“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 29 March 2014 00:00

Traviata suare

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Certo, le premesse erano buone: per questa Traviata al Petruzzelli – già presentata al mio bel San Carlo l'anno scorso – era lecito ben sperare, tutto sommato. Ferzan Özpetek – il regista turco che da tempo già lavora nella nostrana fabbrica del cinema – si cimentava con quest'opera che – diceva – tanto lo ispirava: gli ricordava, il personaggio, infatti – lui affermava – Laura Antonelli nel pien del suo splendore e dei giorni suoi dorati. Ed effettivamente, a vedere adesso l'allestimento confezionato – il prodotto finale, diremmo – una qualche somiglianza tra la Violetta nel nero abito da sera del second'atto, vittima dell'alfrediano disprezzo e la Laura del viscontiano Innocente, strapazzata dal Giannini/Tullio, sì, a guardar bene c'è... Ma questo ricordo altri echi si portava inevitabilmente appresso, in lunga catena, altrettanto – se non di più – fecondi: Luchino Visconti, maestro del cinema, certo, ma pure regista indiscusso innovatore e geniale di tanto teatro d'opera, consentiva di porsi indubbiamente sulla strada giusta; L'innocente, poi, estrema creatura di cotanto Maestro, tirava dentro la partita il divino Gabriele, nientemeno, che – si sa – Parigi, cocottes ed esangui pallide femme fatales ha sempre frequentato, dal vero e in fantasia.

