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Thursday, 04 April 2013 19:58

Indagine su di un'indagine

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Se fossimo come l’investigatore cui Molina chiede di “ritrovare diverse persone” ovvero se fossimo – secondo il cliché offerto dalle prime pagine – un segugio dall’olfatto ubriacato che staziona, fisso alla sedia, senza avere davanti un cliente ma l’insieme dei conti che è un insieme di debiti (l’affitto arretrato, le scommesse del poker, le cambiali insolute, qualche pranzo e qualche bottiglia di cui rendere il pagamento dovuto) probabilmente cadremmo nel tranello di reputare Nella zona proibita soltanto un racconto sul tema del doppio: sfoglieremmo distrattamente l’opera fumando la prima sigaretta, annoteremmo qualche citazione su un foglio aspirando la seconda, accenderemmo la terza accostandoci alla finestra e guardando la città nera (mentre il nostro volto, illuminato dal neon guasto di un locale di strip, assumerebbe tonalità vagamente rossicce), poi faremmo cadere la cenere della quarta inserendo il volume tra gli altri del medesimo tema: dove una targhetta sbiadita dice “scritture sulle identità plurime”.

Qui giacciono, naturalmente insolute, le vicende di Markheim (Stevenson) e de Il fu signor Elvesham (Wells), del Gentiluomo Malato (Papini) e de La signora nello specchio (Woolf), di William Wilson (Poe) e di Stefano Gigli, uno e due (Pirandello). Poi, accesa una quinta sigaretta, abbandoneremmo l’ufficio per dirigerci al bar più vicino, dove ci piegheremmo ai bicchieri di whisky, dando distrattamente uno sguardo a una cameriera che passa.
Secondo cliché, appunto.
Ed invece siamo grigi professionisti integerrimi e Nella zona proibita è opera che sottoponiamo ad un supplemento d’indagine perché stimolati dall’idea che si tratti di un mistero leggermente diverso, il cui segreto appartiene ai tre avvistamenti che propone.
Eccoli, in sequenza.
Primo: “Quella notte Molina, terminato il corso all’università, stava rientrando a casa in metropolitana. Mi disse che aveva trascorso parecchie ore in laboratorio e che era stanco morto. Qualche stazione prima della sua, gli si presentò la prima ‘apparizione’ (la chiamò proprio così). Le porte dei vagoni erano chiuse, il treno aveva ripreso la marcia, quando all’improvviso, guardando oltre il finestrino, si vide camminare verso l’uscita, con il suo stesso maglione e i suoi stessi jeans, con gli stessi baffi folti e gli stessi libri sotto il braccio”.
Secondo: “Era notte fonda e Molina si apprestava a rientrare a casa. Nelle strade silenziose, mentre stava per entrare in macchina, si vide di nuovo camminare sul marciapiede di fronte. Questa volta sentì di poter reagire e lo fece. Il poveretto si mise in testa di pedinarsi. Attraversò la strada e accelerò il passo per raggiungersi (cioè, intendiamoci, per raggiungere l’uomo che gli assomigliava). Lo seguì fino alla fine della strada e girò allo stesso angolo dell’altro. Cambiò ancora una volta marciapiede, cercando di mantenersi a una distanza tale da non essere notato, ma che allo stesso tempo gli permise di constatare con orrore che l’altro era lui”.
Terzo: “Molina stava andando a prendere l’aereo che lo avrebbe portato a Parigi. L’avaria di uno dei due motori ritardò la partenza. Quando annunciarono che il guasto era stato riparato, si diresse all’imbarco. Mentre era in fila, vide sfilare, nel corridoio opposto, separato da una vetrata, i passeggeri di un aereo appena atterrato. All’improvviso ebbe un’altra visione. Sì, mi giurò che si vide di nuovo. Questa volta si vide (insomma, lo vide) con in mano la stessa valigia che aveva lui e col suo stesso impermeabile verde”.
La metropolitana, il quartiere che di solito Molina frequenta, l’aeroporto. Ci grattiamo con l’indice la tempia destra e cominciamo a ragionare.
Si tratta, in tutta evidenza, di tre luoghi soliti, conosciuti dal soggetto, frequentati con ordinaria naturalezza. Continuiamo a grattarci la tempia. Si tratta di tre luoghi neutri, ch’egli traversa senza dare attenzione all’intorno, essendo consueti e sicuri. Si tratta – dito ancora alla tempia – di tre luoghi familiari nei quali, d’improvviso, accade qualcosa di inaspettato e spaventoso.
