Probabilmente sarà stato anche questo a spingere Gaetano De Crecchio nella sua solitaria ed attenta ricerca. E probabilmente, ora che la funzionalità di quelle ferrovie che non sono più battute è decaduta da tempo, si può passare, con maggior convinzione, dall’osservare da dietro un finestrino a compiere il passo decisivo, inoltrandosi a piedi dentro i luoghi che il treno suggeriva, ma che rimanevano celati. Per questo è grande il gusto del cogliere l’essenza di questi ultimi, raccolta e delicatamente conservata da De Crecchio sulla pellicola di tante polaroid, all’interno di un libro d’artista, un pezzo unico, apribile a fisarmonica, fatto di assemblaggi di piccoli materiali cartacei (come ad esempio vecchi biglietti e carte di viaggio) trovati battendo i percorsi di quei binari smessi, “in fase di abbandono o di ammodernamento”, a testimonianza del passaggio, di cui resta adesso l’ombra sbiadita ed impressa sulle fotografie, della vita. Ma il binario stesso è − per l’appunto − non solo fantasma astratto, ma un concreto fantasma di una altrettanto, a suo tempo, concreta presenza. La doppia esposizione che caratterizza lo scatto è la cifra imprescindibile della riflessione visiva incisa sulla memoria, sull’immaginazione, sul ricordo diretto o basato sulla testimonianza altrui.
Sono scorci ferroviari dimenticati della Val di Sangro, momenti in cui la parvenza delle cose si sostituisce e sovraimprime alla visione reale, connotazioni bucoliche o metalliche del paesaggio rappresentate da binari, catene, viadotti, colline, pietre e forme interiori di tempo, ricostruite in una fusione tenue ed onirica, partendo da un ritratto rubato a posti scarni ed intriganti, che vivono in solitudine, come certe persone, in un sistematico, continuo ma spontaneo “(…) tributo alla massicciata nuda e al camminare lento, un tributo al mare, alla collina, alla campagna e alla montagna. Un tributo al territorio, all’archeologia industriale e all’abbandono”. È anche e soprattutto un tentativo di invogliare e di incitare ad intraprendere un cammino del genere, riscoprendo quei sentieri che, allo stesso modo dei tratturi, avremmo il dovere morale di tutelare e ricordare.
E sempre muovendosi sul tema del viaggio, un similare e multiforme invito è stato fatto la sera del 10 novembre in occasione del FLA di Pescara, nella sala adiacente a quelle della mostra, dove, introdotta dalla direttrice del Polo Museale dell’Abruzzo Lucia Arbace, Franca Minnucci ha eseguito alcune letture dalle lettere private di Eleonora Duse, scritte durante i suoi innumerevoli spostamenti ed indirizzate a Gabriele D’Annunzio, il suo “Gabri”. Il momento che in tale occasione l’attrice ha voluto valorizzare è stato quello afferente a ciò che è di norma considerato un tempo morto: gli istanti del viaggiare vero e proprio.
Si tratta di quei periodi trascorsi “a bordo” di un treno, per lasciare un luogo e raggiungere un altro, i momenti in cui il pensiero è spinto a correre veloce dal mezzo che attraversa svariati e contigui ambienti, arrivando a superare la corsa fisica dei vagoni ed a farne una proiezione infinita verso l’avanti (o verso il passato). Non è stata una declamazione quella della Minnucci, la quale ha bensì “cullato” le parole della Duse, facendo vibrare le antiche corde che tiravano e sospingevano quelle emozioni, liberandole per mezzo di un intimo incunearsi tra gli spazi di riflessioni, palpitazioni e flussi di coscienza, come se ci si potesse riallineare all’andamento di quei treni, come se la Duse in persona stesse rivivendo e riscrivendo quelle pagine estemporanee, guidata da un fuoco interiore legato all’amore ed alla passione più profondi, ovvero al melanconico ed insieme gioioso, conturbante slancio verso la vita.
Gaetano De Crecchio
Binari Fantasmi
mostra di fotografia
a cura di Lucia Arbace
Museo Casa Natale di Gabriele D’Annunzio, Pescara
dal 10 novembre 2016 all’8 gennaio 2017
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Franca Minnucci
Vivere in viaggio. Letture dalle lettere di Eleonora Duse
Museo Casa Natale di Gabriele D’Annunzio, Pescara
10 novembre 2016