“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 17 December 2012 10:51

Di notte, una mosca

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“La notte è molto buia” (Otello, atto V, scena I).
La notte, la più scura che mai drammaturgo abbia fatto calare su un palco, ricopre il piccolo assito del Sancarluccio. Capace di attenuare le forme, di far perdere sostanza alle cose, di cambiarne il colore, la foggia, la loro apparente visione, la notte è venuta giù ricoprendo tutto ciò ch’era dovuto. Jago va in scena e Jago non è l’Otello di Shakespeare ma l’unica sua parte che ancora si sente, si percepisce e che resta, in questa notte il cui buio è composto dal buio di tutte le altre notti finora trascorse.

Venezia è sparita per colpa di questa notte; per colpa di questa notte è sparita l’isola di Cipro. Spariti, per colpa di questa notte, sono il Doge, il governatore, i senatori e i nobili delle corti ed interi gli eserciti, le navi dei turchi, i drappelli pronti allo scontro. Sparito è il mare: non si naviga. Sparita è la terra: non si calpesta luogo. Sparito è ogni muro di ogni palazzo: non si abita nessuna stanza perché l’unica stanza è la notte. Spariti, all’unisono, sono Desdemona, Bianca ed Emilia, Ludovico e Graziano, Montano e il buffone; Cassio è sparito, sparito è il marinaio, il messaggero, l’ufficiale e tutto l’insieme di figuranti che partecipano. “Ora sospetta” è la notte, favorisce le canaglie, i farabutti, le bestie peggiori consentendo ogni peccato, ogni reato, ogni vergogna. Un Moro, capro o montone dalla pelle brutale, sta forse montando una pecorella bianchissima; quello stesso Moro ha forse montato, in una notte quasi identica a questa, la donna a servizio della pecorella bianchissima; quello stesso Moro, in chissà quale altra notte, ha montato chissà quale altra figlia, madre, sposa devota o sorella degnissima. Forse. Forse è di notte che questo Moro s’è fatto soldato, generale, padrone. Forse è di notte che Otello è diventato Otello costringendo Jago ad essere Jago: “Se sono al suo seguito, lo faccio unicamente per servire un mio scopo preciso. Non possiamo essere tutti padroni, né tutti i padroni si possono servire con fedeltà” sentiamo, forse, nell’oscuro.
Fosse giorno, dannata luce mancante, vedremmo chiaramente un servo ossequiente piegato fino a terra, ad omaggiare le dita dei piedi di chi l’affama, tenacemente attaccato alla propria catena. Vedremmo, se fosse giorno, un uomo fatto asino mangiare del fieno, ragliare il consenso, portare la soma. Ma è notte ed è di notte che le città bruciano, che le lame trapassano, che avvengono i peggiori massacri. Ma è notte ed è questa notte che mette “alla luce questo mio parto mostruoso”.
Avanza al bordo della ribalta la porzione di una sagoma, poi una sagoma intera, poi il lembo di un piede, il dito di una mano, l’angolo acuto di un gomito, la parte curva di una spalla, la punta finissima di un capello. Poi il volto, del volto il suo mento, poi gli occhi e, degli occhi, lo sguardo diretto. È notte ed è Jago e Jago parla a Roderigo parlando alla platea: “Chiamate il padre della ragazza! Scagliatevi contro il Moro; non dategli tregua, avvelenate la sua gioia. Gridate per le strade la sua vergogna. Scatenategli contro i parenti della ragazza; infestate di mosche il clima felice in cui vive! E se nonostante tutto la gioia deve rimanere gioia, copritela con tanti fastidi in modo da farle perdere colore”. Induzione alla complicità criminale, spinta alla partecipazione al delitto, soffiata che convince l’ingenuo: la tragedia ha inizio.
“Ehi Brabanzio! Signor Brabanzio, ehi! Svegliatevi, signor Brabanzio! Attento alla vostra casa, a vostra figlia, alla vostra roba! Al ladro, signor Brabanzio!”. La tragedia ha inizio e d’essa vedremo qualche scampolo, qualche immagine, qualche frammento tramutato in monologo. Piuttosto la tragedia, nel buio, diventa suono, rumore, persistenza all’udito per il fiato dato a una tromba: Jago, questo Jago, apparentemente suona la tromba ma invero ad essa respira, emettendo un ronzio. Un ronzio: questo Jago, nero, è una mosca, nera, in una notte, nera. Il ronzio notturno di una mosca: ciò che resta dell’Otello di Shakespeare per lo Jago di Oscar De Summa.
“Infestate di mosche il clima felice in cui vive!”.
“Ti avevo proibito di ronzare intorno alla mia casa”.
“Come le mosche d’estate nei macelli, che nascono fitte, rapide, ronzando, dalla stessa putrefazione”.
Lo Jago di Oscar De Summa ronza, ed ancora ronza, nel pieno della notte. Ronza “metti del denaro nella borsa”; ronza “vi prego: può darsi che il mio giudizio sia sbagliato”; ronza “guardatevi dalla gelosia, signore” nello stesso momento in cui ronza “state attento a vostra moglie, osservatela bene quando si trova con Cassio”; “vostra moglie, che riuscì a sposarvi ingannando suo padre”; “che pur essendo così giovane ha saputo fingere così bene”: “state attento a vostra moglie: è solo un consiglio”.
“Dov’è il fazzoletto?”. Ancora un ronzio. Ancora ed ancora.
Ronza, Jago, ed allora ronza Oscar De Summa ronzando con la tromba e quando non ronza con la tromba ronza le proprie stesse parole registrandole perché ronzino all’aria del loro stesso eco ronzante. “Approfittando del buio” Oscar De Summa riduce Jago ad un insetto: le sue mani sono zampette di continuo passate sul volto (agli occhi, ai baffi, alle guance); i suoi passi sono saltelli minuscoli; il suo aspetto è nero (il colore della notte, il colore della mosca: il colore di una mosca nella notte) e la sua voce è un verso che s’ispessisce o si placa a seconda degli istanti e del volo: furtivo, gira in tondo, costeggia la tempia, la carezza, la discende, scivola sull’elice, si ferma sul lobo, si poggia sul trago, fissa già il timpano: “ma che cosa stai dicendo?”; “ma perché, perché mi dici queste cose?”; "vattene; mi hai messo alla tortura”.
Jago – che sporca ogni cosa che tocca nell’Otello di Shakespeare (uccide Roderigo ed Emilia; scredita Cassio, Desdemona, Bianca; inganna Otello, Ludovico, Graziano, Montano e Brabanzio, l’intera corte a Venezia, tutta l’isola di Cipro) – è questa mosca in questa notte ed è dubbio, incertezza, pensiero ammalato che desta, costringe a non prendere sonno, si ripropone continuo: “mi fa male la testa, qui sulla fronte” direbbe Otello se non fosse sparito nella notte; “sarà colpa della lunga veglia” risponderebbe Desdemona se non fosse sparita nella notte.
Se non fossero spariti in questa notte in cui il cielo ha turato il suo naso, la luna ha abbassato le palpebre ed il vento se ne sta rintanato – in cui persino l’Otello ha smesso di recitare l’Otello – perché sia chiaramente avvertibile soltanto una mosca, il suo volo, il suo crudele ronzio.

 

 

 

Jago (I am not what I am)
da Otello
di
William Shakespeare
regia Oscar De Summa
con Oscar De Summa
produzione Ca’ Rossa
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Sancarluccio, 16 dicembre 2012
in scena dal 14 al 16 dicembre 2012

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