“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 22 March 2013 12:14

La particolare e disordinata condizione di chi abbia la sconsideratezza e il coraggio di definirsi, al giorno d'oggi, "intellettuale" o "studioso"

Written by 

  Alla stregua dei poeti del Rinascimento e in generale degli intellettuali che cercassero un angolino nel difficile circo(lo) culturale delle corti, mi appresto a cominciare la nota che segue con una dedica/professione d’indegnità al mio mecenate, mutuata direttamente dalle parole di Miguel de Cervantes y Saavedra:

 

AD ANTONIO RUSSO DE VIVO

Marchese di Gibraleón, Conte di Benalcázar e di Bañares, Visconte della Puebla di Alcocer, Signore dei Borghi di Capilla, Curiel e Burgillos.

    In fede della buona accoglienza e dell’onore che l’Eccellenza Vostra fa ad ogni sorta di libri, come si addice ad un principe tanto incline a favorire le buone arti, specie quelle che per la loro nobiltà non si abbassano a servire né a solleticare il volgo, ho preso la determinazione di dare alla luce LA PARTICOLARE E DISORDINATA CONDIZIONE DI CHI ABBIA LA SCONSIDERATEZZA E IL CORAGGIO DI DEFINIRSI, AL GIORNO D’OGGI, “INTELLETTUALE” O “STUDIOSO”, sotto l’usbergo del chiarissimo nome di Vostra Eccellenza; che supplico, con la deferenza che debbo a tanta grandezza, di accoglierlo amabilmente in Sua protezione, affinché all’ombra di Lei, ancorché nudo di quel prezioso ornamento di eleganza e d’erudizione onde sogliono andar vestite le opere composte in casa degli uomini dotti, osi comparire sicuramente davanti il giudizio di taluni che, non sapendosi contenere entro i limiti dell’ignoranza loro, usano condannare con più rigore e meno giustizia le opere altrui.

    L’avvedimento di Vostra Eccellenza considerando la bontà delle mie intenzioni, confido che non vorrà disdegnare la pochezza di così umile omaggio.[1]

 

    Questo per due motivi:

  1. ringraziare ufficialmente et humilemente l’amico Antonio per avermi invitato a partecipare al presente cenacolo dickensiano, e
  2. mettere vigliaccamente le mani avanti riguardo alla probabilissima inadeguatezza (o all’eventuale mancanza di ‘contenuti’) del presente articolo.

