolto adagio di un volto alla carezza di una pelle altrui ma riconosciuta, l’elegante zampa pensante tesa alla calda consistenza del legno, le banda lacera come vela strappata del tessuto che cela uno scheletro d’impalcatura. Il flusso percettivo viaggia nelle teste e sui corpi, passa dall’odore della nuda terra all’umida epidermide del mare, dalla pienezza di una schiena che si staglia immensa sulla suggestione di una stanza familiare ai bagnati graffi nell’inquadratura pastello di un misterioso oggetto galleggiante in acque mediterranee, dai bianchi capelli di un’odierna matrona placidamente adagiata nel suo nobile affaccio sul mare, alle carnose interiora puntellate di frutti rotondi a supportare, come quotidiano altare del popolo, una sacra presenza.
Talvolta, osservando altrove alcune fotografie di scena teatrale, si percepisce immediatamente una velleità di ricerca artistica risolta sul filo di un linguaggio differente, che trova nell’interpretazione di quel particolare rifacimento della vita che è il teatro, la sua indipendenza. Come ho avuto modo di scrivere in passato, in quegli scatti si ricerca e costruisce una dimensione parallela e ad un tempo emancipata rispetto a quella in cui si compie l’azione teatrale. Un luogo in cui, partendo da quest’ultima, “si ricavi null’altro che immagine intrisa di un significato di forma simbolica, di pura espressione che è arte della luce, dell’ombra, del corrugarsi e del distendersi della superficie, delle sostanze e delle materie che fanno del canale oculare il nuovo unico veicolo di trasmissione di suoni, voci, respiri, odori e volumetrie concrete della scena”.
Ricordandoci di quanto Biasucci dichiari di essere stato intensamente ispirato dai metodi teatrali di Antonio Neiwiller, l’amico scomparso, la brama di svelare l’essenza del gesto e dell’immagine appare chiara e densa di significati. Il lavoro degli otto protagonisti si proietta non sul teatro, bensì sulla scena sempre aperta del mondo, e, come ben ha scritto Biasucci, è stato coordinato con l’intento di portare in superficie l’identità di ciascun fotografo, rifuggendo la categorizzazione del genere. Tuttavia esso rivela lo scopo del ricercare l’essenziale, nonché la misura e la qualità di tale ricerca.
In linea non con uno stile ma con un’esigenza puramente artistica, i fotografi, come emerso nelle parole di protagonisti che tanto entusiasticamente si sono mostrati disponibili alla possibilità, fortemente voluta, del dialogo con i fruitori, hanno spiccato il volo rasentando un fondo comune, ricco di desiderio di conoscenza, di quella sana avidità esistenziale che ti porta a scrutare le cose, sempre più addentro alle stesse. L’ansia, così produttiva, è quella di arrivare ad osservare il cuore di ogni presenza o fenomeno, dietro le tante apparenze, al fine di riplasmare un’immagine di sé stessi più vera, il più vicina possibile a quell’essenza intangibile che rende ogni essere umano diverso dall’altro, proprio nel momento in cui lo avvicina all’altro nella comunità d’intenti. È un percorso faticoso e senza fine, intriso di drammatici contrasti che si manifestano nello scoprire ogni singola diversità, si acquietano ed espandono nella pienezza dello sguardo disteso sul paesaggio, nella commovente considerazione dei dettagli del proprio od altrui corpo.
Tutto nell’arte, in questo caso nell’arte della fotografia, è estensione del proprio respiro, che come marea dilaga sul mondo e si ritrae, portando con sé nuovi elementi, nuovi punti di vista ed ancora nuove esigenze. Ogni volta che si lambiscono le proprie emozioni e si ritrovano le sensazioni partite ormai alla volta di nuove spazi, la necessità della riappropriazione è brevemente appagata ma non si esaurisce, e non se ne può fare una questione d’età o di ambiente. L’ansia di cogliere il fulcro delle cose è valida per tutti. Un perpetuo movimento si manifesta in tali scatti. L’impressione è quella di stare guardando qualcosa che non muore mai, perché sempre riattivata dall’inconscio e, ad un tempo, dalla consapevolezza di quegli occhi che hanno catturato istanti senza rubarli alla loro realtà, mettendone in evidenza un’intrinseca e privata bellezza e per questo rendendoli veramente esistenti.
Ilaria Abbiento, Fulvio Ambrosio (che per primo si è messo in contatto con Biasucci permettendo la nascita di questo progetto in cui le energie di tanti si sono incontrate ed unite) Chiara Arturo, Giuliana Calomino, Cristina Cusani, Susy D’Urzo, Luigi Grassi e Claudia Mozzillo, hanno fotografato il loro ambiente, la loro famiglia, luoghi ameni eppur vicini, posti angusti in cui si dispiega la fede nell’identità, lo scambio spirituale con le persone vicine, la semplicità di un fiore e la sofisticatezza di un nobile arredo, le nostre origini e gli orizzonti di possibili scenari futuri, esaltandone i significanti estetici, primari portavoce di altri e complessi significati. In tutti si scopre lo sguardo concreto e libero di chi sa di essere alla ricerca di qualcosa che potrà scoprire solo lungo il sentiero, e da ognuno ci si può far trasportare in un pianeta intimo eppure pronto ad aprire i suoi confini al resto dell’universo. La nota più importante, però, resta la genesi e l’obbiettivo di tale progetto.
In un tempo in cui, spesso, solo la materia del qui ed ora diviene concreta ed il vero capitale umano resta relegato nell’indefinita sfera dell’astrazione, un evento come Epifanie, il quale si ripropone una cadenza fissa, può divenire provvidenziale. L’essenziale “mostra-installazione” e la ricerca che è alla sua base, può ribaltare la situazione e puntare i riflettori su ciò che è davvero importante, continuando a mantenersi indipendente e distante da quei tanti progetti volti alla mera soddisfazione di più bassi tornaconti. In molti di essi cavalcare le tendenze più attuali e costruire un grandioso avvenimento espositivo all’ultima moda, dove la presunta validità culturale pare disperdersi in un marasma di apparenze grossolanamente esibite, divengono l’unico scopo di tante energie sprecate.
La mostra degli otto artisti di LAB è una di quelle idee che può ricorreggere l’unica possibile rotta, da cui troppo di frequente ci si discosta: la necessità di una riflessione ininterrotta e di grande spessore, il bisogno di mettere in moto le vere energie dell’arte per la produzione di eterni e rinnovati contenuti, di un momento di rinascita e di condivisione di uno spirito e di una cultura profondi come e più dell’oceano.

 

 

 

Epifanie. Per un laboratorio irregolare
a cura di Antonio Biasucci, Antonello Scotti
opere di Ilaria Abbiento, Fulvio Ambrosio, Chiara Arturo, Giuliana Calomino, Cristina Cusani, Susy D'Urzo, Luigi Grassi, Claudia Mozzillo
Sala Prigioni di Castel dell'Ovo
Napoli, dal 29 aprile al 2 giugno 2014

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