“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 24 February 2014 00:00

10 Accendini Neuro

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(storia mal raccontata di un personaggio che in gioventù era chiamato Uanem’ ‘e Jeppson)

Non andavo di fretta quel giorno e nei miei occhi, sono sicuro, brillava una luce particolare. Ne sono sicuro soprattutto per un motivo: quel giorno lì, per una serie di coincidenze terrene favorevoli, non dovevo correre in su e in giù per tutta la città al fine di racimolare quello che solitamente mi serve per pagare l’affitto, bere e mangiare (l’ordine non è puramente casuale, la casa è al primo posto, perché per la strada, c’ho provato, creperei dopo troppo poco tempo e in definitiva c’ho ancora voglia – di campare si intende, al secondo posto metto il bere, la trovo un’attività che non soltanto regala bei momenti, anche brutti chiaramente, ma che dà anche il suo apporto organico di calorie, non fa sentire freddo e a volte sembra che sazi, infine mangiare soltanto al terzo seppur onorevolissimo posto perché mangiare veramente e mangiare bene costa, e non era quello il periodo in cui me lo potevo permettere).

Non andavo di fretta quel giorno e mentre mi guardavo di qua e di là e inseguivo con lo sguardo
1) un piccione grigio e bianco inseguito da un enorme gabbiano bianco e grigio e
2) una lattina accartocciata inseguita involontariamente dal piede di una signora troppo malinconica per quella giornata,
mi si para dinanzi, in quel tratto di via Roma dove campeggia insopportabile, fascista e pieno di sé il Banco di Napoli (che poi, vedrete, c’entra eccome con la nostra storia), 10 Accendini Neuro, il quale mi fissò e mi disse 10 Accendini Neuro. Io (non so perché, tanto più che lo incontro praticamente tutti i giorni) rimasi impietrito, ma dissi qualcosa che si può riassumere in ‘no’. La sua faccia era quella di sempre, come pestata a sangue. I lineamenti erano decisi ma come scompaginati e poi rilegati in un secondo momento. Per me, ad esempio, c’era qualcosa che non andava con gli occhi e il naso, il sommo rilegatore deossiribonucleico doveva aver sbagliato qualcosa, l’occhio destro era troppo in alto e di un’espressività non adatta a un uomo del nostro XXI secolo, e poi come faceva a respirare con quel naso contorto non saprei proprio dirlo. Fatto sta che campava da decenni. In quel momento lo guardai con ancora più attenzione, doveva essere stato rosso in passato. 10 Accendini Neuro era comunque senza capelli, o per meglio dire una sorta di lanugine chiara gli copriva la testa e appena un po’ più dura gli copriva il volto come pestato a sangue. Quel giorno aveva proprio una brutta cera, le occhiaie a fatica si tiravano su insieme allo sguardo quando qualcuno gli passava di lato e disgustato lo guardava mentre 10 Accendini Neuro diceva 10 Accendini Neuro. Poi mi accorsi che si era pisciato sotto non troppo tempo prima, un alone restava sulla patta dei pantaloni, compresi alcuni rivoli che resistevano al clima secco e che pallidi continuavano a rigare il vecchio pantalone della Mike (sì “Mike” non “Nike”, tranne che per questo piccolo particolare, una tuta “Mike” sembra essere del tutto uguale a una tuta “Nike”). 
Io mi trovai all’improvviso dinanzi a un bivio (parlo metaforicamente): continuare la mia passeggiata e raggiungere la meta della mia uscita (non andavo di fretta, ma purtroppo stavo andando in un posto preciso a fare una cosa precisa) oppure avere l’occasione più unica che rara di interrogare, intervistare, ragionare, semplicemente parlare con 10 Accendini Neuro per il puro gusto di sentire cosa avesse mai da dire e se sapeva dire qualcos’altro oltre 10 Accendini Neuro. La scelta era tra:
1) Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti (ma questa è un’altra storia, intendo il perché mi dovessi dedicare a Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti) e
2) 10 Accendini Neuro.