Riflettiamo, poi un’idea.
Ci alziamo dalla sedia, corriamo verso la libreria, afferriamo un volume impolverato e ingiallito – Psicoanalisi dell’arte e della letteratura (Sigmund Freud) – e vi leggiamo da Il perturbante: “Il fattore essenziale per l’insorgenza della sensazione di perturbamento risiede nell’incertezza intellettuale, per cui il perturbante in effetti sarebbe qualcosa in cui non si sa come raccapezzarsi. Quanto più un individuo è ben orientato entro l’ambiente, tanto meno sarà pronto a cogliere l’impressione di un fatto perturbante, correlato a oggetti e avvenimenti propri di quell’ambiente”.
Ci grattiamo ancora la tempia, leggendo di un caso che Freud reputa di particolare interesse: “Il dubbio che un essere evidentemente animato sia veramente vivo”. Dunque “figure di cera, pupazzi, automi” ma anche spettri, apparenze, immagini di sé o degli altri.
Freud scrive che tale tema si collega “al fenomeno del doppio” presentando “personaggi che devono essere considerati identici perché si rassomigliano” al punto tale da avere “in comune conoscenze, sentimenti ed esperienze”. In altri termini “le personalità si duplicano, si dividono e si scambiano. Infine vi è una continua ricorrenza della stessa cosa, la ripetizione delle stesse qualità, o tratti del carattere, e persino degli stessi nomi”.
Il doppio – insiste Freud – è, tuttavia, solo una delle forme possibili del perturbamento. Esso può manifestarsi anche con la reiterata frequenza di uno stesso luogo (“Mi affrettai ad abbandonare la stretta via alla prima traversa ma, dopo aver vagato per un po’ di tempo, mi ritrovai di nuovo nella strada di prima. Affrettai ancora il passo solo per tornare per la terza volta, per un’altra via, nello stesso posto. A questo punto fui preso da una sensazione che potrei definire di perturbamento”) o con la ripetizione casuale di uno stesso dettaglio, ad esempio un numero: “Se incontriamo il numero 62 più volte nella stessa giornata, oppure se cominciamo ad accorgerci che tutto ciò che è contrassegnato da un numero ha sempre lo stesso numero o, in ogni modo, un numero composto dalle stesse cifre”.
Dunque – e ancora ci grattiamo la tempia – ricapitoliamo: un luogo consueto nel quale accade un evento improvviso e inspiegabile; la ripetizione di questo evento; il turbamento di quando questo evento è la visione di un “essere animato” che si dubita “sia veramente vivo”. E la moltiplicazione di personaggi che si rassomigliano, la frequentazione non voluta di una stessa strada, il ritorno ossessivo di uno stesso numero.
Torniamo a Nella zona proibita per testimoniare ciò che Freud ha suggerito.
Con evidenza le citazioni dei tre avvistamenti propongono eventi improvvisi e inspiegabili in luoghi consueti, lo stesso accadimento che tende a ripetersi, l’incertezza impaurita di chi vi assiste. Bene, ora servono prove per gli altri rilievi freudiani.
“Ero stato incaricato di trovare una persona che aveva diverse cose in comune con il mio cliente: stesso fisico, stessa data di nascita, stesse iniziali di nome e cognome, stessa professione, stesso modo di vestire, stessi gusti in cucina” (p.77). Ecco i “personaggi che devono essere considerati identici perché si rassomigliano”. 
Ancora: “Abitavano in una via dallo stesso nome: Copenhague” (p.77). Ecco la condizione di chi si ritrova “per un’altra via, nel medesimo posto”.
Ancora: “Mi strappò di mano le banconote, che corrispondevano solo a due mensilità” (p. 46); “Poi presi due caffè e, per amore della simmetria, li accompagnai con due calvados” (p. 47); “Mi preparò un cocktail e me lo servì con due baci” (p. 49); “Si liberò dal mio braccio per servire due porzioni di dolce” (p. 50).  Ecco l’evenienza in cui “tutto ciò che è contrassegnato da un numero ha sempre lo stesso numero”.