Non bastasse, a rendere ancor più ricche le premesse culturali, il temerario aggiungeva perfin l'œuvre cathédrale: nientepopodimenoché la Recherche, ché tanto a parlarne son buoni tutti – altro poi leggerla sul serio... E spostava il tempo degli eventi, di conseguenza, dalla metà del secolo romantico al 1910, quando nella Ville Lumière si diffondeva l'esotico gusto dell'estreme turcherie dei samovar e dei narghilè… un frammento del vicino oriente tanto caro al nostro regista da mettercene un po' in ogni cosa che fa, come il nostrano prezzemolo. Ho idea però – questo no, non l'ha detto lui – che da più lontano ancora partisse il suo avvicinarsi all'opera verdiana: da quell'Harem suare, il secondo dei suoi film, del 1999, in cui – e non è un caso – veniva rappresentata La traviata: scena finale proprio ad inizio film, recitata per la gioia del sultano che volle cambiare l'esito dell'opera, regalandosi un fantasioso happy end sì da far loro lasciar nel suo splendor Parigi; e siamo intorno appunto al 1910, nell'harem dell'ultimo Sultano, appena prima che cadesse la Sublime Porta. Sì, le premesse − e le promesse d'un copioso pasto − erano ottime e sapide e sapienti, d'appagare ad abundantiam e l'occhio e lo spirito. Ma...
Ma purtroppo il diavolo fa le pentole e non i coperchi. L'abnorme coacervo turco-parigino Proust-dannunziano-visconteo in salsa cinematografica risulta alla fine un po' indigesto e, al tempo stesso un po' – ah, contraddizion fatale – leggerino: indigesto lo è perché quando i riferimenti son troppi va a finire che chi guarda un po' si perde – fra tessuti damascati, pesanti e grotteschi trucchi volgarotti e mezzelune nel nulla sospese – e più non ritrova il filo di un discorso iniziato e lasciato d'improvviso nell'aria librato; leggerino, poi, perché tutta la materia – corposissima, come s'è visto – non viene di fatto approfondita, ne rimane solo una vaga superficiale esteriore ombra, come se si andasse un po' a orecchio, un po' a caso, un po' a zonzo qua e là. Ma soprattutto il regista – che dichiara e dimostra di aver letto Dumas – prova non dà però d'aver ascoltato Verdi o, se l'ha fatto, d'averlo evidentemente poco digerito. Ora, intendiamoci bene, su questo punto. Chi scrive non è per niente contrario – anzi, lo divertono molto – certe registiche "interpretazioni", invenzioni e trovatine sia pur estrose e originali: in questi anni si sono visti Gurnemanz chiudere portelli d'astronavi d'Amfortas lanciate verso le stelle, Manrico meticcio indiano attaccare fortini yankee al comando del Conte di Luna, metafisiche e patafisiche e postmoderne e pauperistiche mise en scènes; se la musica e lo spirito dell'opera non vengon tradite va tutto bene. Il problema è quando – come in questo caso – la musica tira da una parte e il regista dall'altro e lo spettatore in mezzo, come asino di Buridano, non sa che pesci pigliare. Eppure il nostro è andato anche da Zeffirelli, per farsi spiegare… Ora, non ch'io m'annoveri tra gli sfegatati fan dell'alliccato tosco, tuttavia qualcosa poteva anche dirgli, il saggio fiorentino, dargli qualche onesta dritta, guidarlo sull'ingrata strada della regia teatrale…
La maggior confusione – e a me sembra la più grave – il nostro la fa trasmigrando Margherita nel corpo di Violetta, l'essenza cioè del romanzo e del dramma di Dumas nel melodramma di Verdi: ed essi – come affermò quel tale – non son la stessa cosa. La scelta infatti di far vivere Violetta in una "cupa e languida fine di un'epoca di cui ella è simbolo decadente, ultima eroina vittima di un codice morale che sta mutando nella vita eccentrica e frizzante della Belle Epoque" – parole sue – contrappone i valori "borghesi" alla "vita eccentrica e frizzante" e lascia intuire che a causa di tale scelta muore Violetta, dopo dovuto pentimento e conversione ai suddetti valori borghesi. Questo è, per l'appunto, Dumas e la sua morale. Ben altra cosa il personaggio concepito da Verdi – ed è sua vera intuizione: l'inaspettata possibilità di una diversa scelta, quella dell'amore che redime per il fatto stesso di esistere. Non certo conversione, dunque, ai valori borghesi, né pentimento, perché di nulla più c'è da pentirsi: sarà infatti Germont – lui sì campione di virtù borghesi – a ravvedersi della sua totale incomprensione di un evento per lui letteralmente inconcepibile. Violetta, come qualcuno ha detto – e paradossalmente l'aveva intuito anche Özpetek col falso finale della sua Traviata nel citato Harem suare – a quel punto potrebbe anche non morire, la morte è solo drammatico epilogo della malattia, ma non riscatta alcunché, non è prezzo di alcuna redenzione… In questo risiede anche l'estrema novità della Traviata, la sua inaudita modernità, da cui il fiasco iniziale, il cambio d'epoca delle prime rappresentazioni, il sostanziale imbarazzo e scandalo che suscitava la vicenda e soprattutto il modo di trattare la materia. La scelta di Özpetek si compie invece nel segno d'un banalotto conformismo e impronta la sua Traviata, fin dall'inizio, a un cupo oscuro plumbeo senso di morte che accompagna l'opera − i colori le luci i costumi lo stesso trucco dei personaggi − insieme alla descrizione del vizio interpretati come l'uno conseguente all'altro; da cui discendono gesti incomprensibili alla musica, come il furtivo cambiar di mano d'una galleotta giarrettiera durante il colloquio tra Violetta e Germont, ricordo – afferma sempre il nostro – d'un passato rapporto mercenario tra i due: se ce ne fosse bisogno, ulteriore mesta prova della diversa strada intrapresa dalla regia rispetto alla partitura. Sembra mancare quasi del tutto, invece, il percorso di redenzione gratuitamente ottenuta in virtù d'amore, prepotentemente presente invece nella musica: di qui il disagio di chi guarda, che avverte potente l'ambiguo dualismo che si genera. Di Proust, più che clonarne l'atmosfera, il regista avrebbe potuto meditare sul famoso giudizio che diede dell'opera: "La Traviata va all'anima. Verdi ha dato a La Dame aux camélias lo stile che le mancava". Già.
Lo spettacolo possiede comunque, certo, un suo ambiguo fascino, nella contrapposizione del fasto delle belle sontuose scene di Dante Ferretti alle luci tenute basse per i primi due atti, quasi in leggera foschia notturna o serale, per accendersi crude e astratte a illuminare il letto di morte di Violetta immerso del buio nero dell'ultima scena. Ma tale bellezza sembra posseder vita soltanto formale, vaso di belle forme ma inconsolabilmente vuoto. Spesso spettacoli registicamente mediocri si salvano tuttavia per le virtù degli interpreti: è questo il caso del nostro allestimento, evidentemente, in cui eccellono i musici, a cominciare da un Daniele Rustioni in stato di grazia: l'ex enfant prodige, attuale direttore artistico del Petruzzelli, guida la giovane orchestra del suo teatro con grazia e personalità degne di un grande veterano. Di lui già scrivemmo in altre occasioni: in questa non possiamo che confermare la stima già altrove espressa. In generale, per i cantanti, dovrebbe ripetersi – non vorrei sembrar noioso – lo stesso discorso dualista tra musica e regia: a volte – più di una volta – l'attore sembra essere lasciato da solo a interpretare un gesto che vien fuori goffo, talora ridicolo, imbarazzante in una magari troppo accentuata postura, nel non saper trovar posto per le mani… ma quanto invece contrasta, tutto ciò, con l'interpretazione musicale, con la voce, cioè, del cantante, con la sua impostazione e interpretazione musicale! Non temo di sbagliare affermando essere questo il frutto, oltre che della personale capacità interpretativa dei singoli, anche – forse soprattutto – dell'accorta attenta acuta direzione musicale di Rustioni. Così, una e trina come si confà ad una Violetta coi fiocchi, Elena Mosuc è ciò che dovrebbe essere sempre – e molto spesso purtroppo non è – l'interprete di un personaggio dalla complessità ardua e articolata come questo: la voce della gioia, brillante e perfetta negli acuti del primo atto è la stessa della dolorosa malinconia del second'atto, per arrivare al lacerante terz'atto degli addii e della morte. Il suo Amami Alfredo – suo e del direttore e dell'orchestra – è di quelli che si ricordano, per l'intensità dell'emozione che sa creare. Francesco Demuro mostra di aver superato le incertezze vocali di qualche tempo fa, mostrando inusitata chiarezza della dizione: certo Alfredo è personaggio convenzionale – volutamente conformista – e dunque le pagine a lui affidate vanno cantate con diligenza – ed è stato fatto – ma non c'è gran che da lavorare, quanto a interpretazione. Diverso è il caso di Germont, personaggio complesso quasi quanto Violetta: Giovanni Meoni ha scelto di interpretarlo – scelta legittima come altre – con severità e rigidità che sfiora l'algidismo: la sua Di Provenza il mare e il suol riesce a donare, anche a chi l'ha sentita migliaia di volte, il brivido della sorpresa, tra repressa rabbia, necessità di comprensiva apparenza, aderenza al fiabesco ricordo d'utopia perduta. Alla fine molti applausi, a cui – nonostante quanto detto, e pur confermandolo – con convinzione unisco i miei.

 

 

 

 

La traviata
di Giuseppe Verdi
libretto Francesco Maria Piave
direttore Daniele Rustioni
regia Ferzan Özpetek
con Elena Mosuc, Francesco Demuro, Giovanni Meoni, Annunziata Vestri, Massimiliano Chiarolla
e con Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli di Bari
maestro del Coro Franco Sebastiani
scene Dante Ferretti
costumi Alessandro Lai
coreografia Luigi Neri
luci Giuseppe Di Iorio
produzione Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli
coproduzione Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli
lingua italiano con sovratitoli in italiano
durata 3h
Bari, Teatro Petruzzelli, 25 marzo 2014
in scena dal 23 marzo al 3 aprile 2014

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