“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 04 January 2013 11:26

Chi mi crederebbe, a Napoli?

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L’incantesimo è finito, finita è La tempesta. Prospero, con al fianco Alonso, guida la nave intatta che fa ritorno verso Napoli. Ariel s’è disperso tra le nuvole, Miranda e Ferdinando si tengono per mano, a prua, sotto il tetto delle stelle. Spariti – come attori alla fine di uno spettacolo – sono Gonzalo e Sebastiano; Adriano, Francesco e Stefano; Trìnculo, i marinai e gli spettri che hanno fatto comparsa breve: Iride, Cerere, Giunone, le ninfe e i mietitori. “Col vostro potere, non lasciatemi in quest’isola brulla, ma piuttosto liberatemi voi con l’aiuto buono delle vostre mani. Il vostro fiato gentile rigonfi le mie vele” ha implorato Prospero, accontentato dal suo pubblico. Cos’è che rimane allora, cos’è che rimane ancora su quest’isola che non è un'isola ma un assito con sipario ma senza quinte e che ha per magnifico fondale la platea di un teatro intero? Cos’è che resta, quando non resta La tempesta?

La carcassa storta e claudicante di Calibano s’alza da dove è stata abbandonata: tra le pietre e il sale, alle radici di una quercia ormai seccata. Un passo, due passi, tre passi: la riconquista dello spazio. Uno sguardo in tondo, un altro sguardo in tondo poi la favella, la parola, la capacità di dire cosa si pensa, cos’è che viene a mente: “Sono tutti partiti!”.
Calibano, metà uomo e metà pesce, bruto costretto alla fatica, figlio del diavolo e di Stesicore, è rimasto solo e può finalmente prendere la scena, farsi protagonista per un attimo, per un attimo sognare il proprio regno, il proprio mondo nuovo: “Saranno aboliti tutti i commerci; non ci saranno ricchi e poveri, padroni e servi; non più contratti, eredità, confini, divisioni di terre e di colture; niente lavoro: gli uomini e le donne staranno in ozio e la natura, spontanea, darà tutto in abbondanza”. Il sogno di Calibano è il sogno di Shakespere e che Shakespeare – ne La tempesta – affida alla voce di Gonzalo (atto secondo, scena prima). Il sogno di Calibano diventa – ne La tempesta di Rosario Sparno e di Le Nuvole – l’ultimo messaggio da passare a chi ascolta (bambini e adulti: bambini con l’attenzione da adulti, adulti con un sorriso da bambini) prima che tutto termini, prima che davvero le luci siano spente, che il sipario sia tirato, che il silenzio prenda il sopravvento. Il sogno di Calibano è la parte utopica di un dramma (dramma romanzesco è detto La tempesta) in cui nulla è vero e tutto è un’apparenza, in cui non si possiede nulla perché tutto s’immagina, in cui non è fondamentale la vista ma la visività ovvero l’infinita percezione data dalle parole, dai suggerimenti, dagli accenni e dalle illusioni della materia, da qualche suono all’aria, da qualche gesto che s’impone.
Il sogno di Calibano è il sogno che resiste ai margini di quest’opera che è tutta una recita, tutta una menzogna e tutta una credenza. Recita di una menzogna cui si dà credenza: La tempesta è teatro, in un teatro.
Per questo l’isola non è un'isola ma un palcoscenico. Dove – infatti – vivono in contemporanea l’inverno e l’estate? Dove possono convivere sorgenti d’acqua dolce e melma lercia, terre sterili e terre fertili, vigne, limonaie e grossi frutteti naturali accanto a rocce acuminate, angoli infangati, caverne buie e diroccate senza che nessuno di questi elementi appena nominati sia veduto, sia tangibile, sia percorribile con gli occhi? Dove risuonano le rane, le bertucce, i ricci e le serpi, i pipistrelli, le scimmie ed i gabbiani senza che uno solo tra questi animali sia davvero udibile? Dove crescono le nocciole tra le conchiglie? Dove i mastini abbaiano con lo stesso tono con cui le cornacchie fanno rumore? Accade nel luogo in cui – con una frase – è possibile “correre sul pungente vento del Nord”, “scendere nel ventre della terra”, “pestare il limo del fondo marino” per poi risalire intatti e asciutti.
