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“Chi è l’altro? L’inferno!”. Nella nostra smania citazionista di adolescenti che s’affacciavano al mondo dello scibile, nel nostro orgasmo di sapere voracemente sunto da ogni fonte in cui ci si imbattesse, era questa una delle frasi più ricorrenti che ci piaceva sciorinare. Era a effetto, faceva scena; e poco cale se il senso profondo che la permeava ci apparisse sostanzialmente nebuloso; lo avremmo appreso solo crescendo, allorquando la nostra formazione culturale si sarebbe adoperata ad acquisire la dimensione della profondità. La frase era desunta da Jean-Paul Sartre e la profondità di senso che si citava condensata in uno stralcio dotato di molta approssimazione e poca veridicità filologica, è tutta svolta in Porta chiusa, drammaturgia sartriana per l’occasione messa in scena dalla compagnia romana Officina Dinamo.
Arrivo in teatro sotto la pioggia, nell’attesa per le vie adiacenti si sente una musica neomelodica ad alto volume, c’è ancora un’atmosfera natalizia per le strade di Napoli alcuni negozi hanno le luci accese, penso che qui il tempo sembra non passare mai.
Entriamo, siamo in pochi, in scena un tavolo, un proiettore che dall’alto illumina ad occhio di bue una sedia che preannuncia la presenza di un attore, un uomo o forse solo un pezzo di sé. Entra l’attore Giovanni Battaglia, con fare disinvolto, alla maniera dei menestrelli shakespeariani ad esprimere la sua desolazione per l’assenza di pubblico, adducendo a sé stesso la causa di tale mancanza ed elogiando i pochi presenti come spettatori speciali, meritevoli di ricevere la sua presenza.
Mi hanno detto che il Teatro de Poche è un luogo suggestivo. Mi accorgo subito che è così. Non c’è un sipario che si apre per dare inizio allo spettacolo. Si aprono solo due tende e lo fanno per farci salire sul palco. Per un momento siamo noi lo spettacolo ma soltanto per il tempo che ci serve per cercarci un posto in sala, una sedia per diventare spettatori. Poi le tende si chiudono e allora cominciano gli attori.
Tra storia e poesia del movimento: le donne di Klimt al Tunnel Borbonico
Written by Simona PerrellaNapoli è sempre piena di posti interessanti da scoprire. Tra questi c’è il Tunnel Borbonico, un grandissimo viadotto fatto costruire nel 1853 per ordine di Ferdinando II di Borbone con l’intento di creare un passaggio che collegasse il Palazzo Reale con Piazza Vittoria, quindi con il mare e le sedi delle caserme. Dopo secoli di storia, nel 2007 il Tunnel è stato rivalutato da parte di alcuni geologi e sono stati rinvenuti molti autoveicoli e motoveicoli insieme ad alcune statue e busti, che si possono osservare come pezzi museali.
Oggi il Tunnel Borbonico è un luogo molto attivo culturalmente. È stata allestita, infatti, al suo interno, tra un acquedotto ed un altro, una piccola area teatro, con una struttura piatta che assomiglia ad un palco e delle sedie per gli spettatori. Si organizzano concerti, spettacoli teatrali e di danza e tutto è accompagnato dalla preziosità ed austerità del luogo e dal suono leggero delle gocce d’acqua che rimbomba nell’altezza dello spazio.
La vita è proprio una brutta bestia (parte II)
Written by Delio SalottoloPer quanto riguarda la sigaretta, aveva due o tre posti sicuri a cui rivolgersi, il primo da cui si recava era il signor Peppe, quello dei traslochi, ometto stranamente piccolo per quel mestiere, ma dotato di una forza di cento uomini, che spesso lo attendeva sulla soglia della bottega e così fumavano la sigaretta in compagnia seduti su un vecchio sofà o su chissà quale altro mobiletto, discutendo di questo o di quello o stando volentieri in silenzio, se il signor Peppe però non era di genio (dunque, non aveva voglia di ripetere quel rituale mattutino e scacciava via Gennaro o’ scemo in malo modo, un po’ come quando un cane si avvicina speranzoso e non si vogliono accogliere le sue istanze), il nostro Gennaro o’ scemo, sempre sorridente e per nulla offeso, andava dalla signora Carmela, quella del bar all’angolo, vedova non più giovane ma ancora piacente e dai seni eccessivamente prosperosi, capace ancora di attirare l’attenzione di vari uomini del quartiere che bonariamente la prendevano in giro, e lì, se aveva raccolto i famosi due euro, si concedeva la tanto agognata colazione e la sigaretta che la signora spesso con grande gentilezza gli offriva.
Vecchi bambini mostruosi. Ci accolgono in scena chioccianti e lamentosi. L’orrore della loro condizione, eterni bambini, invecchiati e mai cresciuti, ci colpisce subito e non ci abbandona più. Un’immagine angosciosa stampata negli occhi e nello stomaco, che si evoca quasi pavlovianamente alla vista di mani deformate dall’artrosi o dal lavoro. Tre sedioline da scuola, quelle di metallo con lo schienale e la seduta di legno. Tre linee bianche, davanti ad ogni sediolina, ciascuna terminante in una croce di Sant'Andrea. Tre linee dietro, drizzate in verticale, terminanti con la stessa croce, in legno, Golgota appendiabiti. I tre fratelli in scena: Zuzzo (il grassone, si direbbe il maggiore), Zozza (la sorella), Zizzi (il mingherlino).
“Nel nostro mestiere spesso ci accorgiamo di destare attrazione finché siamo mascherati. Quando ci vede alla luce delle nostre esibizioni e rappresentazioni, la gente crede di amarci. Ma se ci mostriamo senza maschera, siamo tramutati in men che niente. Sono solito dire che noi siamo noi stessi al cento per cento solo quando ci troviamo sul palcoscenico”.
(Ingmar Bergman)
- Il settimo sigillo
- Daniele Magliuolo
- Ingmar Bergman
- Il posto delle fragole
- Alle soglie della vita
- Il volto
- Sei personaggi in cerca d’autore
- Pirandello
- positivismo
- illuminismo
- magia
- La grande guerra
- Monicelli
- Il generale Della Rovere
- Rossellini
- premio Pasinetti
- Ansiktet
- Bibì Andersson
- Il Pickwick
- Ciclo Bergman
- Retrovisioni
Il caso dei gemelli dagli opposti caratteri è un topos drammaturgico e cinematografico che ben si presta come escamotage narrativo, sia drammatico che – spesso – comico. Questo dualismo a volte non è altro che una metafora del carattere duplice presente in ciascuno di noi, della compresenza, affianco al lato manifesto della personalità, di quello oscuro (celato anche a noi stessi). Ovvio che il cinema – più del teatro – come regno del possibile offra il doppio ruolo ad un unico attore. Cinema come campo dove nulla è impossibile, luogo della finzione, della menzogna costruita ad arte e per l’arte. La definizione vale anche per la politica, almeno per quella attuale, che celebra i suoi riti sulla piazza mass-mediatica dopo essere fuggita dalle piazze reali (frequentate solo in periodi elettorali).
- Viva la libertà
- Roberto Andò
- Toni Servillo
- valerio mastandrea
- Valeria Bruni Tedeschi
- Michela Cescon
- Anna Bonaiuto
- Andrea Renzi
- Judith Davis
- Gianrico Tedeschi
- Massimo DE rancovich
- Renato Scarpa
- Angelo Barbagallo
- 01 Distribution
- Il trono vuoto
- giuseppe verdi
- Ernani
- La forza del destino
- gemelli
- follia
- doppia personalità
- il tema del doppio
- sondaggi
- Il Divo
- politica italiana
- bompiani editore
- Premio campiello
Geppy Gleijeses porta alla luce un inedito del repertorio di Raffaele Viviani: A Santa Lucia, (nel titolo originale Santa Lucia Nova).
Il regista partenopeo sceglie di innalzare ai fasti della ribalta una commedia in versi, prosa e musica portata in scena da Viviani nel 1943. Gleijeses, nei doppi panni di regista ed attore debutta al Bellini di Napoli con la commedia in due atti.
A fare da cornice all’azione è il ristorante “Starita” del Borgo Marinari di Napoli, che in senso metaforico e fisico fa da spartiacque agli avventori che vi gravitano attorno.
- A Santa Lucia
- Raffaele Viviani
- Geppy Gleijeses
- Lello Arena
- Marianella Bargilli
- Daniele Russo
- Gigi De Luca
- Gina Perna
- Angela De Matteo
- Luciano D'Amico
- Gino De Luca
- Antonietta D'Angelo
- Rino De Luca
- Vincenzo Leto
- Giusy Mellace
- Salvatore Cardone
- Aniello Palomba
- Eduardo Robbio
- Pierpaolo Bisleri
- Guido Ruggeri
- Luigi Ascione
- Teatro Stabile di Calabria
- Teatro Quirino Vittorio Gassman
- Santa Lucia Nova
“È strano che tu non riesca ad afferrare il nocciolo della questione. Riesci solo a percepirne i contorni. E non capisci quanto sia grave”.
La scrittura di Yasmina Reza potrebbe definirsi attraverso questa battuta rubata ad Art: la definizione di un contorno con, al centro, qualcosa di grave e sfuggente, di profondo e di pallido, di pressante e accennato. Yasmina Reza scrive di massimi temi (il delirio, la violenza, il conflitto, l’amore e l’odio tra gli uomini, la bramosia di possesso, il desiderio di conquista o abbandono, lo sfruttamento dei deboli, la viltà verso i fragili, la prostrazione ai più forti) cesellando una cornice e ponendovi al centro una trama di icone, di segni, di simboli che non sono che tratti, rimandi, allusioni. A chi guarda interpretare l’insieme.