“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 02 March 2013 07:22

Metabolizzare il presente

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Sala Ichòs apparecchiata come un desco per pochi convitati, commensali per i quali è appannaggio succulento il menù consistente in degustazione della vivanda teatrale.
Chef, maître e cameriere – ovvero autore, regista e interprete – è Elvira Frosini, da sola in scena a tradurre in immagini dinamiche la parola scritta; la scrittura è concitata e ridondante, serrata ed assonante. Imbandendo convivio di parole, si fa mensa del reale cucinandolo in salsa teatrale.

E il teatro ben si presta a quest’azione vivandiera, disponendo degli strumenti atti a far sì che la realtà e la finzione s’intercalino l’una nell’altra, come in un gioco di scatole cinesi.
Nel buio mulinanti mascelle grufolano fragorosa voracità, cui fa seguito e s’accompagna monologare parimenti compulsato. Un microfono e una parrucca bionda s’imprestano al gioco del teatro: in scena l’attrice è sola, il microfono e la parrucca consentono l’uscita (e l’entrata) dal (nel) suo personaggio, parlandone in terza persona, spiegando alla platea come ormai lei, l’attrice, sia “diventata una bocca”. Una bocca che ragiona da bocca e come bocca si proietta: prendendo a pretesto la solitudine in scena, “Avete fame?”, chiede alla platea con cui il diaframma chiamato quarta parete è sfoglia sottile come pasta brisée. “Non è che avete fame e non lo sapete?”, cominciando a svelare la portata principale di un banchetto che minaccia di diventar indigesto: il meccanismo subdolo del controllo delle menti e dei bisogni, che sobilla una voracità indotta, che induce a rimpinzarsi anche di ciò di cui non si ha necessità, ingozzati a forza da quel che il sistema propina mediante consolidati meccanismi automatici, atti a suscitare il bisogno del superfluo. L’individuo è indotto (ridotto) a salivare a comando, come una sorta di cane di Pavlov.
Cannibali cannibalizzati, mangiamo e siamo mangiati, la fame alimenta una forma di cannibalismo, reciproco e parossisitico, per cui si desidera il sangue: “Tu non sei me e io mangio te”, questo è il refrain (sin troppo immediata l’analogia con l'homo homini lupus che Hobbes riprese da filosofo e che Plauto un millennio e mezzo prima aveva già mandato in scena). La ribalta solitaria calcata da Elvira Frosini suggerisce similitudine ellittica: “Sono sola come un pezzetto di carne in mezzo al piatto”; onde ella è al contempo bocca e cibo, così come era attrice e personaggio. Ossessivo e compulsivo è il suo divorare ed il suo essere divorata, si offre come eucarestia di se stessa, le immagini che evoca sulla scena snocciolano ritualità contemporanee dell’accumulazione, da cui non è fatta salva nemmeno la ritualità del sacro, riducendo il precetto evangelico “Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”, ad esternazione d’un sadico, o al massimo di uno che evidentemente doveva sentirsi in colpa, mentre i suoi propalatori (gli evangelisti) figuranti di cartone.
“Mangiatemi” e “Io vi divoro”; intorno a quest’ambivalenza s’apparecchia una bianca tovaglia stesa sul palco, tra i tre figuranti di cartone (Luca, Marco e Matteo). Un minuscolo frigo unico accessorio presente, al suo interno un calice, dentro il calice una compressa effervescente; il frigo è come un confessionale, la penitenza si consuma digerendo, in un singulto l’assoluzione, ma solo dopo aver ingerito ogni sorta di sostanza. Nel frigo non c’è posto per gli spazi vuoti, è fondamentale che ci sia sempre qualcosa da consegnare ad un’attività senza posa che tenga sempre impegnati a mulinar mascelle: ganasce che masticano e non menti che pensano, questo l’assioma sottotraccia.
Quella che era una tovaglia diviene ieratica palandrana che s’avvolge tunica attorno al corpo della Frosini. Sacerdotessa di un sacramentario dell’abbuffata, celebra il credo obeso di un presente perverso: masticando non si pensa, pertanto si sobilla all’ingozzo, ”mangiamo tutto e scordiamo in fretta”, senza assaporare in bocca, senza badare al cibo che diventa bolo, e giù dritto lungo l’esofago, metafora della comunicazione ammannita come pasto succulento, propinata con i surrettizi metodi della persuasione occulta, senza passare attraverso il filtro di qualsivoglia vaglio critico, resettato a forza di bocconi ingollati a forza.
Il rituale – laico – del compleanno svilito di senso dal mesto disincanto della voce di Claudio Lolli (La guerra è finita), fa da prodromo al rituale – sacrale – del presepe in scena, anch’esso dissacrato, in cui la Frosini (eccellente nel tenere il ritmo verbale e la scena), soppianta la Madonna, ribadendo che anche in quell’oasi sacrale, come nella vita, o mangi o ti fai mangiare.
Ancora ritorna il gioco delle scatole cinesi, del teatro nel teatro, con lei che cura la regia del presepe e dell’ultima cena (che è poi anche l’ultima scena), come una prova aperta della cui riuscita domanda al pubblico conferma, un istante prima che sia il buio ad ingoiarla: “E’ venuta bene?”.
Mascherando il singulto di chi satollo s’appresta a deglutire e a lasciare il desco, annuiamo soddisfatti.

 

 

Digerseltz

drammaturgia, regia e interpretazione Elvira Frosini
collaborazione artistica Daniele Timpano
produzione Kataklisma
in collaborazione con
Arti Vive Festival, Officine CAOS/Stalker Teatro, Consorzio Ubusettete
disegno luci Dario Aggioli
materiali di scena Antonello Santarelli
assistente alla regia Alessio Pala
foto Claudia Papini, Michele Tomaiuoli, Antonello Santarelli, Futura Tittaferrante
musiche originali Marco Maurizi
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Teatro Sala Ichòs, 28 febbraio 2013
in scena dal 28 febbraio al 3 marzo 2013

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