Accade nel luogo in cui un uomo si fa mago, una fanciulla si fa spirito, un principe si fa demonio per poi tornare principe, per poi tornare ad essere un demonio. Accade nel luogo in cui si sente sabbia sotto i piedi perché sotto i piedi – resi scalzi – abbiamo il sale; nel luogo in cui da una vasca, che è una stanzetta decorata di rose rosse, compaiono Miranda ed Ariel; nel luogo in cui un gesto addormenta, un altro allontana, un altro ancora zittisce o libera, indebolisce o rende il volo. Accade in palcoscenico.
Per questo l’isola non è un'isola ma è un palcoscenico ed è questo palcoscenico del Mercadante, sul quale sediamo avendo alle spalle il fondo del teatro mentre per fondo della scena ammiriamo tutta la platea con le sue poltrone di velluto, i tappeti rossi del corridoio, i fregi degli ordini e dei posti, i dipinti agli angoli e al soffitto: intuizione ulteriore di Sparno e di Le Nuvole, la visione rafforza e assai nobilita la lettura metateatrale de La tempesta, da cui leggiamo: “Il nostro gioco è finito. Gli attori sono spariti, scomparsi nell’aria leggera. Come l’opera effimera del mio miraggio, si dileguano le torri che salgono alle nubi, gli splendidi palazzi, i templi solenni, la terra immensa e quello che contiene; e come labile finzione, lentamente ora svanita, non lasciano orma. Noi siamo fatti della stessa natura di cui sono fatti i sogni, la breve vita è nel giro d’un sonno conchiusa”. Così il Prospero di Shakespeare ricorda che la tempesta è teatro, che la nave è teatro, che i naufraghi, le torri, gli splendidi palazzi e i templi solenni, la terra immensa e quello che contiene sono teatro; che la bacchetta ed il mantello sono teatro, che l’amore e il dissapore sono teatro, che sono teatro tutte le cose cui si dà credenza pur sapendole menzogna. Così il Prospero di Rosario Sparno ricorda che il sale, l’albero in appoggio, la vasca di ceramica; le quattro rose dritte, i ceppi di legname, le bocce rosse, il modellino della nave e la spada di metallo che giace in terra, gli abiti di metallo rifinito, la lastra di metallo che si percuote sono teatro, che sono teatro questa storia, questo tempo, questo luogo.
Dall’atto terzo, scena terza:
“Credo agli unicorni, ora; e che in Arabia cresca un solo albero, trono alla Fenice, e che là ora regni una sola Fenice”. “Ed io credo all’una e all’altra cosa: e se c’è d’incredibile altro ancora, venga dunque da me e giurerò che è vero”.
“Quando eravamo bambini, chi di noi avrebbe creduto che vivono montanari con giogaie come i buoi, dalla cui gola pendono bisacce di carne? E che ci fossero nel mondo uomini con la testa in mezzo al petto? Pure, c’è chi giura su queste cose, ritornando dal suo viaggio”.
“Se a Napoli raccontassi quello che ho veduto, chi mi crederebbe?”.
Chi mi crederebbe, a Napoli, se raccontassi di un palcoscenico che per un’ora è stato un’isola? Chi mi crederebbe, a Napoli, se dicessi d’aver pestato il sale ch’era sabbia e d’aver visto una fanciulla ch’era uno spirito? Chi mi crederebbe, a Napoli, se dicessi che l’uomo che camminava dritto e principesco, incurvandosi e trascinando la sua destra, diventava così un mostro? Chi mi crederebbe, a Napoli, se raccontassi di Le Nuvole, delle sue storie, dei suoi interpreti, del suo teatro?
Gia… chi mi crederebbe, a Napoli, se raccontassi di teatro?

 

 

 

 

La tempesta
di William Shakespeare
regia e adattamento Rosario Sparno
con Massimiliano Foà, Luca Iervolino, Paola Zecca
installazioni artistiche Antonella Romano
disegno luci Riccardo Cominotto
produzione Teatro Stabile di Napoli, Le Nuvole – Stabile di Innovazione Ragazzi
durata 1h
Napoli, Teatro Mercadante, 3 gennaio 2013
in scena dal 3 al 6 gennaio 2013

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