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Arrivederci (o addio?) capitalismo! L'arte di José María Cano
Written by Delio SalottoloPerché nasconderlo? Siamo andati a vedere la mostra di José María Cano soprattutto per un motivo e questo motivo (perché nasconderlo pur nella sua banalità?) è tutto intero contenuto nel titolo dell’esposizione: Arrivederci capitalismo!. Siamo andati a vedere una mostra prevalentemente a causa del suo titolo. Non di certo un buon modo di presentarsi da parte di un giornalista che si vorrebbe serio. Ma torniamo al titolo, a questo Arrivederci capitalismo! Non che il recensore o giornalista o scribacchino che sta scrivendo questo pezzo ritenga veramente che sia così semplice o così immediato associare un saluto alla parola “capitalismo”, in poche parole che sussistano le condizioni sociali ed economiche affinché questo saluto possa sostanziarsi attraverso (quella cosa che un tempo non procurava vergogna e accuse di infantilismo a chi la pensava, e cioè) la rivoluzione, no! non lo ritiene così semplice o così immediato, ma la curiosità per quel titolo diveniva sempre più acuta perché, lapsus o volontà conscia – lo lasciamo decidere allo spettatore e/o lettore, la mostra ha nel suo titolo la parola arrivederci che, come tutte le persone che conoscono le buone maniere ben sanno, indica la possibilità di un nuovo incontro, magari sottintendendo anche la volontà che ciò avvenga, e non (magari) la parola addio che, come le persone che conoscono le buone maniere ben sanno (soprattutto quando non sono credenti), significa grossomodo “a mai più rivederci”, sottintendo magari anche la volontà che quella persona o cosa non si presenti mai più al nostro cospetto.
- José María Cano
- Arrivederci capitalismo!
- The Chapel of Capitalism
- Rupert Murdoch
- François Pinault
- Warren Buffett
- Bernard Madoff
- JeanClaude Trichet
- Ben Bernanke
- Christer Gardell
- Tronchetti Provera
- Sergio Marchionne
- Li Kashing
- Lakshmi Mittal
- L Dennis Kozlowski
- Milton Friedman
- Cristo
- Apostoli
- GM
- Apple
- WalMart
- Delio Salottolo
- Il Pickwick
Philip Schuyler Green è un giornalista della California che viene chiamato a New York dal direttore dello Smith’s Weekly per fare un’inchiesta sull’antisemitismo negli Stati Uniti. Vedovo da alcuni anni, con sé porta il figlioletto e l’anziana madre. Conosce la nipote del direttore, Kathy, giovane donna divorziata proveniente dalla borghesia di campagna, con cui inizia una relazione. Le iniziali difficoltà che il suo compito gli arreca vengono d’improvviso risolte con una geniale intuizione: si fingerà ebreo per tutto il tempo dell’inchiesta (così come aveva fatto per le precedenti indagini sui lavoratori disoccupati dell’Oklahoma che cercavano lavoro altrove e per i minatori).
Fallirò di nuovo. Fallirò meglio
Written by Caterina Serena Martucci“Non c’è nulla di più comico dell’infelicità”. Note garbate di archi accompagnano l’occhieggiare dei proiettori in sala, poi buio, poi la scena. Due bidoni di rifiuti radioattivi, abito e ricetto di Vladimiro ed Estragone.
Il volto, i volti, di Beckett campeggiano sullo schermo al centro della scena, quasi più reale, sebbene allo stato di immagine, dei due irreali personaggi in carne ed ossa, che presentano l’autore attraverso le parole delle sue interviste e delle sue opere. Necessario, previsto straniamento.
Le tracce che Robert Walser lasciò del suo cammino furono talmente lievi da essere cancellate dal solo spostamento di qualche granello di polvere. Pesante quanto pesante è la parte più leggera di un’ombra, egli scivolò letteralmente nello spazio e nel tempo fino a rifugiarsi e nascondersi oltre lo spazio ed il tempo. “Non giunse mai a stabilirsi da nessuna parte, mai poté disporre di qualcosa di suo, fosse pure l’oggetto più insignificante. Non abitò mai una casa né mai abitò a lungo nello stesso luogo, di arredi suoi non ne aveva – non uno solo – e, quanto al guardaroba, era fornito al massimo di un abito buono e di quello per tutti i giorni” (Winfried Sebald, Il passeggiatore solitario).
Officina teatro, spazio che s’apre alle spalle d’una serranda per farsi teatro. A fare teatro, Alessandra Asuni. Ma, quando a “fare teatro” è Alessandra Asuni, questa semplice locuzione, pur conservando tutto il suo potere poietico, s’accresce d’un farsi molteplice che declina in più ambiti, tutti abbracciandoli con densità di senso trasmessa mediante immagini barbaglianti.
Un lavoro migliore, o anche solo un lavoro, magari retribuito, un posto sano in cui vivere, una ragazza da sposare, una famiglia.
Sogni, o quel che ne resta, di non difficile realizzazione in un tempo neanche troppo lontano, diventano oggi montagne da scalare per quei giovani, e non solo loro, che gridano il loro disagio di stage formativi gratuiti, cassa integrazione, finte partite iva.
Mediocri bamboccioni.
La cantatrice è calva. L'anti-anticommedia di Ciro Pellegrino
Written by Sara ScamardellaQualche volta, quando mi trovo a parlare con qualcuno della mia infanzia, mi piace dire che ero una campionessa a Barbie. Ci giocavo per delle ore e molto spesso le mie Barbie interpretavano i personaggi dei libri che leggevo per la scuola. Al teatro Piccolo Bellini, la scena che vedo all’aprirsi del sipario è quella di una casetta per le bambole, con tendine colorate e pannelli dai disegni infantili.
- La cantatrice è calva
- La cantatrice calva
- eugène ionesco
- Ciro Pellegrino
- Giovanni Merano
- Roberta Astuti
- Viviana Cangiano
- Francesco Saverio Esposito
- Carlo Liccardo
- Yuri Napoli
- Diego Sommaripa
- Mary Samele
- Mariarosaria de Liguori
- Marina Mango
- Compagnia dei Sogni
- BalalaikaServizi per lo spettacolo
- piccolo bellini
Il banchetto della democrazia. Il Lincoln di Spielberg
Written by Delio SalottoloNon è trascorso molto tempo dalle presidenziali negli Stati Uniti, presidenziali che hanno visto la rielezione di Obama, di colui che resterà nella storia come il primo presidente afroamericano. E allora sembra che la fabbrica dei sogni americana abbia voluto festeggiare questo avvenimento, questo ringiovanimento del mito americano (dopo aver fatto addirittura un afroamericano presidente, che rimane più da fare?), attraverso due film, Django unchained di Tarantino che, con il suo modo un po’ farsesco e surreale, racconta la vendetta di un afroamericano nella quale è contenuta la vendetta latente di un intero popolo e, forse, di tutti gli oppressi di tutti i luoghi e tutti i tempi (http://www.ilpickwick.it/index.php/cinema/item/134-laltra-nascita-di-una-nazione-django-unchained-di-tarantino) e Lincoln di Spielberg che, con il suo solito e indiscusso mestiere, confeziona un film ben fatto, non eccessivamente retorico, non eccessivamente agiografico. Entrambi i film, ovviamente, non mettono in discussione assolutamente l’intero significato storico-politico di un Paese che ha mantenuto l’istituto della schiavitù fino a oltre la metà dell’‘800, che ha esportato fino a poco fa (ora sarà sempre più difficile farlo) la democrazia con la guerra, che ha mantenuto in soggezione il Sud America e tanti altri stati in giro per il nostro globo mediante l’utilizzazione sistematica di dittature militari e ci fermiamo qui perché non è questo il luogo consono. Insomma Hollywood è Hollywood: può anche capitare che faccia pensare, ma deve soprattutto far divertire e ripetere la serena ideologia americana. In questo senso se Django di Tarantino se n’è (ma soltanto appena appena) scostato, il Lincoln di Spielberg n’è dentro fino al collo ma con astuta sapienza e in maniera, per così dire, sommessa.
Nel 1954 Kenji Mizoguchi realizza il suo capolavoro. Stiamo parlando di Chikamatsu Monogatari, distribuito in Italia con il titolo di Gli amanti crocifissi. Nel XVII secolo, infatti, il Giappone tradizionale puniva l’adulterio con la crocifissione. Oltre all’intreccio narrativo, che vedremo a breve, questo scritto si prefigge il compito di sottolineare e trattare alcuni punti fondamentali. Stiamo parlando del resto di uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, premiato a Cannes nel ’55 e primo in molte classifiche cinematografiche come miglior film di tutti i tempi. Oltre alla feroce critica delle convenzioni sociali, simboleggiate dalla cultura nipponica tradizionale, il film evidenzia l’importanza della poetica della narrazione, chiaro riferimento alla questione formale che diventa contenutistica nel momento in cui la relazione tra “dialettica della trasgressione” e “desoggettivizzazione del soggetto” si traduce nell’annichilimento simboleggiato dall’atto estremo del Seppuku.
SOSPENDI
(la Redazione)
ho trovato perché non ho cercato
Siddharta
una volta soltanto ho sfidato l’infinito nella mia vita e ci sono rimasto bruciato, è stato come se la punta incandescente di un ago mi fosse stata puntata su di un testicolo: si consideri quel dolore e lo si moltiplichi per un milione di volte: siamo ancora lontani… e poi brucia da farti raccare in strada