“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 21 February 2014 05:36

ZiaLidiaSocialClub, ottava serata: "To the Wonder" di Terrence Malick

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"Respiro, furbo, angoscia, senza filo logico, street of conscious, lacerazione, sfuggente, virtuoso artigiano, dubbioso, viaggio allucinogeno, bipolare". Queste sono alcune parole dette a chiusura dibattito dopo aver visto il film di Terrence Malick To the Wonder, ottavo film previsto in rassegna. Un "anti-film" come dice Mirko, socio dell'associazione, con "la forma narrativa assolutamente destrutturata" senza né inizio né fine, pochissimi dialoghi, e ogni parola detta, espressione di un pensiero singhiozzante, poco chiaro.

I personaggi sono sfuggenti, approssimativi nelle loro considerazioni, freddi anche se sofferenti, soli, nonostante le parole siano dette dall'anima, i vissuti interiori sono posseduti e mai condivisi, tutto resta sospeso e allo spettatore non è concesso di empatizzare ma si assiste alla frammentazione di un sogno che però è sogno di altri. Terrence Malick, regista del più apprezzato The Tree of Life, è un personaggio misterioso, introverso, immaginifico, caratterische riscontrabili nei suoi film e in To the Wonder. Un film indescrivibile proprio perchè evocatico e per nulla descrittivo che pone gli spettatori di fronte all'inquietudine sentimentale dei personaggi nel rapporto di coppia, con i figli e nel rapporto con Dio vissuto come ansimante ticerca della meraviglia, del superamento di sé, attraverso anche la sofferenza.
L'inquietudine non è analizzata, vissuta, raccontata o anche semplicemente espressa ma appare quasi disegnata. E questo è il primo paradosso in cui s'inciampa durante la visione del film: è possibile raccontare individualmente, con un "dipinto mosso", lo svolgersi di profondi vissuti relazionali? Si può dare forme ai sentimenti, senza fare riferimento a radici, passato, emozioni espresse nel vivo, psicanalisi o introspezione? Malick in questo film come un pittore dell'anima, dipinge immagini, corpi, volti, gesti, ambienti, paesaggi meravigliosi anche se degradati. Forse è "presuntuoso e furbo" scegliere un tema così difficile e da elaborare per poi cavarsela registicamente con belle immagini, bei gesti e bei movimenti. Ma il film insegna che la bellezza in realtà è un concetto profondo, complesso, che nella sua fugacità non si discosta così tanto dall'inafferabilità della tristezza, della paura, dell'angoscia. E probabilmente come nei bei quadri tridimensionali le immagini visibili sono forme delineate o ingarbugliate ma il vero disegno è oltre: di fronte a un disegno tridimensionale solo uno sguardo passivo, uno sguardo che cede, può cogliere il quadro nascosto, l’occhio critico, mentale, indaffarato perde. Ecco perché per comprendere questo film, forse bisogna cedere, liberarsi dagli strumenti di comprensione che cercano di controllare la trama, non provare a trovare un senso, una logica, un inizio, una fine, una critica, bisognerebbe semplicemente abbandonarsi, lasciandosi suggestionare. Può succedere così di rimanere folgorati proprio dalla lacerazione, dai vuoti narrativi, dai suoni rimbombanti, dagli echi dei fatti, dai riflessi di luce, dai colori dei paesaggi, dall'eleganza dei personaggi, dalle domande senza risposta. È possibile sentire sussulti di meraviglia proprio a un passo dal vuoto: tra umano e universale, amore sperimentato e desiderato, confini emozionali e sconfini incantati della natura, segni dell'assenza di Dio e sentimento della sua presenza, fragilità che domanda e durezza che ammutolisce, tra la libertà di chi soffre e vive emozioni nuove e la schiavitù di chi sceglie di non soffrire senza più sentire emozioni forti.
Ed anche il pubblico di questo film si divide a metà, i più lasciano la sala appena finisce il film, ma c'è chi si trattiene a dibattere con la voglia di scambiare emozioni e visioni senza voler più andare via. Dopo aver visto questo film si può tornara a casa colmi di bellezza, con la sensazione di aver visto un capolavoro, in grado di dialogare con l'anima dei paesaggi, con il senso profondo e inafferabile della vita con il miracolo della bellezza e dello stupore. Ma i più, dopo la visione di questo film tornano a casa affaticati, delusi e irritati per aver cercato inutilmente un filo e un senso, per "non aver capito nulla". Ma può darsi che proprio nelle reazioni negative di molte persone a questo film, c'è la fine prevista o imprevista, involontaria o volontaria del regista, il suo scopo o monito. Malick ci pone di fronte a un terribile limite, che forse è anche il suo, l'inquietudine sentimentale più profonda che condividono personaggi e spettatori, quel "bulimismo emozionale" fatto di eccessi di nutrimento e vuoti di stomaco, dipende proprio dalla condanna sociale a un mentalismo eccessivo e critico che non risparmia nessuno, che anestetizza dalla percezione improvvisa della meraviglia e dal lento e piacevole manifestarsi dei suoi effetti, impedendoci, nonostante tanta bellezza, di andare "To the Wonder".

 

 

 

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XI stagione – Ottava serata rassegna cinematografica 2013/2014

Proiezione:

To the Wonder
di Terrence Malick

foto della serata Katia Maretto

Avellino, Teatro Carlo Gesualdo – Sala Prove Orchestrali, 16 febbraio 2014

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