    Quando, una decina d’anni fa, vagheggiavo su quale aspetto dovesse avere il luogo in cui uno ‘studioso’ si ritira per tirar fuori le sue fiorite opinioni su questo e su quello, mi si formava ingenuamente in testa una grande stanza arredata in legno scuro nella quale facesse sempre caldo, ma un caldo artificiale e benevolo, creato dall’uomo per contrastare l’altrettanto eterno freddo che imperversava all’esterno. Il mio studio ideale era immerso in una sorta di eternità invernale, ma ben climatizzata (sarebbe più corretto dire riscaldata, essendo l’unica fonte di calore un ottocentesco caminetto) e le librerie a parete contenevano file infinite di volumi lussuosi e dalle costine di uguale altezza. Gli scaffali erano riempiti del tutto dai volumi, ma stranamente nel mio studio immaginario aleggiava la certezza, oltre che dell’impossibilità di doversi mai trovare a soffrire il freddo, di poter immagazzinare infiniti altri libri, che avrebbero miracolosamente trovato posto accanto ai loro compagni, senza per questo ferire l’ordinata estetica dell’ambiente, o essere volgarmente impilati da qualche parte. Al centro della stanza una enorme scrivania, sempre di legno scuro, da cui si vedeva, alla sinistra, il caminetto; di fronte la finestra da cui – ogni giorno e fino a sera inoltrata – entrava una grande quantità di luce di qualità eccellente; a destra un mobile coi liquori. Non vi prendo per il culo. Nello studio che immaginavo c’era un mobile coi liquori, dall’evidente funzione di intrattenere gli ospiti e di rendere più malferma la salute del fico studioso che poteva permettersi di offrire «un brandy» al suo degno visitatore. L’ampiezza della scrivania era, tra l’altro, del tutto inutile, in quanto non occupata da più di un (1) libro, pochi (n tendente a 0) fogli, una (1) penna, un (1) fermacarte dalla forma bizzarra (?), una (1) lampada da scrivania molto ben intonata col resto dell’arredamento, eventualmente un (1) bicchiere di liquore sempre mezzo pieno. Non importava poi che l’abitazione di cui lo studio era parte integrante si trovasse nella “contrada 31” di Scafati (Sa), al confine con Boscoreale (Na) e circondata da speculazione edilizia, serre maltenute, contadini ai limiti della follia, camorristelli in erba e gatti che camminano sulle ringhiere dei balconi e fanno seccare i gerani delle madri pisciandoci sopra: il mio studio ideale doveva essere esattamente così, in perfetta linea con le leggi del bon-ton e della pacatezza. D’altronde, anche l’inquilino di questo luogo ameno aveva, nella mia immaginazione, caratteristiche peculiarissime, quali la mezza età, una evidente e aristocratica stempiatura, barba lunga e curata (o nella sua versione più antiquata, un gran paio di baffoni) e indossava – sempre, invariabilmente – una vestaglia da camera porpora con un qualche personalizzato stemma sul taschino sinistro. Egli sedeva per la maggior parte del tempo alla scrivania, intento a leggere un (1) libro o a scrivere qualcosa di inevitabilmente ‘buono’ e in procinto di essere apprezzato dal grande pubblico di anime affini a cui si rivolgeva. In effetti mi immaginavo la fisionomia dello studioso tipo del tutto simile a quella di Charles Dickens, presa da nobili occupazioni intellettuali e disturbata, nel peggiore dei casi, dal crepitio del fuoco nel camino o dal suono della lingua di un animale domestico (già di per sé pulitissimo e con un nome tipo “Dostoevskij”) mentre, morbidamente disteso sul suo cuscino, attendeva alla sua toletta quotidiana.

    Di seguito qualche scatto del luogo in cui passo la maggior parte del mio tempo libero, interazioni con altri esseri umani escluse:

   Anche le modalità dello ‘studio’ sono diverse da come, da liceale, le immaginavo. La totale immersione, la concentrazione assoluta, la ‘linearità’ di racconto e di lavoro, ritenuti da molti elementi necessari alla produzione di un testo che abbia qualche rilevanza sono, a conti fatti (almeno nel mio caso), un obiettivo di difficilissimo raggiungimento. Durante la sua lunga intervista al giornalista musicale David Lipsky, David Foster Wallace parla della differenza di forma (e quindi, suppongo io, di approccio) tra la letteratura cosiddetta ‘sperimentale’ e il realismo ottocentesco, adducendone le motivazioni, per buona parte, alle mutate condizioni del percepire la realtà circostante. Dice Wallace che "oggi la vita è del tutto diversa da come era allora. La tua vita assomiglia anche solo approssimativamente a una narrazione lineare? Parlo della sensazione che ti dà, delle sensazioni del nostro sistema nervoso";[2] prendendo ad esempio esplicativo, più avanti, Tolstoj, in una considerazione che mi ha fatto ripensare alla modalità percettiva ‘modernista’ di Virginia Woolf, Wallace considera:

    A me sembra che la vita sia simile a una luce stroboscopica, e che mi bombardi di imput. E gran parte del mio lavoro consiste nell’imporre a tutto questo un certo ordine, trovarci un senso. Mentre il modo in cui… forse sono molto ingenuo, ma mi immagino Lev che si alza al mattino, si infila un paio di scarponi fatti in casa, esce a fare due chiacchiere con i servi che ha liberato […] e così via. Si siede nella sua stanza silenziosa, affacciata su dei giardini molto ben tenuti, tira fuori la penna d’oca e… nella più profonda tranquillità, comincia a ricordare delle emozioni.[3]

    Per inciso, questo è ciò che io vedo dalla mia finestra:

 

