“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 10 March 2014 00:00

Alcuni scorci sul concetto di male, o dell’incapacità

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Avvicinandoci al problema del male, sembrano esistere tre tipi di soluzioni: quelle intellettualistiche, quelle mistiche, quelle sociali. Nelle prime il male è un non sapere, nelle seconde un mancato assecondamento della volontà divina, nelle ultime l’accettazione di un potere nemico.  Sembra che non sia possibile una visione che abbracci insieme esistenza e politica, vita e società, proprio come se una persona, studiando un panorama molto esteso, dovesse guardarlo da diversi punti di osservazione e potesse avere una visione totale solamente operando la somma di visioni parziali, mettendo vicino questi pezzi per dare il senso di completezza che esiste ma sfugge al colpo d’occhio ‘totale’. Tuttavia si può rintracciare un concetto comune in cui il male sarebbe una sorta di incapacità.

In Socrate il male è uno stato di inconsapevolezza e di ignoranza, una carenza di lucidità intellettuale e di virtù. Anche nel cristianesimo il peccato è simile ad un buio dell’anima. La frase: “perdona loro perché non sanno quello che fanno”, che non esclude un’idea di castigo divino come purificazione dal male dentro l’anima di chi lo ha praticato, richiama il concetto socratico di male.
In Hannah Arendt il male è una mancanza di riflessione, una stupidità che, innocente o meno che sia, è libera scelta e ha una precisa responsabilità morale: aver trascurato di pensare, aver trascurato che il bene è profondo e occorre uno sforzo di pensiero per essere certi di farlo. Pensare porta quindi al bene. Anche questa posizione non si allontana da quella socratica.

E Dio? Entra mai nel bene umano? Alcuni cenni sulla blasfemia e sul cinismo
Solo a partire da Dostoevskij Dio entra seriamente a fare parte del problema della esistenza del male sulla terra. L’inquisitore sa che Dio, pur potendo evitare il male sulla terra, non l’ha fatto. Oppure, forse, questo uomo di Chiesa non ha una teoria che giustifichi il male, e considera Cristo come il portatore di idee di libertà pericolose, inette a stabilire ordine e pace sulla terra. Così egli pensa che l’Inquisizione sia superiore a Dio nello stabilire il bene, che sia meglio costringere che lasciare liberi dato che, sotto gli occhi di tutti, i cattivi risultati portati dalla libertà sono evidenti: solo sangue e guerre. Da questo momento Dio sarà accusato da più parti. In Camus, il vero grido di giustizia e di bene è una rivolta contro Dio, una dichiarazione di blasfemia.

E Dio? Quale è il suo potere? Una teoria che ci meraviglia
Secondo il teologo contemporaneo Jacques Maritain, Dio ha due poteri: il potere infinito della conoscenza di tutte le cose e il potere finito di agire sugli eventi umani. Questa è una cosa veramente ambigua da un punto di vista filosofico, in quanto in questo ambito la finitezza è ammessa solo come sinonimo di imperfezione. Il potere finito si manifesta come possibilità di influire solo sulle azioni volte al bene, ed è finito proprio perché non può invece agire dove l’uomo ha scelto liberamente il male. Il male nell’uomo si presenta come capacità di agire il nulla o nullificare il bene che sempre abita in noi

O Dio è un’attesa interiore? La teoria dell’attesa
Nella sfera della nostra possibilità di azione, il male è sonno, impossibilità di vivere in modo che la nostra azione non separi noi stessi dalle sofferenze degli uomini. Il bene è il libero atto di volontà che obbliga a conformarsi alla legge morale, è l’azione conforme alla volontà che ordina, come in Kant, di agire “sempre in modo che la massima del tuo atto possa essere eretta a legge universale”. Quindi le nostre buone azioni deriveranno dalla comprensione delle sofferenze del prossimo. Dubitare della legge morale è impossibile, è come dubitare di sé. Dio ha dato la possibilità di illusione ed errore affinché avessimo la possibilità di rinunciarvi per amore. La salvezza invece è attesa del bene comandato da Dio, non ha bisogno di una ricerca attiva di virtù. Rivoluzionario è in Weil il concetto di sventura, la cattiva sorte portata dalle circostanze della vita: è una meravigliosa tecnica divina, un dispositivo semplice ed ingegnoso che infligge nell’anima della creatura le forze brute e cieche, affinché a chi persevera nell’amare la vita o Dio o il prossimo, si apra un varco verso Dio. Il peccato sta nell’arrendersi, nel lasciarsi travolgere come tegole divelte dal vento e cadute a caso. Il male è obbedire alle leggi meccaniche senza vedere che queste obbediscono a Dio. L’unica libertà è decidere se obbedire, continuando ad amare, o obbedire senza amare.
La prima rinuncia è quella operata da Dio. “Dio insieme alla creazione è meno di Dio da solo”. Dio ha rinunciato a una parte di essere trasfondendola nella creatura. Così dobbiamo fare noi esseri umani. L’antipersonalismo di Simone Weil somiglia alla teologia negativa del mistico medievale Eckhart. Se annulli te stesso, se la tua anima aderisce al bene impersonale, sei santo. Questo significa non essere attaccati a niente, non solo al proprio io, ma neppure al proprio distacco. In Simone Weil Dio può operare solo nella parte dell’anima che già comunica con lui. Siamo di fronte a un Dio che nulla può se noi non ci predisponiamo ad ascoltarlo. La sventura e l’infelicità individuali sono un contatto doloroso con Dio, un contatto imperfetto dal punto di vista dell’uomo, in quanto anche il male è misericordia secondo un fine. Nell’opera di creazione Dio si annulla e rinuncia al suo potere, per renderci simili a lui, e non inferiori. Dio ha rinunciato a se stesso donandosi nella materia inerte. La rinuncia a se stesso è il vero atto di amore. L’essere in cui si manifesta la nostra libertà è solo un poter essere obbediente, perché la necessità è la sostanza del creato, un ordine che non ammette una potenza di ribellione e di rivolta nelle azioni. Il concetto di sventura è cruciale per capire cosa siano il bene e il male. La capacità unica di provocare dolore che possiede la sventura apre le porte all’unico atto di libertà, permettendo di assecondare l’evento negativo senza perdere la capacità di amare dentro la propria anima, tanto da poter essere considerata come una grazia.
A livello politico, l’unica azione virtuosa si riduce ad essere la carità, consistente nel dare la piena dignità del nostro essere a chi soffre una cattiva sorte, trasfondendo in lui la capacità di amare. La politica come insieme di azioni collettive volte a dare libertà di parola ad ognuno, è assente. La vera giustizia è non politica, in quanto la politica può prevedere solo rapporti di superiorità o subordinazione. Le leggi che proteggono i deboli non sono che elemosina, azioni in cui è confermato un rapporto di dominio. La sventura che si accetta, che si ama. È un battesimo con Dio. La sventura è la possibilità della croce. Non esiste nessuna buona attività umana che non sia legata alla pratica di compassione, compartecipazione alla sventura. La vita sociale non può essere separata da quella religiosa. La risposta di Dio alla domanda dello sventurato, che è quella di Cristo stesso, “Dio, perché mi hai abbandonato?”, è il silenzio, pura armonia in cui abbiamo Dio nel cuore. La cattiveria è la tentazione, insita nella sventura, che permette allo sventurato di diventare cattivo, acconsentendo questi a soffrire di meno. L’ottusità verso la sofferenza, che porta alla cattiveria, è un semplice fuggire dalla sofferenza e dal dolore. Questo è il male.

O Dio è silenzio, contemplazione della mancanza dei modi?
In Eckhart, Dio abita l’anima, quell’anima comune a tutti gli uomini e che non ha nulla a che vedere con l’individualità e la sua esistenza. Dio è pura interiorità e quindi questo pensatore non si pone nemmeno il problema del suo potere nelle azioni delle creature che sono esse stesse il male. L’essere umano può uscire dal male uscendo dal suo guscio di creatura. Nella pura divinità non v’è assolutamente alcuna attività. Dio è un deserto meraviglioso che si può definire solo in negativo come mancanza di modi, di io, di cose.

Il male è non riuscire a opporsi?
Cerchiamo di affrontare, adesso, problematiche di carattere più sociale. È assai difficile, aprioristicamente e moralisticamente, delineare ciò che è bene e ciò che è male nella società. Si tratta ancora una volta di sondare le sottili interconnessioni fra società e potere e di indagare le modalità in cui il potere si dirama nelle strutture sociali. Ci possono aiutare, in questo senso, gli studi di Michel Foucault sui meccanismi di potere e di controllo all’interno della società. Il controllo disciplinare tende a colpire dall’alto chi non si conforma ad esso; inoltre tende a colpire chi è diverso da uno standard che lo stesso potere del controllo diffonde nella società: colpire il diverso da sé, quindi, per mezzo dell’esclusione. Anche se Foucault non lo afferma esplicitamente, sembra lecito pensare che il male si possa identificare con questo meccanismo di controllo ed esclusione del “diverso”. Da questa deduzione segue di necessità che è male, innanzitutto, non considerare affatto il diverso, non prendersi cura di lui. Il meccanismo di esclusione nasce dall’indifferenza, dal rifiuto iniziale di capire il “diverso”. Come osserva Foucault in Storia della follia nell’età classica, è dal Medioevo e, poi, dal Rinascimento, che il folle viene escluso, allontanato, internato (si pensi alla pratica delle “navi dei folli”) senza che si riesca a capire. È solo con la fine del XVIII secolo che, nota Foucault, il folle viene “liberato” dall’internamento (“Il folle è ormai completamente libero e completamente escluso dalla libertà. Un tempo era libero nel momento breve in cui cominciava a perdere la propria libertà; ora è libero nel largo spazio dove l’ha già perduta”, Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1979, p. 586). Viene liberato metaforicamente perché esso comincia ad essere studiato, “oggettivato”, dice Foucault. Si tratta di una libertà “oggettiva”: “il pensiero psichiatrico del XIX secolo cercherà la totalità del determinismo e tenterà di definire il punto di inserimento di una colpevolezza” (ibid.); “Il folle del XIX secolo sarà determinato e colpevole; la sua non-libertà è più intrisa di colpa della libertà con cui il folle classico sfuggiva a se stesso” (ibid.). Quindi, il folle viene ‘liberato’ perché viene studiato, non è più un qualcosa di sconosciuto; però, venendo studiato, viene ricoperto di altre colpe, è reso maggiormente colpevole.
Se in età classica – dice Foucault – il folle era folle e basta, un essere sconosciuto e mostruoso da allontanare ed escludere, nel XIX secolo egli diventa un oggetto di studio e di classificazione ed ogni tipologia di follia ha una sua colpa ed una punizione. Ed ecco quindi la nascita di una nuova struttura, il manicomio moderno (suddiviso per tipologie: manicomio criminale ecc.). L’incapacità di comprensione del diverso, del folle, all’interno della società, forse, è stata rappresentata nel modo più limpido e poetico dal film Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij. Il personaggio di Domenico, un ex internato in manicomio, è deriso e scansato da tutti gli abitanti del piccolo paese toscano. Nessuno si sforza di comprendere il personaggio né tantomeno di instaurare una dimensione dialogica con lui. Sarà solo uno straniero, lo scrittore russo Gorčakov, ad avvicinarsi e, gradatamente, a comprendere il folle. La comprensione, però, implica un sacrificio: il russo, alla fine, immalinconito dalla sua nostalgia per la propria terra lontana, pagherà con una morte catartica il prezzo di essersi spinto nella comprensione della ‘sacralità’ del folle. Il sacro, qui, rappresenta la dimensione più autentica: una sorta di realizzazione di una convivialità, nel senso dato a questa parola da Ivan Illich. Comprensione, convivialità, integrazione, mescolamento; il potere sembra incapace di tutto ciò e anche i tessuti sociali della società stessa. Nella società non c’è volontà di comprensione; solo, in rari casi, a prezzo di sacrifici.
Tornando alla nostra riflessione sul male si può pensare, quindi, che esso striscia silenzioso nella società perché dall’età classica (nel senso che Foucault dà a “classico”) a quella moderna non si è, forse, mai capito veramente il diverso, l’escluso. Le strutture sociali non riescono o non vogliono comprendere e si limitano ad allontanare ed escludere. Il male quindi è non riuscire a capire? Non dedicarsi anima e corpo alla comprensione? Perché il potere e i suoi meccanismi non riescono a capire? Le connessioni fra potere e controllo disciplinare sono piene di incomprensioni: punizioni date senza motivo, incarcerazioni di innocenti (e, all’interno del meccanismo del carcere, mancanza di libertà, negazioni di permessi premio, di agevolazioni dei detenuti perché il potere non riesce a capire fino in fondo), errori di valutazione ecc. Il potere non si sforza di capire bensì subordina tutto al meccanismo del controllo. Ma non solo il potere non capisce. L’incomprensione si manifesta nella società anche a livello trasversale. La pratica dell’incomprensione si diffonde a livello sociale, a livello massificato. Se il potere è superficiale, se esso si manifesta come tale (ricordiamo le numerose manifestazioni, anche nella recentissima situazione