“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 13 April 2013 02:00

Sull'ibridità di cose e idee. L'arte di Max Frisinger e Shana Moulton

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Che l’arte contemporanea possa fare tutto quello che le passa per la testa già lo si è detto e noi stessi ci abbiamo ragionato a lungo, e la stessa libertà per certi versi assoluta – all’artista si concede tutto, ma proprio tutto – unita al fatto che si tratta proprio di arte, di “prodotto” artistico, di merce nel senso più classico del termine, dove è determinante la relazione tra valore d’uso e valore di scambio, già di per sé immunizza il potenziale eversivo che forme d’espressione anche estreme potrebbero eventualmente portare con sé. Si tratta ovviamente di una forma tutta particolare di cul de sac, all’interno del quale si determina l’aspetto fenomenologico del fare artistico e della ricezione artistica. A noi dà l’idea spesso di uno strano gioco, forse perverso, in cui microcomunità di pensiero e emozione costruiscono una gigantesca macchina, all’interno della quale trovano posto tutti coloro che per scelta interessata o per vocazione – nella contemporaneità (attenzione!) indistinguibili – “giocano” il grande festival della rappresentazione artistica.

Questa esposizione “giocata” in una location straordinaria, i locali della Fondazione Morra Greco, sita nello splendido Palazzo Caracciolo di Avellino, si è data un compito molto particolare, quello di rappresentare, così com’è nelle intenzioni del curatore Jörg Heiser, la densità sfaccettata e geologicamente sovrapposta dell’ibridità napoletana attraverso il vecchio motto di uno dei più grandi intellettuali napoletani di sempre, Giambattista Vico, secondo il quale “l’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose”. Il progetto è interessante proprio in quanto non intende mettere in scena né mostre individuali, né mostre collettive, né imposizioni curatoriali di un tema, né una semplice accozzaglia di artisti differenti che un po’ a caso mettono in mostra la propria arte. L’idea di fondo che guida questo che sarà un vero e proprio ciclo di esposizioni, in cui due artisti alla volta declineranno la propria idea di ibridità giocando tra la propria forma d’espressione e il luogo (il Palazzo, Napoli tutta), è che gli artisti si mettano in gioco in maniera differente, cercando di applicare quel principio secondo il quale soltanto la nostra esperienza del mondo, di per sé condivisa, e in questo caso l’esperienza di Napoli come capitale dell’ibridità, può produrre un fare culturale che possa essere esso stesso condiviso. Nelle intenzioni, un modo particolare di concepire il gesto artistico e il compito dell’arte. La riuscita, poi – come spesso accade nell’arte contemporanea –, è in realtà secondaria, l’arte contemporanea è spesso idea prim’ancora che realizzazione.

E così ci immergiamo in questa duplice esposizione, la prima della serie di quattro duplici progetti, e ci troviamo immediatamente di fronte, il fare artistico di Shana Moulton, artista americana, che, soprattutto a partire da una serie di video, con un gusto “comico” (di quella tipica comicità americana), prende in giro se stessa e il nostro mondo, ripetendo in maniera costante ma scherzosa, martellante ma leggera, la nostra schiavitù verso le cose che ci circondano (divertentissima la scena in boutique in cui gli abiti prendono vita e cominciano a danzare, ammiccando ridicolmente) e contemporaneamente la nostra esasperata ricerca di originalità all’interno di quelle forme un po’ mistiche un po’ New Age, all’interno delle quali, in maniera da risultare noi stessi sempre alla moda, cerchiamo di costruire un senso individuale alla nostra appartenenza al mondo. Ma anche lei ha dialogato con l’ambiente, con la città, e così nel video Swisspering, prendendo spunto dai calchi pompeiani e dal gusto verso le decorazioni di vasi di terracotta, l’artista mette in scena la sua scarnificazione, attraverso quei cerchietti di ovatta che servono a struccare, cerchietti “animati” da una strana e ridicola forza, per cui nell’atto stesso di struccarsi non rimane di lei che una sorta di colata lavica, spersonificazione da un lato ma dall’altro ricerca di una forza vitale al di là delle costruzioni superficiali che rappresentano il “trucco” (in tutti i sensi!) della nostra epoca. Il tutto però – e questo è un pregio – senza alcun intellettualismo di sorta, ma soltanto con il gusto paradossale e comico che il suo volto, da attrice di film muti comici, produce. È una bislacca attrice la Moulton e la serata si chiude con una sua performance “teatrale”, giocata a partire da un dialogo tra il suo corpo e un video proiettato, e da questo spersonalizzante dialogo tra il vivo della sua presenza e il morto della proiezione, si ripercorre tutta l’ironia del suo approccio, strappando sorrisi se non risate al pubblico.