Pensai che quell’uomo che girava con un cartone con dentro preziosamente incastonati accendini di tutti i colori (e, ovviamente, a stento uno su dieci funzionante) e che pronunciava una litania acre e fastidiosa dicendo continuamente, incessantemente, proditoriamente sempre e soltanto “10 Accendini Neuro”, potesse chiarirmi di più le idee sulla questione meridionale che non i buoni Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti. Ovviamente, era una excusatio non petita, in poche parole una cazzata: semplicemente avevo voglia di non fare niente e 10 Accendini Neuro era la scusa ideale. Insomma, dopo averlo superato, mentre lui acchiappava gli accendini che gli cadevano da tutte le parti, mi voltai e gli dissi “vuoi un caffè?”, 10 Accendini Neuro era stato tentato di rispondere dicendo 10 Accendini Neuro, ma non fu così, la bocca si aprì, un paesaggio in frantumi mi colse impreparato come un racconto postmoderno di David Foster Wallace, poi si richiuse, aggrottò il lobo frontale, ispessì la sua capacità valutativa, annuì grugnendo e grugnì annuendo. Io intanto ero deciso, anzi convinto della scelta, ma mi chiedevo:
1) dove andare a prendere un caffè con 10 Accendini Neuro che puzzava di acido urico incrostato?
2) dove andare a prendere un caffè se non al Gambrinus? Quando sono di buon umore, ho sempre voglia di rompere le palle a qualcuno o qualcosa di art nouveau.
Mi accorsi, quando avevamo già attraversato tutto il tratto restante di via Roma, che non avevo nulla da dire a 10 Accendini Neuro. Del resto cosa chiedere a chi dice soltanto (e parlo di anni, lo ricordo che ero poco più che bambino) 10 Accendini Neuro? La mia curiosità da lustri a questa parte verteva su chi gli desse gli accendini da vendere, ma non mi sembrava un buon modo, cortese e cordiale, di dare inizio alla conversazione, tanto più che una risposta l’avevo ed era plausibile: li raccoglieva da terra. Chiedergli perché avesse scelto quella vita poi poteva essere controproducente; del resto chi può sostenere di aver scelto di nascere e vivere con la faccia pestata e spappolata, con occhio destro e naso deforme, vendendo accendini e dicendo soltanto "10 Accendini Neuro"? Nessuno, ma, mentre un grido di qualcuno mi fece sussultare (una vecchia donna se la prendeva con il suo cane), pensai che forse 10 Accendini Neuro aveva proprio scelto. Nessuna biologia rinunciataria o concordataria, soltanto il mito della libertà umana. Una ragazza poi mi sorrise di lontano, mi sembrava bella ma da quella distanza vedo (direi) male, e poi stupita continuava a guardare 10 Accendini Neuro che aveva deciso (non so perché) di camminare stretto stretto a me. L’importante è che fu proprio 10 Accendini Neuro a togliermi dall’impasse. Mi grugnì se avevo visto la partita del Napoli e se ero contento che avevamo fatto il culo al Milan. Io in realtà colsi soltanto tre parole, come venute fuori da un vecchio Luna Park in disuso o da una vetrina di Amsterdam, le parole erano ‘Napoli’, ‘Milan’, ‘culo’. Quando si nasce e si pasce (in un modo o nell’altro) a Napoli quelle tre parole, nel sistema di significanza e di metrica del nostro dialetto, possono collegarsi soltanto in un modo. Io la partita non l’avevo vista ma i gol sì, e una vittoria con il Milan è sempre una buona notizia (in attesa della rivoluzione e della palingenesi, è ovvio), del resto il calcio mi piaceva, ma soltanto quello vecchio, quello eroico, quello genuino, quello dei calciatori che hanno fatto la Storia e che la Storia ha fatto per farsi fare, non mi piaceva ovviamente Cristiano Ronaldo, con o senza Pallone d’Oro, non mi piacevano Sky, Mediaset, etc., non mi piacevano i miliardi (soprattutto quelli che non avevo e che avevano invece Cristiano Ronaldo, Messi e gli ominicchi del calcio mondiale), amavo invece Enrico Ameri e Sandro Ciotti, le parate di Lev Yashin, i tempi in cui la Stella Rossa Belgrado vinceva la coppa dei campioni, i tempi in cui si era campioni e non champions. Insomma quando il calcio non assicurava i miliardi (e qui potrei continuare il mio consueto e un po’ moraleggiante pippotto sui rapporti tra capitalismo e pallone) e Garrincha moriva di cirrosi epatica nel degrado di una favela brasiliana, dopo aver incantato il mondo grazie alle sue eccezionali deformazioni fisiche. Gli dissi di sì, che sì ero contento che il Napoli aveva fatto il culo al Milan e che quando il Napoli fa il culo al Milan e alla Juve sono sempre contento, calcisticamente e politicamente parlando (in quei tempi, politicamente, bisognava proprio accontentarsi!). 