“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 20 December 2012 23:30

Arriverà Astolfo a salvarci

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“La polvere è la carne del tempo”. Bell’incipit per una vecchia storia cavalleresca mille volte rinata. L’antico tomo si anima e Orlando, Bradamante, Angelica, Ferraù, Brandimarte, Ruggiero e tutti gli altri, prendono corpo e si rivestono di nuova carne e voce. Buio. Voci. Luce. Una giostra. La giostra dei cavalieri, gioco bellico, e la giostra delle passioni, gioco eterno. Contrappunto di voci, contrappunto di sessi. Le battaglie degli uomini cedono luogo all’unica battaglia, fatta di inseguimenti e scaramucce, illusione del possesso e continua ricerca.

Angelica è il perno della vicenda, il fuoco attorno al quale ruotano le innumerevoli vicende del poema. Ma Angelica in realtà non c’è, compare tangenzialmente: sempre in fuga dalla brama dei paladini di ambo gli schieramenti, oppure svenuta per effetto della pozione del satiresco eremita (forse più fliacico, considerato il misero esito dell’erotica tenzone...), o ancora incatenata alla rupe, vittima sacrificale per il pasto del mostro marino. Angelica non c’è, non può esserci davvero, perché lei è l’eterno oggetto d’amore, di quell’amore-passione cortese che vive del fuoco della ricerca e non si appaga del suo appagamento. Angelica non esiste, potrebbe anche essere una proiezione della mente, una delle tante che affollano il castello fatato di Atlante, teatro della pazzia delle illusioni. Angelica esiste come desiderio e in quanto desiderio, perché quando si incarna, fa vivere la propria carne con Medoro, perde tutto il suo valore e lo stesso furioso Orlando, nell’ebetudine del suo stordimento, non la vede nemmeno più. Il senso del suo amore era nella ricerca e nell’attesa.
Lo spettacolo, che cerca (e a tratti ci riesce) di essere lieve e sdrammatizzante, gioca su un doppio piano comunicativo e un doppio registro. Da un lato il cavalier narrante (uno Stefano Accorsi un po’ legnoso quando non incarna i personaggi e deve cantare in versi lo svolgimento della storia), che racconta al pubblico, in versi, le storie dei paladini; dall’altro lato lo stesso narratore (che sa sventagliare un piacevole registro autoironico), che dialoga con una figura femminile (Nina Savary) che lo rimbecca e gli fa da ironico contraltare, pronta a rintuzzare, con sarcasmo a tratti acido, la diuturna e forse un po’ ridicola ricerca di quella rosa, infissa nel pensiero di ogni uomo. Si gioca molto sull’autoironia, per fortuna la pièce non sembra prendersi troppo sul serio e si segue (seppure a tratti con un po’ di stanchezza) piacevolmente, soprattutto quando finalmente ricompare Astolfo, a recuperare sulla luna il senno di Orlando, segno che lo spettacolo volge (infine) al termine, in un finale raccontato come un cinegiornale dell’Istituto LUCE, o magari una telecronaca calcistica degli anni ’60, con i pupi paladini che si azzuffano nuovamente, lasciando sul campo solo uccisi ed assassini.
Ciò che manca viene ampiamente compensato dalla cura della costruzione scenica e dall’incanto sonoro. Il suono del mare, il vento, gli strumenti musicali e la bellissima voce di Nina Savary, squillante e profonda al tempo stesso, con la nota sensuale del suo accento francese. Una femminilità diversa la sua, non preda ma nemmeno arcigna moralista, malizia e ironia possono fondersi in una sintesi diversa sia dall’inafferrabile Angelica, sia da Bradamante, donna che si fa uomo e quando fa la donna, aspettando Ruggiero, diventa quasi una patetica Penelope come tante.
Qualcosa manca. Qualcosa che dia nerbo allo spettacolo, oltre le singole riuscite situazioni, effetti scenici, inquadrature della scena (più di una volta si guarda compiaciuti la scena componendo mentalmente una fotografia). Manca la leggiadria e la sarabanda indiavolata ariostesca, l’intrecciarsi degli intrecci e manca il senso della proposta, oggi, di un Orlando furioso. Un tema poteva essere il senso (o meglio il non senso) dell’amore come possesso, che giunge all’eliminazione, fisica o psicologica, dell’oggetto d’amore che, creduto per sempre proprio (in quanto destinatario del proprio amore), si rivela fuggevole, come Angelica, recalcitrante a questo amore non desiderato. Molteplici gli esempi in cronaca, ma anche in tante piccole vite, più o meno ordinarie, in cui l’irrompere di un amore malato innesca una fuga senza fine, la fuga verso la normalità, il recupero di una dimensione sana dell’amore, della fiducia nell’altro, della passione.
Oppure il rapporto realtà/illusione. Il castello di Atlante e gli incantamenti della maga Alcina potevano essere traccia per riflettere sulla contemporanea follia. Gli spiriti dei paladini, avvinti dalla magia di Alcina, una volta liberati dalle finzioni tornano spaesati alla realtà, forse rimpiangendo la beata incoscienza della mancanza di coscienza, della dimensione onirica deresponsabilizzata? Ma tutto questo non c’è, se non come accenno, forse troppo lieve e impalpabile per avvincere davvero lo spettatore, renderlo incantato e trasportarlo dalla poltrona della sala sulle ali dell’ippogrifo.

 

Furioso Orlando - ‘ballata in ariostesche rime per un cavalier narrante’

liberamente tratto da Orlando Furioso

di Ludovico Ariosto

con Stefano Accorsi e Nina Savary

adattamento teatrale e regia Marco Baliani

disegno luci Luca Barbati

costumi Alessandro Lai

scene Bruno Buonincontri

produzione Nuovo Teatro e Teatro Stabile dell’Umbria

lingua italiano

durata 1h 30’

Napoli, Teatro Nuovo, 19 dicembre 2012

in scena dal 18 al 23 dicembre 2012

 

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