Al primo piano, invece, ci sono le installazioni di Max Frisinger, berlinese di adozione, il cui fare artistico si gioca nella raccolta di materiali per le strade (rifiuti, roba buttata via, sopravvivenze oggettuali) e nella loro ricomposizione a partire da un approccio concettualistico ma fondato sulla concretezza del mondo. Così il creativo tedesco ha presentato una serie di opere il cui impatto è certamente notevole: si possono ammirare grosse e arrugginite ali di un aliscafo che l’artista ha recuperato in un Cantiere Navale del Porto di Napoli (attraverso anche la burocrazia dei permessi, etc.) oppure, in un dialogo strettissimo con gli spazi, la riapertura di una porta del palazzo all’interno della quale si possono “ammirare” le puntellature dovute al terremoto del 1980 dall’artista non soltanto “mostrate” ma anche aggiustate attraverso la messa in scena di nuovi ponteggi. Interessante dal punto di vista dell’impatto visivo anche Via Domenico de Roberto, potente installazione formata da ponteggi in tubi innocenti e strutture varie sulle quali, appese come enormi carcasse di vacche in un macello, materiali bruciati di ogni genere, da gomme d’automobile a chissacché; la nostra attenzione, però, è attratta da certe minuscole piantine che sono riuscite a crescere al di sopra di questi materiali umani troppo umani, non più di due o tre e forse non messe in conto neanche dall’artista ma capitate per caso, ma che per noi hanno rappresentato il punctum dell’installazione. Del resto, se l’artista contemporaneo è del tutto libero di essere libero (come si è detto all’inizio), si conceda anche allo spettatore se non altro di partecipare di questa stessa libertà nell’interpretazione. Altro progetto interessante dell’artista riguarda il ponte pedonale che collegava le due ali del palazzo, il ponte è stato riempito da palloni gonfiabili, acquistati in un negozio cinese, lanciati dagli abitanti del quartiere – insomma dialogo con il luogo e con gli abitanti del luogo, contemporaneamente la globalizzazione delle cineserie, il tutto a creare e ricreare la questione dell’ibridità.

Mentre ce ne ritorniamo verso casa, ci viene da pensare a una cosa. Se nelle intenzioni del ciclo di esposizioni Napoli viene presa come il simbolo/sintomo stesso dell’ibridità, per la sua storia e la sua geologia stratificata, dall’altro è pur vero che Napoli vive ancora della sua dimensione simbolica, vive di un passato che la significa e che la fa divenire immagine di mescolanza e di accoglimento delle diversità. Ma forse è un sogno dal quale napoletani e non-napoletani non vogliono ancora svegliarsi: Napoli sembra sempre di più divenire sì! uno strano ibrido, ma in cui si mescolano le peggiori istanze della modernità e i residui di un passato che non la raccontano più e che lasciano segni del peggiore primitivismo di cui noi, per essere originali, ci vogliamo nutrire a tutti i costi. Il Gennariello di Pasolini non è mai esistito probabilmente, oppure oggi è semplicemente divenuto il branco di giovani che di notte, strafatti a cocaina si sfogano e giocano pestando a sangue e gratuitamente le persone senza neanche il disperato interesse della rapina, che hanno lo smartphone ben conficcato nella tasca e le mani lisce e ben levigate così come i capelli ben fonati e le migliori griffe incastonate nell’abbigliamento. Gennariello esiste ancora e soltanto nel pensiero di chi vorrebbe che Napoli fosse portatrice di istante resistenziali soltanto per il suo essere ancora in dialogo con un passato che è già sempre costruzione ibridata di intellettuali che giungono post festum. L’ordine delle cose è ben oltre, rispetto all’ordine delle idee di cui noi intellettuali napoletani siamo (in)capaci.

 

Hybrid Naples: l’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose. An exhibition series in four stages, featuring eight new solo projects, curated by Jörg Heiser

di Max Frisinger/Shana Moulton

Fondazione Greco Morra

Napoli, dal 4 aprile al 7 giugno 2013        

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