10 Accendini Neuro non seguì la mia risposta, già stava pensando ad altro e si era seduto sul bordo del marciapiede e cercava di districare la matassa dei lacci delle scarpe. Notai immediatamente che le scarpe erano di almeno due numeri più grandi del suo piede e ammetto anche che non lo aiutai a farsi i lacci, ma che aspettai allegramente sperando nel disgusto della gente che mi passava di fianco mentre appoggiavo la mia mano amichevole sulla spalla ritorta e curva come un alambicco di 10 Accendini Neuro. Come coppia facevamo una gran bella figura e se ne accorsero tutti quando entrammo al Gambrinus. Un cameriere in livrea ci chiese (in maniera artnouveauscamente affettata) se preferivamo accomodarci fuori, il tempo era mite e all’aperto, ci assicurava, si stava proprio bene. Io risposi seccamente di no, che preferivamo stare dentro perché avevamo bisogno di intimità per parlare di alcuni affari importanti e così in quel momento (sono un uomo malato, è chiaro) mi venne la voglia (chiaramente infantile e stupida) di rompere un po’ le palle al Gambrinus e alla sua clientela, facendo sedere su poltroncine art nouveau una sorta di barbone (ma non viveva per strada, mi raccontò un amico, mentre gli raccontavo questa storia) che puzzava di piscio almeno a tre metri di distanza e che non aveva più alcuna intenzione di vergognarsi nella vita.
Ci sedemmo, chiesi allegramente due caffè e feci come un cenno di comprensione al cameriere mentre 10 Accendini Neuro raccoglieva i suoi accendini che erano cascati giù dalla scatola in cui li teneva incastonati, il cameriere rispose con un cenno (quasi) cordiale e avrà creduto che chissà quale fosse il motivo per cui eravamo lì, avrà pensato di aver fatto addirittura un buon gesto a lasciarci sedere e magari avrà avuto anche lui una piccola storia da raccontare, qualora ne avesse avuta la voglia. Ecco: questo appunto sentimentale è la seconda cazzata del mio racconto. Dopodiché scoprii con incredibile stupore che 10 Accendini Neuro non soltanto sapeva dire qualcos’altro che non fosse 10 Accendini Neuro, ma che addirittura sapeva raccontare una storia, precisamente la storia della sua vita. La storia che riguardava una partita di calcio, la più importante di tutte (almeno per lui) e Hasse Jeppson.
10 Accendini Neuro si fece paonazzo e io rimasi a bocca aperta (in senso lato) a osservarlo mentre, con grande fatica e impegno, cercava affannosamente le parole sensate con cui raccontare la sua storia. Uanem ‘e Jeppson e ‘o Banc ‘e Napule furono le prime parole che colsi, poi gli dissi che non capivo, che conoscevo a stento Jeppson e che soprattutto non capivo cosa c’entrasse. 10 Accendini Neuro ebbe come un’illuminazione, il suo volto si irradiò di una strana luminosità diffusa e i chiaroscuri delle luci basse del Gambrinus facevano di lui una sorta di presenza faustiana (ovviamente questa similitudine oscena è la terza cazzata del racconto). Poi cominciò a parlare in maniera razionale, qualcosa si era rimesso a funzionare e a me sembrò di sentire uno scrocchio nella testa di 10 Accendini Neuro, ma forse era soltanto un rumore strutturale del telaio della poltroncina dove il nostro eroe, alle prese con la costruzione razionale di un ragionamento, si contorceva. “A me mi chiamavano Jeppson quando giocavo a pallone”, disse 10 Accendini Neuro. Io rimasi stupito, Jeppson aveva giocato nel Napoli (se non mi sbaglio) negli anni ‘50, quindi 10 Accendini Neuro doveva essere stato un ragazzo (era stato dunque un ragazzo?) negli anni ‘50, negli anni ‘60 al massimo e non oltre. Non sapevo cosa rispondergli mentre lui conficcava i suoi occhi ora stranamente espressivi sul mio volto. “Ah! giocavi a calcio?” riuscii a dire, “eri un attaccante, vero?” La buttai lì piuttosto banalmente, era ovvio che se lo chiamavano Jeppson, 10 Accendini Neuro era stato un attaccante. È caduto ‘o Banc ‘e Napule, è caduto ‘o Banc ‘e Napule, cominciò a dire con voce alta ed eccitata, una signora con uno strano cappellino di pregevole quanto brutta fattura si girò a guardarci, io feci un cenno con la testa tirando contemporaneamente su l’arcata sopracciliare e lei rispose cordialmente con un’impostazione facciale che lasciava intendere grossomodo queste parole: portate pazienza. “Io giocavo nei Quartieri Spagnoli ed ero l’attaccante più forte di tutti quanti”, e poi mi fissò di nuovo. Ancora una volta non sapevo che dire, ma fortunatamente fu quello il momento in cui la storia cominciò a prendere corpo e scoprii in 10 Accendini Neuro doti inaspettate di narratore.