Freud –  divenuto oramai il nostro consulente in questa strana indagine su di uno strano libro che tratta lo strano caso di strane apparizioni – adesso ci ricorda che il doppio come visione di spettri è “in rapporto alla morte e ai cadaveri” e che “il perturbante diventa annunciatore di morte” secondo l’antica credenza “che il defunto divenga nemico del sopravvissuto e cerchi di trascinarlo a dividere con lui la sua nuova vita”. Questo terrore di essere tirati nell’oltretomba rende la psiche fragile, nevrotica, ossessionata, facendo venir meno “la discriminazione tra immaginazione e realtà”. Chi si vede in metropolitana, in strada, in aeroporto – come Molina – prova il timore della pazzia e offre di sé l’immagine del pazzo.
Torniamo a grattarci la tempia (ormai arrossatasi), sfogliando velocemente le pagine di Nella zona proibita: “L’amico Molina mi rassicurò sul suo stato di salute mentale” (p.22); “Avevo riscontrato in Molina una personalità dalle medesime sfumature. In quel momento temevo ancora che il mio cliente fosse completamente fuori di testa” (p. 29); “Molina forse era pazzo” (p. 41); “Molina, più tranquillo visto che aveva la prova di essere sano di mente, mi confessò di averne dubitato in più di un’occasione” (p. 65). Ecco l’apparenza della pazzia, confermata ulteriormente da ciò che – di sé –  è costretto a chiarire il detective che riporta l’intera vicenda: “Non sono uno psicologo o uno strizzacervelli” (p. 29); “Gli dissi che non ero uno psichiatra” (p.65).
Un’ultima notazione, suggerita ancora da Freud, riguarda la natura estetica del racconto e la sua struttura formale: “Nel narrare una storia, uno degli accorgimenti più adatti a creare perturbamento” è “accrescere e moltiplicare gli effetti, molto oltre le possibilità del reale, descrivendo eventi che di fatto non accadono mai o sono estremamente rari” avendo così “un’azione specificatamente direttiva” che si conclude con lo svelamento del trucco, quando ormai è troppo tardi, o addirittura con un’assenza di chiarezza finale: “Lo scrittore ci inganna promettendo di darci la nuda verità, mentre poi la trasgredisce” terminando con “l’impossibilità della verifica” di ciò che ha narrato.
Come inizia Nella zona proibita? Con una promessa di verità: “Ho qui tra le mani la pratica con tutte le annotazioni essenziali per ricostruire la vicenda. Cercherò di inserirle nella narrazione nel modo più fedele possibile” (p. 22).
Come finisce Nella zona proibita? Con l’impossibilità della verifica: “Spero che le menti razionali mi perdoneranno le ipotesi che avanzerò nelle prossime pagine e le conclusioni senz’altro assai discutibili” (p. 77).
Siamo al termine. Smettiamo di grattarci la tempia, pieghiamo all’indietro le scapole, stiriamo le gambe sotto la scrivania, guardiamo il soffitto lasciando cadere il volume tra le altre scartoffie sul tavolo (l’affitto arretrato, le scommesse del poker, le cambiali insolute, qualche pranzo e qualche bottiglia di cui rendere il pagamento dovuto), poi ci alziamo facendo qualche passo mentre – idealmente – ringraziamo il dottor Freud per averci aiutato nell’indagine.
Ci avviciniamo alla finestra.
Fuori la città è nera. Il neon guasto di un locale di strip illumina il nostro viso con tonalità vagamente rossastre. Tiriamo un sospiro, torniamo al tavolo, afferriamo il tomo e lo posizioniamo dove una targhetta sbiadita dice “scritture sul perturbamento”.
Sì, Nella zona proibita di Eduardo Ramos-Izquierdo è una scrittura sul perturbamento.
Convinti ordiniamo il panciotto, il collo della camicia, controlliamo l’ora dal ciondolo appeso al taschino, indossiamo il cappello a falde e il grigio cappotto da grigio professionista integerrimo chiudendo, alle nostre spalle, la porta dello studio: ci siamo meritati anche stasera il bar più vicino, dove siamo soliti piegarci al bicchiere di whisky, dando distrattamente uno sguardo a una cameriera che passa.
Secondo cliché, ovviamente.

 

 

Eduardo Ramos-Izquierdo
Nella zona proibita
a cura e con una nota di Stefano Tedeschi
traduzione di Giulia Pinchetti
revisione di Loris Tassi
Edizioni Arcoiris, Salerno, 2012
pp. 96

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