“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 06 February 2013 12:45

Come nel 1952

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“Ed ecco il divieto della Governante. Come i lettori potranno vedere, la sostanza della vicenda, narrata in questa commedia, è più la calunnia che l’amore fra le due donne. Nessuno degl’ingenui, in difesa dei quali si batte la censura democristiana, indovinerebbe il vero sentimento che lega la governante alla cameriera. D’altra parte, quest’amore irregolare, mentre in tutte le letterature moderne viene difeso e quasi proposto come modello, qui è condannato. La morale che vige nella commedia è quella provinciale del vecchio Leopoldo. E la peccatrice finisce coll’uccidersi. In che modo viene offesa la morale corrente? Qual è il principio sovvertitore che viene enunciato? Dove sono le scene che potrebbero offendere il candore di una quindicenne (se pure di ragazze quindicenni se ne vedano a teatro)?”.

Censurata da una firma di Andreotti (1952), La governante di Brancati fu vietata al palcoscenico e la sua visione finì posticipata ad un’altra Italia (che era la stessa Italia, qualche anno più tardi). L’autore, di cui abbiamo riportato uno stralcio della difesa trascritta e intitolata Ritorno alla censura, scatta e favella contro l'“erotomania clericale” e la “pruderie morbosa” scudocrociata, pronta a tramutarsi in tagliola illiberale al solo nominarsi del sesso (figurarsi del sesso tra donne, del lesbismo, dell’omosessualità accennata o vissuta).
Eppure quest’opera (“una delle commedie più morali del teatro moderno” secondo Anna Proclemer) colpì Montale (che azzardò, in errore, addirittura un paragone tra Čechov e Brancati) e, ancora di più, colpì Rebora, al quale rubiamo un pezzetto di recensione: “Le troppo sicure definizioni critiche non hanno valore per La governante, o sono soltanto indicative di un discorso più ampio che non si fermi ad un’unica precisazione. Perché qui possiamo dire molte cose: che si tratta del dramma della calunnia, del dramma del rimorso, del dramma del giudizio contro sé stessi, della rappresentazione di un ambiente privo di misure di giudizio, della denuncia della violenza della società contro l’individuo che ‘non si perdona’: e tutto ciò è vero se evitiamo di fermare la commedia nei limiti di un unico tema enunciato”.
Il tentativo – evidente – è di far comprendere che La governante non dava in pasto agli occhi affamati la conturbante vicenduola di una giovane che ama una giovane in un interno borghese patriarcale e doppiamente ipocrito-moralista (la vecchia Sicilia del padre-maschio-padrone trapiantata in un angolo romano, cioè ad un passo soltanto dal balcone del papa) sacrificando per menzogna – in nome di quest’amore – un’altra giovane casta, pura, inetta e paesana; bensì mostra, l’opera, tutto il gravame di grigio e di nero che appartiene a coloro che sogliono dirsi puliti, candidi, senza una macchia: condensazione drammatica delle tonalità di perbenismo sociale di un’Italietta viziosa e bigotta, peccatrice e penitente, cui Brancati vuole fare allusione.
Dunque un’opera del 1952 viene commentata (in quest’articolo) con citazioni del 1952 e, del 1952, sono i temi accennati, i referenti indicati, i contenuti riportati. Perché questa maniera stantia di ragionamento, che ingiallisce la pagina appena scritta facendola risalire a sessantuno anni fa? Perché La governante di Scaparro, veduta al Mercadante, è una messinscena del 1952: filologica, inappuntabile, calibrata come era filologica, inappuntabile, calibrata un’opera “ben fatta” nel 1952.
Come se più d’un sessantennio di teatro fosse invano trascorso.
Basta, in merito, soffermarsi all’arredo perché ciò sia evidente: un interno costruito – a mezzo palco – da quinte che affollano e chiudono ogni scorcio possibile: pareti di cartone azzurrognolo offrono finta carta-parati, finti mobili con finte mensole su cui stazionano finti libri, finti ritratti, finti vasi senza finti fiori mentre illumina, frontale, una finta finestra di vetro finto su cui domina un finto cupolone di San Pietro. Sui lati, in un dovunque ordinato: sedie, tavolo e tavolini, altri vasi, una poltrona, altre sedie, una seduta di velluto rosso e di legno laccato ch’è emblema della presunta patriarcalità della casa.