Negli anni ‘60 nei Quartieri Spagnoli, questo mi è sembrato di capire, si organizzavano partite di calcio e veri e propri tornei tra le varie zone che compongono il reticolato del quartiere. 10 Accendini Neuro era un mio compaesano ante litteram, faceva parte della squadra di Montecalvario, la zona nella quale vivevo all’epoca. “Ero il più forte di tutti quanti”, ripeteva di tanto in tanto, “ero il più forte di tutti quanti” ma poi aggiunse la frase più importante: “mi hanno scassato le cosce”. La prima volta che lo disse, lasciai perdere, poteva anche essere un modo di dire come a intendere che non l’hanno fatto giocare più o che gli facevano sempre fallo o cose del genere. Mi spiegò che lo chiamavano Jeppson, anzi Uanem ‘e Jeppson come si diceva nei ben poco favolosi anni ‘50 e ‘60 partenopei, perché proprio come il bomber svedese era capace di segnare gol incredibili e di sbagliare delle occasioni almeno altrettanto incredibili, se non di più.
La finale del torneo di calcio dei Quartieri Spagnoli del ‘67 si giocò tra il Montecalvario e Salita Magnocavallo (l’odierna via Girardi), una sorta di derby pensai, sono due strade parallele, separate soltanto da qualche metro di vicolo longitudinale. Gli chiesi dove si disputavano questi incontri ma non ebbi risposta, il suo gesto feroce di stizza (pensai che volesse azzeccarmi uno schiaffone) fu a tal punto eloquente che non lo domandai più. Insomma, 10 Accendini Neuro aveva segnato due gol in quella partita, uno in sforbiciata quasi dalla linea di fondo (mentre me lo raccontava e mimava rischiò seriamente di finire lungo disteso a terra, ma la poltroncina art nouveau aveva base larga e solida e nonostante 10 Accendini Neuro si fosse eccessivamente sbilanciato mantenne – la poltroncina – stoicamente l’equilibrio evitando che il nostro eroe si frantumasse sul pavimento art nouveau), il secondo gol era stato invece un tiro da lontanissimo (non mi seppe dire 10 Accendini Neuro quale fosse grossomodo la distanza, ma la intuii dal suo gesticolare frenetico, dal suo rincorrere con lo sguardo spazi infiniti e dalla soddisfazione orgasmica del suo volto). Mi congratulai con lui e gli dissi (ora che ci penso in maniera un po’ indelicata) che non me l’aspettavo. 10 Accendini Neuro non faceva neanche caso ai miei interventi e glosse sulla sua narrazione, oramai era preso e vivo, ed io, nonostante il mio cinismo, ne fui contento, per poco ma ne fui contento. “Poi mi hanno scassato le cosce”, disse ancora una volta e ancora una volta divenne pensoso e involuto. Di sottocchio guardavo intanto il cameriere in livrea che faceva di tutto per drizzare le orecchie e capire bene di cosa stessimo parlando. Io gli sorridevo di tanto in tanto (è il mio modo per sembrare persona cortese e a modo) e lo invitai a sedere con noi, con un morbido e anch’esso in livrea gesto della mano, ma il cameriere in livrea, con tutto il corpo, indietreggiando e muovendo in maniera insulsa le mani dinanzi al petto, mi fece capire che la risposta era un timoroso no no. “Ma che significa che ti hanno scassato le cosce?” chiesi a un certo punto, anche perché lo stato di quasi disperazione in cui era caduto 10 Accendini Neuro mi turbava e poi il caffè era finito da un bel po’ e dovevo andare a dedicarmi a Francesco Saverio Nitti e Gaetano Salvemini. “Io facevo sempre due gol a partita e me ne mangiavo almeno altri tre, tutti pensavano che li sfottevo quando sbagliavo, ma io ero fatto così, la cosa se non era difficile non mi piaceva, nella mia vita ho sempre pensato questo”. Lo sforzo per portare a termine questo ragionamento con tanto di insegnamento di vita lo aveva prostrato, fece una pausa interminabile, io manco a dirlo non sapevo come ravvivare la chiacchierata e soprattutto non sapevo cosa fare per andarmene. 10 Accendini Neuro intanto guardava di qua e di là e giocherellava con alcuni peli del dorso della mano sinistra, “e che dribbling che facevo, alla faccia di Magnocavallo, chilli strunz’”, mormorava di tanto in tanto. “Gente di merda”, riprendeva poi, sforzandosi di usare la lingua nazionale, “non te la fare mai con loro, tu sei un bravo ragazzo, un poco fesso pure, secondo me, non te la fare mai con loro, gente di merda”. Mi accorsi all’improvviso che la mia gamba tremava profondamente da sotto il tavolino, ero stranamente teso e non perché mi avesse chiamato fesso, non potevo in un certo senso dargli torto, ero come angosciato, un groppo alla gola mi si formò inaspettatamente e il caffè cominciava a bruciarmi nello stomaco.
In poche parole, gli abitanti di Salita Magnocavallo non avevano apprezzato la prestazione di 10 Accendini Neuro, quando ancora non si chiamava così ma Uanem’ ‘e Jeppson. Lui voleva fare il calciatore perché era forte, il padre l’aveva detto che lui era forte e il padre non si sbagliava mai. Lo presero un giorno, lo portarono in un vicolo, gli spezzarono tutte e due le gambe, gli dissero che in cambio gli avrebbero trovato lavoro. Questo più o meno ho ricostruito. Il momento più tragico (ricordo ancora lo sguardo incredulo del cameriere in livrea e della signora con lo strano cappellino di pregevole quanto brutta fattura) fu quando Uanem’ ‘e Jeppson mi mostrò aggrovigliando il pantalone della tuta Mike le cicatrici sulle gambe. Tra le croste da vecchio eroinomane sopravvissuto e quelle di sporcizia vedevo alcuni segni profondi. Qualcosa gli era successo veramente alle gambe. Da quel momento i ragazzini mi sfottevano “‘è caduto ‘o Banc ‘e Napule! è caduto ‘o Banc ‘e Napule’ poi sono caduto con la capa nella robba”. “La capa nella robba?” chiesi meravigliato e felicemente stupito da quella bella immagine. Il cameriere in livrea stava parlottando già da un po’ con la signora con lo strano cappellino di pregevole quanto brutta fattura e un piccolo moscerino si poggiò sulla mia mano inarcata sul tavolino. Parlavano di me e di 10 Accendini Neuro, mi sembrò anche di vedere qualche sorriso sui loro volti, e le teste che ciondolavano a destra e sinistra. “Sì sì, nella robba”, e scoppiò a ridere o a piangere, in quel momento non lo capii. Poi divenne serissimo: “è la gente della Salita Magnocavallo che mi dà questi accendini, sono loro che mi fanno mangiare e campare”.              
Poi è successo tutto in un istante o come accade a volte nei sogni che all’improvviso mentre stai facendo A ti trovi a fare B, mentre sei nel luogo X ti trovi nel luogo Y che è dall’altra parte della città, del paese, del mondo, del cervello. Ci salutammo, uscimmo dal Gambrinus, lui prese un’altra strada e si perse nella folla, io mi trovai a sfogliare gli Scritti sulla Questione Meridionale di Gaetano Salvemini, edizione Einaudi del 1955. Da quel giorno in poi ho continuato a incontrare 10 Accendini Neuro praticamente quasi tutti i giorni, lui mi dice soltanto “10 Accendini Neuro” e io gli rispondo soltanto “no no grazie”, ma a volta gli lascio qualche spicciolo. Ho l’impressione che 10 Accendini Neuro non ricordi chi io sia e perché ogni santa volta che mi viene incontro io gli sorrido affabile e amichevole e di tanto in tanto gli lascio qualche spicciolo.

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