politica italiana, di superficialità e incompetenza, come telefonate per favorire protetti e amici da parte di ministri e di presidenti del consiglio), non dobbiamo stupirci se ci troviamo di fronte ad una superficialità e ad una sciatteria diffuse. I modelli imposti dall’alto sono quelli dell’incomprensione, della superficialità, dell’ignoranza; tali modelli, forse, vengono subdolamente trasmessi tramite poteri codificati di controllo delle masse (subordinati alla struttura di accumulazione capitalistica). Non solo e non più attraverso la pubblicità e la televisione (come affermava lucidamente Pasolini) ma, ancora di più, attraverso internet e i social network, che sono inondati dalla superficialità, dall’incapacità di attribuire il giusto peso e l’importanza alle parole dette. La parola è importante, è meccanismo e vettore di controllo, di potere, ma anche di libertà. Se la superficialità e l’incapacità di non comprendere sono una colpa, quest’ultima si trasforma in meccanica di Male dal momento in cui ad esercitare questa incapacità è appunto una struttura di Potere. Questa incapacità di capire, questa volontà di non capire non per stupidità ma per ottusità, si presenta quindi come una sorta di meccanismo dominato da una sorta di malvagità necessaria, inerente appunto alla sovrastruttura economica del capitalismo.
La nostra società rispecchia questa ottusità del potere: le proteste per i tagli, per i licenziamenti, per le strutture sociali inesistenti da parte dei cittadini nei confronti dello Stato mentre quest’ultimo se ne sta arroccato nella sua torre d’avorio che se ne lava le mani. Questo è il male: un trovare sempre nuove sovrastrutture da parte del potere (come ha mostrato Foucault per i controlli dei diversi) per controllare e giudicare vari fenomeni sociali invece di liberarsi di tutte le sue incrostazioni malvagiamente ‘burocratiche’ e ‘tecniche’ col fine di comprendere veramente. Ad esempio, non capire che se non ci fosse la struttura punitiva delle guerre giuste non esisterebbe una nuova categoria di diversi e di ‘folli’ da eliminare, i terroristi. Gli uomini di stato, di governo, di potere decisionale a più livello, operano quindi il male nel non fare, nel non agire; nel dimostrarsi tanti burattini manovrati dalla sovrastruttura capitalistica (alla quale sono subordinate le strutture di potere); nel fare parte di una sorta di mondo incantato in cui dominano trasversalmente le necessità del denaro e del lavoro che hanno per fine solamente il valore della merce. Come osserva il filosofo tedesco Anselm Jappe, “la crisi non colpisce in primo luogo i settori ‘inutili’ dal punto di vista della vita umana, ma quelli ‘inutili’ dal punto di vista dell’accumulazione del capitale. Non si ridurranno le spese per le armi, ma quelle per la salute – e una volta che si è accettata la logica del valore, protestare contro tutto ciò è abbastanza incoerente” (A. Jappe, Credito a morte, ora in Id., Contro il denaro, trad. it. Mimesis, Milano, 2013, p. 60).
Il male viene altresì rappresentato in forme estreme ed allegoriche dal già evocato Pier Paolo Pasolini. Basti pensare al film Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975) in cui il male si identifica con un regime totalitario che manovra le coscienze, diffusosi capillarmente nella società. I repubblichini di Salò che torturano le loro vittime rappresentano metaforicamente il potere della nuova società dei consumi. Salò, quel luogo atroce delimitato da una villa, diviene la metafora dell’Italia divenuta non luogo, devastata, nell’ottica pasoliniana, dal potere livellatore delle coscienze. Il male estremo è l’assuefazione, il lasciarsi sopraffare, il non riuscire a comprendere e a comprendersi. Una superficialità, un’ignoranza, una sciatteria che prepara nuovi inferni. In Petrolio, invece, alla fine di una visione infernale di matrice dantesca, la città di Roma, vista dall’alto, assume la forma di una gigantesca croce uncinata, allegoria di una società completamente asservita al meccanismo del consumo, struttura fondante del capitalismo postmoderno.
Si tratta, quindi, di riuscire a comprendere – da parte degli uomini di potere ma anche e soprattutto da parte nostra – a livello trasversale; di ragionare, di dare il giusto potere alla parola, all’azione quotidiana, anche quella più insignificante. Si tratta di non accettare passivamente logiche esistenti ma di metterle continuamente in discussione, di comprendere logiche, studiarle e, come un abile giocatore di scacchi, logorarle lentamente. In una parola, si tratta di riuscire finalmente a pensare e a farlo in modo “giusto”, come, sulla scorta socratica, affermava la Arendt. Forse, allora, piano piano, il meccanismo di questo male di tipo sociale riuscirà ad incepparsi.
Non saper resistere alla sventura, al controllo del potere, alla pigrizia del non voler pensare, non sapere annullare la nostra individualità, non poter conservare l’essere ma desiderare il nulla, sono tutte forme diverse di incapacità che derivano da una carenza nel nostro stesso essere. Il concetto di incapacità è trattato sempre a livello giuridico, e fino ad ora non ha avuto una profonda trattazione filosofica. Questa riflessione lancia un piccolo sasso come speranza per il futuro.