    Ora, mi rendo conto che il fosso dell’autocommiserazione e della deprecazione gratuita dei tempi presenti è dietro l’angolo, per cui starò ben attento ad evitare il salto senza ritorno nell’ahinoi miseri, ahinoi tapini. Quel che, soffermandomi un attimo a riflettere, mi è sembrato palese, ancorché con tutta probabilità banale in maniera deprimente, è che l’humus di un testo sia destinato ad adattarsi, quasi ontologicamente, alle condizioni dal quale è scaturito. O meglio, scaturendo da quelle condizioni, esso è, per così dire, destinato a rifletterne le caratteristiche, in parole povere a nascere così come nasce. Il nostro habitat è quello dell’interferenza. Su questo credo ci si troverà tutti d’accordo. Il tempo che dedichiamo allo scrivere, il tempo che dedichiamo alla lettura o agli studi, è continuamente bombardato da interferenze comunicative, che se non provengono dall’esterno, provengono da noi stessi. E non è una questione di volontà, attenzione: il multitasking non può essere contrastato (ammesso che sia qualcosa di malvagio-in-sé) in quanto è diventato parte integrante del nostro agire nel reale, del nostro approccio con ciò che ci circonda. L’idea del mio Charles Dickens immaginario, tappato nel suo studio a scrivere per molte ore in uno indisturbato stato di grazia, è tanto affascinante quanto anacronistica:

    E non so come la vedi tu, ma per quanto mi riguarda…quel tipo di letteratura mi piace leggerla, ma non mi sembra per niente vera. La leggo per trovare sollievo da ciò che è vero. La leggo per trovare sollievo dal fatto che, per dire, oggi ho ricevuto cinquecentomila informazioni distinte, delle quali forse venticinque sono importanti. E come faccio a distinguere quali? Mi spiego?[4]

    Negli anni ’90 il principale veicolo di disseminazione dell’Invernale, Freddo Vero Fuori Dello Studio Di Charles era la tv, da cui David Foster Wallace si dichiarava senza vergogna dipendente, e dalla quale, tutto sommato, era più semplice stare alla larga. Oggi c’è l’adsl e, perlopiù, non si può fare a meno di scrivere al computer. Con la connessione adsl sempre in funzione. Pochi cazzi, non c’è possibilità di stare tre ore su un lavoro senza aver subito l’assalto di un terabyte di informazioni e senza averne recepito almeno un 10%. Mentre scrivo queste parole sono venuto a conoscenza della scomparsa di Pietro Mennea, dell’immissione sul mercato della nuova banconota da cinque euro ("più vivace!" a detta del presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi), di onomastici e/o compleanni, del viaggio in Messico – con allegate fotografie – di un conoscente, delle ultime richieste al precario Governo italiano del 'MoVimento 5 Stelle'…

    Una delle principali domande che mi saltano in mente quando rifletto sullo stato delle condizioni attuali medie di lavoro intellettuale riguarda le conseguenze del suddetto stato sullo svolgersi del discorso letterario, nel lungo termine. Da parte mia – la butto lì – credo che la risposta creativa a tempi frammentari e, per dirla con Bauman, ‘liquidi’ come gli attuali, sia una letteratura a sua volta frammentaria e liquida. Una sorta di mutamento, o dissolvimento, dell’impianto romanzesco (già in atto, è  evidente) nel continuum dell’informazione coatta; un disordinato scomporsi della forma narrativa nell'informazione, che inevitabilmente porterà a proseguire il cammino di ibridazione dei generi, una (sana, si spera) commistione tra narrativa, poetica, manualistica, diagnostica, (dis)informazione. Ad oggi, e considerato il contesto, questa mi pare l’unica via percorribile con coerenza. D’altro canto non ho ancora raggiunto la mezza età. E sai mai che un giorno mi compri dei mobili in legno scuro e una vestaglia porpora.    



[1] Miguel de Cervantes y Saveedra, Don Chisciotte della Mancia, Novara, Edipem, 1973, vol. I, p. 16. Edizione decisamente scrausa, della quale mi hanno però sempre affascinato la rilegatura a doppio filo e la copertina, rigida e fregiata. 

[2] David Lipsky, David Foster Wallace, Come diventare se stessi, Roma, minimum fax, 2011, p. 93.

[3] Ivi, p. 94.

[4] Ibid.

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook