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Sunday, 07 April 2013 11:25

L'attore ed il folle

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“Ma andiamo avanti. Per quanto strana e lunatica sia per essere la mia condotta, e potrà accadermi d’ora innanzi di adottare atteggiamenti strambi, non avvenga mai che, in tali occasioni, vi veda incrociare le braccia, scuotere la testa e pronunciare parole come ‘lo sappiamo noi’, ‘oh, se potessimo parlare’, ‘eppure c’è qualcuno che se potesse…’, o mostrare con altre frasi che la sapete lunga su di me”. Amleto agli altri personaggi di un dramma che porta il suo nome, perché non lascino trapelare il suo ruolo, la sua finzione, il suo mascheramento consapevole.

Amleto è un attore. Amleto è l’attore all’esordio che quel folle di Shakespeare sceglie per recitare l’Amleto e che, sospinto sul palco, il palco lo domina tutto. Amleto è l’attore che si impossessa di Amleto divenendone il padrone assoluto: amplia le proprie battute, dialoga con la platea, entra quando ha deciso di entrare, esce quando ha deciso di uscire. Si regala brevi saggezze di filosofia soltanto per arricchirsi la parte, mente rivelando che mente, finge rivelando che finge; dispensa un occhiolino al pubblico, un colpo di tacco al suggeritore che si nasconde di sotto (“vecchia talpa”), pacche sulle spalle sono concesse ai mestieranti cui toccano gli altri miseri ruoli. Accoglie una compagnia che girovaga, predispone i camerini, segna il tempo che manca all’inizio del primo atto, chiama il “di scena”, permette il proprio spettacolo; prima cammina leggendo l’opera che ha deciso si veda, valutandone il senno che si fonde con la pazzia; poi – a replica appena giunta al suo termine – controlla l’effetto sugli astanti seduti, valutandone la pazzia non più contenuta dal senno. Dà consigli da ipocrita esperto: sul tono da usare, sull’espressione da assumere, sul gesto da compiere; sulla lunghezza di una tirata, sull’eccesso di una battuta. Anche quando non lo vediamo è certo che, nel retro, continui la sua parte perché questa – in assito – risulti più convincente: non è nel retro ad esempio – tra costumi dimessi, copioni, trucchi ed altri imbrogli teatrali – che prende Ofelia per il polso, stringendolo forte, mentre si posiziona la mano sulla fronte standosene in questa posa “a lungo”, muovendo “la testa in su e giù” per tre volte, dando un “sospiro pietoso e profondo”?
Amleto è l’Amleto anzi: Amleto è più dell’Amleto poiché, dell’Amleto, non resta che Amleto.
“Chi va là?”, “Sei tu?”, “Chi sei tu?” sono domande che potremmo rivolgere ad ogni altro nome che compare accanto al nome di Amleto. Davvero esiste una madre che dimentica così presto il marito? Ed il fantasma appare davvero? Davvero Claudio prega quando è in ginocchio a pregare? Sentite davvero le gozzoviglie alla tavola? E il rumore di spade? Rosencrantz e Guildenstern sono amici davvero? E Polonio ed il Re? E Orazio? Ofelia davvero è così stupida? Ofelia davvero è così sincera? Davvero esistono Osric, Marcello e Bernardo? Esiste davvero il becchino? Amleto è l’Amleto, anzi: Amleto è più dell’Amleto, poiché tutto ciò che egli vede (facendolo vedere anche a noi) potrebbe non essere che immaginazione, invenzione, accumulo di parvenze che esistono pur non esistendo in concreto. “E allora, la cosa è riapparsa stanotte?”.
“Mio padre, mi sembra di vedere mio padre” (Amleto). “Dove signore?” (Orazio). “Nell’occhio della mente” (Amleto). L’occhio della mente ovvero la mente si fa occhio (sguardo che fuoriesce da sé) per dare forma alle proiezioni, alle visioni, alle sensazioni allucinatorie che segnalano il superamento della vista ordinaria. Le cose che vediamo sono cose? E perché mai dovremmo vedere delle cose se non sono cose o sono altre cose dalle cose appena vedute? “Perché mai vedere e sentire dovrebbe essere un’illusione se vedere e sentire sono vedere e sentire” (Fernando Pessoa, Poemi di Alberto Caeiro).
Amleto – “che stride fuori tempo”– volge la vista sul vuoto e scambia parole con l’aria; nelle sue pupille si affacciano, selvaggi, gli spiriti mentre i suoi capelli si rizzano: “Che cosa guardi?” gli chiede la madre o colei che forse è la madre, forse è un’attrice, forse non è che lo spettro immaginato di una madre o un’attrice.
Attore, Amleto interpreta Amleto interpretando la propria follia: la propria follia, interpretata, è l’Amleto per cui possiamo dire che Amleto è un attore, che l’attore è un folle, che la follia è tutta l’opera, che tutta l’opera è una folle “invenzione del tuo cervello” (Gertrude). 
Questa lettura del dramma dialettico di William Shakespeare sembra appartenere a Essere e non essere ovvero Se questo non è amore!!! il cui pregio maggiore è fare dell’Amleto (o di ciò che ne resta) – ad un tempo – un’occasione teatrale ed uno scenario allucinatorio.
Una pedana sulla pedana, ovvero un palco posto su un palco è – ad esempio – allusione dichiarata a una recita che si dichiara per recita. Qualche giocoleria, qualche saltello, uno o più passi in punta di piedi rimandano ai trastulli dei piccoli clown, dei giullari, dei buffoni che fanno i buffoni sapendo di fare i buffoni. Si aggiungano i cambi di ruolo che sono cambi di identità (forma di doubling che avviene in un attimo, sul ciglio d’assito, in tutta evidenza); i dialoghi che scaturiscono dal monologo (misticanza di a-parte, rielaborazione di estratti, aggiunte testuali); certa capacità a modificare il valore ed il senso dei pochi oggetti di scena (una sedia, una scopa, i brandelli di un piccolo sipario posto sul fondo). Si aggiunga – ulteriore – qualche inserto metateatrale (ad esempio: “Sono attratto dal sogno della finzione”; “Commento sempre le mie azioni”; “Finisce sempre nel medesimo modo”) e si avrà la chiara esposizione di una consapevolezza drammaturgica: l’Amleto è la recita che recita Amleto.
In più Antonio Lanera vi pone la condizione malata della follia (vera o presunta, simulata o sincera, necessaria o subita) che – oltre che condizione imposta dal ruolo – è forma protettiva dell’anima perché, assodato che il “mondo è fuori squadra”, non può toccare ad Amleto “rimetterlo in sesto”. Ed allora dinnanzi ad un regno tramutato in porcile – in cui la madre (di Amleto) dimentica il padre (di Amleto) sollazzandosi con lo zio (di Amleto) – a questo Amleto non resta che scegliere tra l’affrontare il reale (ammesso che il reale sia reale) o dichiararsene estraneo, ponendosi a lato, fingendosi ammattito o ammattendosi per colpa della finzione.
E così una battuta tra tante – “In una stanza vuota sono capace di accumulare migliaia di stanze vuote” – se, da un lato, riconferma la natura proiettiva e creativa del personaggio che genera il proprio teatro, dall’altro rimarca la possibilità di riversare la propria immaginazione usandola tutta per costruirsi un proprio mondo – altro dal mondo degli altri – nel quale poter “non essere”: smettendo dunque di “essere”, smettendo dunque di soffrire.
“Avviene così, spesso, in alcuni uomini, per qualche piccola tara di natura o di nascita (di che non hanno colpa, perché nessuno sceglie le sue origini) o per il traboccare di un istinto che abbatte le palizzate della ragione, o per qualche abitudine che troppo scavalca i piacevoli costumi: avviene, ripeto, che tali uomini, per l’impronta di un solo difetto – sia esso livrea di natura o pianeta di fortuna – si espongano al biasimo di tutti, anche se le loro virtù siano pure come la grazia e numerose quant’è possibile in un uomo. Un pizzico di male getta sospetto e scandalo sull’essere più nobile” leggiamo dall’Amleto di Shakespeare e la mente va diretta a certe pagine della Storia della follia di Foucault in cui si parla degli “insensati” ovvero dei reclusi mattoidi che sono presi per tali soltanto perché compiono “discorsi impudenti e ridicoli” e “ragionamenti insistiti”, frutto del “troppo cervello” applicato “a una situazione in difetto”: essi si arrovellano, girando in tondo, “parlano severamente”, “fanno resoconto di tante impertinenze” e finiscono – per distogliersi dagli occhi e dalla mente ciò che non è nel giusto verso – “per parlare alle ombre” o ad altre forme di “trascendenze immaginarie”. “Follia morale” la chiama Foucault, che unisce alla “recita a se stessi” la denunzia etica “dell’errore”. Sovente si tratta – aggiunge il francese – “di follia simulata intenzionalmente da parte di soggetti lucidi” – fin troppo lucidi, aggiungiamo noi – che così facendo, ovvero così recitando, si alienano nella realtà simulata, fuggendo da quella tangibile.
In ultimo, per dovere di onestà, perché sia follemente morale anche questo lungo articolo scritto, dobbiamo rimarcare anche i limiti della messinscena veduta. Il maggiore ci sembra stia in una certa propensione all’accumulo che tutto tiene, comprese parti di testo che meriterebbero il taglio. Come plagiata dalla concezione deleuziana del barocco – che si ripiega “piega su piega, piega secondo piega, all’infinito” – la parte scritta di Essere e non essere eccede il proprio groviglio finendo per calcare la propensione al ricalco. Certi passaggi comici che non producono comicità o certi giochi di termini in cui il gioco fallisce – uniti all’evidenza percepibile dello stacco tra una parte e una parte del testo, come se questo fosse un insieme di pezzi posti in aggiunta ma non in continuità – segnalano il percorso che lo spettacolo ancora deve compiere: ordinare la forma, pulirla un pochino, asciugarla dov’è che lascia l’untore di qualche macchia di troppo. Se infatti qualcosa lo si accetta come conseguenza della perdita indicibile del senso che tocca all’attore, al personaggio ed al folle, la profusione talora soffre e richiede una tregua.
“Non segare troppo l’aria con la mano, così; tratta tutto con misura; poiché nel torrente stesso, nella tempesta e, potrei dire, nel turbine della tua passione, devi ottenere e produrre una moderazione che le dia scioltezza” consiglia Amleto ad una comparsa.
Valga – quest’indicazione – come il lascito con cui terminiamo l’articolo.

 

 

Essere e non essere ovvero Se questo non è amore!!!
di e con Antonio Lanera
regia Antonio Lanera, Massimo Romanazzi
disegno scenografico Massimo Romanazzi
realizzazione scene Antonio Garofano
durata 50'
Napoli, Sala Ichòs, 6 aprile 2013
in scena dal 4 al 7 aprile 2013

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