 

 

 

Hanna Arendt
La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme
traduzione a cura di Piero Bernardini
Milano, Feltrinelli, 2013
pp. 320

 

Albert Camus
L’uomo in rivolta
traduzione a cura di Sergio Morando
Milano, Bompiani, 2012
pp. 346

Fëdor Michailovic Dostoevskij
I fratelli Karamazov
traduzione a cura di Agostino Villa
Torino, Einaudi, 2005
pp. 1033

Meister Eckhart
La nobiltà dello spirito
a cura di Marco Vannini
Milano, SE, 2011
pp. 158

Michel Foucault
Storia della follia nell’età classica
traduzione di
Milano, Rizzoli, 1979
pp. 566

Ivan Illich
La convivialità. Una proposta libertaria per una politica ai limiti dello sviluppo
traduzione a cura di Maurizio Cucchi
Milano, Boroli, 2005
pp. 142

Anselm Jappe
Contro il denaro
Milano, Mimesis, 2013
pp. 62

Jacques Maritain
Dio e la permissione del male
traduzione a cura di A Ceccato
Brescia, Morcelliana, 1995
pp. 104


Pier Paolo Pasolini
Petrolio
a cura di S. De Laude,
Milano, Oscar Mondadori, 2005
pp. 654

 

Simone Weil
Attesa di Dio
a cura di Maria Concetta Sala
Milano, Adelphi, 2011
pp. 350


Ead.

La persona e il sacro
a cura di Maria Concetta Sala
Milano, Adelphi, 2012
pp. 72

Ead.
Il bello e il bene
a cura di Rolando Ravello
Milano, Mimesis, 2013
pp. 54

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