Siamo all’affollata offerta di mercanzia, senza che nulla di materiale (previsto e prevedibile) ci venga sottratto. La conformazione assunta dal palco (così colma, gravosa ed immobile) è il segno visibile del lavoro non svolto dalla regia: ripresentando La governante ci si sarebbe attesi da Scaparro una sua rilettura, una più sapiente tendenza allo scavo del testo ed alla ricerca (tra le battute, le parole, le lettere) di un senso ulteriore rispetto a quelli d’origine ed invece, di minuto in minuto, ci si rende conto che non di nuova interpretazione si tratta ma di vecchia riproposizione.
Ecco: La governante di Scaparro ci appare una vecchia riproposizione eseguita, certo, con mestiere, dovizia, buon impegno ma senza alcuno sforzo innovativo, senza alcuna tensione inventata, senza le aggiunte in profondo che fanno, di una regia, una vera regia.
Sarebbe bastato – ad esempio – comprendere e porre in rilievo il tema della denuncia di sé per rimando su cui vive tutto il primo atto (durante il quale ogni frase che la governante Caterina pronuncia in riferimento alla povera Jara è, invero, ad ella stessa riferita: “Mi fa pena quella poveretta: sono disgrazie che…” o “Jana, nella sua disgrazia, o colpa se vuol chiamarla così, conserva una tale innocenza!”) che pure trova il suo apice nella parte finale dell’opera, quando scoperta per lesbica dal vecchio Leopoldo, Caterina declama la sua natura di soggetto che ha reso oggettivo ed altrui ciò che vive come proprio patimento intestino: “Perché il ladro non vede che furti… E cominciai a prenderci gusto, un gusto velenoso ma che mi ristorava, nel sentir condannare quella cosa, nel sentirla maledire da lei. Questi scrittori che cercavano di farla passare come priva d’importanza. Mi volevano togliere il rimorso, il mio rimorso, il solo bene che avevo nella vita! Invece lei no! Tutte le sue parole le prendevo per me – Jana non c’entrava – erano coltelli, e la notte me le rificcavo a una a una nel cuore”.
Da questo si sarebbe dedotto che Caterina – per guarire da una colpa che vive come un tormento e un peccato – sceglie proprio una famiglia siciliana sperando in una vita carceraria, reclusoria e privativa, nella quale ogni sconcezza effettiva o presunta desiderava fosse posta alla gogna morale (ed invece si ritrova in un coacervo indistinto di malaffare, di tradimenti, di propensione alla faciloneria carnale più disinvolta).
Da questo – soprattutto – si sarebbe dedotto che La governante (“Ci legge a tutti quello che pensiamo, quello che siamo, quello che abbiamo fatto, sino alla radice del cuore” dice Enrico) è un dramma del linguaggio, in cui la pestilente comprensione di Caterina produce l'identificazione di sé attraverso lo smascheramento degli altri (così la stupidaggine volatile di Elena, l’ottusità intimamente colpevole di Leopoldo, la frigidità sessuale di Alessandro, la passione profanatrice di Enrico servono a Caterina per comporre – con la denuncia dell’altrui mostruosità – il ritratto della propria mostruosità).
Ed invece Scaparro si contenta di lasciare languire, questo ed altri spunti afferrabili, in una buona prova di maniera nella quale tutto si tiene (ogni singola figura, ogni singola vicenda, ogni singola virgola) come tutto si tiene negli empori teatrali di un tempo, allestiti da una regia che si limita all’impeccabile filologia più indolore.
Come fosse un pezzo d’arredo teatrale – un oggetto tra gli oggetti di questa sua scena colma gravosa ed immobile – La governante si ripropone rinverdita al presente ma è un’illusione: è il passato cui si è tolto soltanto la polvere.

 

 

 

La governante
di Vitaliano Brancati
regia Maurizio Scaparro
con Pippo Pattavina, Giovanna Di Rauso, Max Malatesta, Marcello Perracchio, Giovanni Guardiano, Veronica Gentili, Chiara Seminara, Ramona Polizzi
scene e costumi Santuzza Calì
musiche Pippo Russo
luci Franco Buzzanca
produzione Teatro Stabile di Catania
durata 2h 10'
Napoli, Teatro Mercadante, 5 febbraio 2013
in scena dal 5 al 10 febbraio 2013

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